Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3022 del 10/02/2020

Cassazione civile sez. I, 10/02/2020, (ud. 21/11/2019, dep. 10/02/2020), n.3022

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DIDONE Antonio – Presidente –

Dott. TERRUSI Francesco – rel. Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –

Dott. DOLMETTA Aldo Angelo – Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 6494/2018 proposto da:

T.R., elettivamente domiciliato in Roma, Via Alfredo

Fusco n. 104, presso lo studio dell’avvocato Caiafa Antonio, che lo

rappresenta e difende unitamente agli avvocati Caiafa Flaminia,

Costantino Francesco Saverio, Costantino Giorgio, giusta procura in

calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

M.F., nella qualità di curatore del fallimento della

società di fatto tra L.G.,

C.d.V.G., R.R. e T.R., nonchè dei soci

illimitatamente responsabili, elettivamente domiciliato in Roma,

Viale delle Milizie n. 9, presso lo studio dell’avvocato Romeo

Francesco, che lo rappresenta e difende, giusta procura in calce al

controricorso;

– controricorrente –

avverso l’ordinanza del TRIBUNALE di ROMA in data 6-2-2018;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

21/11/2019 dal cons. Dott. TERRUSI FRANCESCO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale DE

MATTEIS Stanislao, che ha concluso per il rigetto del ricorso, come

da requisitoria scritta depositata in atti;

uditi, per il ricorrente, gli Avvocati Caiafa Antonio e Costantino

Giorgio che hanno chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito, per il controricorrente, l’Avvocato F. Romeo che si riporta al

controricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con sentenza del 21-11-2011 il tribunale di Roma, avendo ravvisato l’esistenza di una società di fatto costituita da L.G., C.d.V.G., R.R. e T.R. al fine di raccolta e gestione del risparmio, e avendone accertata l’insolvenza, ne dichiarò il fallimento, esteso personalmente anche ai soci.

La corte d’appello di Roma respinse il reclamo L. Fall., ex art. 18, ritenendo confermata dagli elementi istruttori acquisiti l’esistenza del rapporto societario tra le suddette persone.

La sentenza venne impugnata da T., con ricorso per cassazione, e la Corte (a sezioni unite, visto che uno dei motivi di doglianza prospettava una questione in tema di giurisdizione) accolse il quinto motivo di tale ricorso, ravvisando il vizio di motivazione della sentenza sul fatto controverso che egli fosse in rapporto di società di fatto con gli altri soggetti sopra indicati. Pertanto cassò la sentenza resa in sede di reclamo solo in relazione al detto motivo, e dispose il rinvio della causa alla medesima corte d’appello (in diversa composizione) ai fini del riesame della dichiarazione di fallimento di T. alla stregua delle doglianze da lui richiamate nel citato motivo di ricorso.

Il processo non venne tuttavia riassunto, sicchè T. chiese al giudice delegato di far annotare al registro delle imprese un provvedimento che desse atto delle conseguenze di tale circostanza, ex art. 393 c.p.c.; chiese inoltre di ordinare la cancellazione delle trascrizioni pregiudizievoli a proprio carico e a favore della massa, e di disporre il deposito del rendiconto del curatore L. Fall., ex art. 116.

Il giudice delegato respinse l’istanza, e il decreto, reclamato ai sensi della L. Fall., art. 26, è stato confermato dal tribunale di Roma con l’ordinanza (rectius, decreto) in epigrafe, che ha negato fondamento alla tesi secondo cui l’art. 393 c.p.c. impone di far conseguire alla mancata riassunzione del giudizio di reclamo l’estinzione del processo di fallimento.

T. ha proposto ricorso per cassazione affidato a un solo motivo, e ha chiesto, con separata istanza, l’assegnazione del ricorso alle Sezioni unite.

La curatela del fallimento ha replicato con controricorso.

Il primo presidente ha rimesso al collegio di questa sezione ogni valutazione a riguardo della citata istanza.

Le parti hanno depositato memorie.

Il procuratore generale ha depositato una requisitoria scritta.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

I. – Col l’unico mezzo il ricorrente denunzia la nullità del provvedimento per violazione degli artt. 111,132,134 e 135 c.p.c., nonchè degli artt. 336,338,393 e 653 c.p.c., L. Fall., artt. 18 e 22, censurando l’affermazione del tribunale secondo la quale al processo fallimentare non sarebbe applicabile la disciplina generale delle impugnazioni, e in particolare l’art. 393 c.p.c. nella parte in cui dispone che in caso di mancata riassunzione o di estinzione del giudizio di rinvio “l’intero processo di estingue”.

II. – Ad avviso del collegio non è necessario investire le Sezioni unite della questione di cui trattasi, per quanto delicata essa sia.

Ai sensi dell’art. 375 c.p.c., comma 2, per la particolare rilevanza della questione di diritto è sufficiente – ed è appositamente prevista – la trattazione del ricorso in pubblica udienza.

Il ricorso è fondato nel senso che segue.

III. – Il tribunale di Roma ha ritenuto che “la particolare struttura del giudizio fallimentare” sia ostativa all'”applicazione dell’art. 393 c.p.c.”.

Questa norma, in tema di giudizio di rinvio a seguito della cassazione della sentenza, prevede che in caso di mancata riassunzione entro il prescritto termine, o in caso di successiva estinzione del giudizio di rinvio, “l’intero processo si estingue”.

Il tribunale ha osservato che gli effetti della sentenza di fallimento possono essere rimossi solo dal passaggio in giudicato della sentenza che ne dispone la revoca, e che la sentenza emessa in sede di reclamo non è destinata a sostituirsi alla sentenza di fallimento tanto che, ove quella di revoca pronunciata in sede di reclamo sia cassata senza rinvio, la prima si stabilizza.

In questa prospettiva ha rilevato che il reclamo ex art. 18 non è assimilabile a una normale impugnazione, ma possiede proprie specificità – e tra codeste va annoverata la previsione secondo cui la dichiarazione di fallimento può provenire solo dal tribunale, ai sensi della L. Fall., art. 22.

Viceversa l’art. 393 c.p.c. – espressione di un “principio derogabile in determinati settori dell’ordinamento in ragione delle loro peculiarità sostanziali e procedurali” – troverebbe base nella efficacia sostitutiva della sentenza d’appello. Avrebbe cioè un’estensione limitata a quei casi in cui la sentenza di primo grado, in quanto già sostituita da quella d’appello, può restare travolta dalla cassazione della decisione sostitutiva.

Tale assetto, ha soggiunto il giudice a quo, non si ritrova nè nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, in cui vale l’art. 653 c.p.c. per come ritenuto da Cass. Sez. U n. 4071-10, nè in quello fallimentare, in cui vale la L. Fall., art. 22.

IV. – Queste considerazioni sono state nella sostanza replicate dal procuratore generale, sia nella requisitoria scritta, sia nel corso della discussione in udienza.

V. – La critica del ricorrente è invece così congegnata.

La prima argomentazione del tribunale – che gli effetti della sentenza di fallimento possono essere rimossi solo dal passaggio in giudicato della sentenza che ne dispone la revoca – non sarebbe in tema, poichè il tema è se la sentenza di fallimento sopravviva o meno all’estinzione conseguente all’art. 393 c.p.c..

La seconda – per cui la decisione emessa in sede di reclamo non ha effetto sostitutivo rispetto alla sentenza di fallimento – non sarebbe a sua volta congruente rispetto alla conclusione circa l’inapplicabilità dell’art. 393 c.p.c., in ragione della particolare struttura del giudizio fallimentare. Desunta dalla L. Fall., art. 22, essa (argomentazione) prescinderebbe infatti dalla doverosa distinzione delle varie ipotesi possibili, visto che la norma citata attiene al solo caso – diverso da quello in esame – in cui il tribunale neghi il fallimento e il reclamo sia accolto.

A loro volta le indicazioni del tribunale a proposito della natura sostitutiva della sentenza d’appello non terrebbero conto che tale natura rileva per l’effetto espansivo esterno quanto alla sorte degli atti del processo esecutivo, più volte oggetto di scrutinio da parte di questa Corte (anche mediante talune delle sentenze richiamate dal tribunale). Sicchè, di nuovo, l’argomento non sarebbe alfine conferente, poichè la questione in tal caso riguarda la sorte del processo per la dichiarazione di fallimento “a seguito dell’estinzione” (rectius, della mancata riassunzione) “del giudizio di rinvio dopo la cassazione della sentenza di rigetto del reclamo”.

Il ricorrente aggiunge che la negazione dell’applicabilità dell’art. 393 al giudizio de quo non sarebbe stata in realtà sorretta da una vera motivazione, tanto da legittimare il ricorso (anche) per violazione dell’art. 132 c.p.c., in quanto nessuno degli argomenti considerati è funzionale a spiegare perchè la norma – volta a compiutamente regolare la fattispecie – non potrebbe essere applicata al caso in questione.

VI. – Può osservarsi che la critica appena mentovata è senza fondamento nella parte in cui postula una carenza di motivazione del provvedimento impugnato, asseritamente rilevante ai sensi dell’art. 132 c.p.c..

La motivazione invero ben si evince proprio dalle considerazioni criticate dal ricorrente, ed è ovviamente specioso identificare la presunta eventuale non condivisibilità di quelle motivazioni con la mancanza di motivazione del provvedimento sul piano strutturale.

In apicibus, deve aggiungersi che la questione sottostante era (ed è) di puro diritto, conseguente all’applicazione di una norma processuale. E in questi casi neppure la mancanza di motivazione ove anche ravvisabile – osterebbe all’esercizio del potere correttivo di questa Corte (v. Cass. Sez. U n. 2731-17), ove il provvedimento fosse comunque pervenuto a un’esatta soluzione del problema giuridico.

Il punto è invece che la soluzione offerta dal tribunale di Roma non è convincente e non può esser condivisa, in quanto basata su una forzatura dei dati normativi oltre che sul travisamento della natura attribuibile all’art. 393 c.p.c., nel contesto della distinzione tra regole processuali e principi derogabili per effetto di principi “altri”, da riscontrare a livello di sistema.

Questo determina la cassazione del provvedimento.

VII. – Non si ha difficoltà a validare la critica di parte ricorrente quanto al primo profilo denunciato, poichè in effetti l’argomento iniziale, speso dal decreto, facente leva sulla stabilizzazione della sentenza di fallimento fino alla revoca con sentenza passata in giudicato, non serve a granchè.

E’ indubbio che gli effetti della sentenza dichiarativa di fallimento possono essere rimossi, sia quanto alla determinazione dello status di fallito, sia quanto agli aspetti conservativi che al medesimo si ricollegano, soltanto col passaggio in giudicato della successiva sentenza di revoca, mentre anteriormente a tale momento può provvedersi soltanto alla sospensione dell’attività liquidatoria (v. Cass. n. 10792-03, Cass. n. 16505-03, Cass. n. 13100-13, Cass. n. 1712114, Cass. n. 1073-18).

Tuttavia sottolineare questo aspetto – come il tribunale ha fatto – non ha rilevanza nel caso concreto, visto che qui non è in discussione la revoca (in sè) della sentenza di fallimento, ma l’interrogativo sulle conseguenze della mancata riassunzione del giudizio di rinvio dopo la sentenza di cassazione: segnatamente dopo la sentenza che ha cassato quella di rigetto del reclamo ai sensi della L. Fall., art. 18.

La differenziazione è ben presente nella giurisprudenza della Corte, essendo stata messa in risalto proprio dalla prima delle decisioni sopra citate (Cass. n. 10792-03).

Codesta, nell’ambito di un giudizio ex art. 111 Cost. avverso un’ordinanza con cui il tribunale fallimentare aveva negato i provvedimenti restitutori richiesti dal fallito sul presupposto dell’intervenuta revoca del fallimento all’esito del (vecchio) giudizio di opposizione, ha confermato il principio generale degli effetti della sentenza dichiarativa di fallimento, rimovibili soltanto col passaggio in giudicato della successiva sentenza di revoca, ma ha anche aggiunto che nessuna rilevanza poteva avere “la sorte che alla sentenza di fallimento sarebbe spettata se il giudizio di opposizione si fosse estinto per effetto della mancata riassunzione dinanzi al giudice di rinvio”, indicato dalla Cassazione, poichè infatti la riassunzione in quel caso era avvenuta.

Simile inciso – seppure risoluto in quella fattispecie, attesa la marginale rilevanza del problema – dimostra che nella giurisprudenza della Corte è ben salda la distinzione del piano concettuale: una cosa è la stabilizzazione degli effetti della sentenza dichiarativa fino al passaggio in giudicato della sentenza di revoca, che rileva laddove (appunto) si discorra della revoca; un’altra cosa è la sorte della sentenza dichiarativa in ipotesi di mancata riassunzione del giudizio di rinvio, ai sensi dell’art. 393 c.p.c..

VIII. – Ora il tribunale, seppur non negando l’astratta applicabilità dell’art. 393 c.p.c. al caso dell’omessa riassunzione del giudizio di reclamo contro la sentenza dichiarativa di fallimento, ne ha sterilizzato gli effetti.

Ne ha sostanzialmente compresso l’ambito in nome dell’essere l’oggetto del giudizio di reclamo costituito dal gravame proposto contro la detta sentenza, e non dall’originaria domanda di fallimento. Cosicchè l’effetto della mancata riassunzione non potrebbe essere quello dell’estinzione dell’intero processo fallimentare, ma unicamente quello dell’estinzione del processo di reclamo.

Questa ricostruzione – che seppure senza menzionarlo evoca l’art. 338 c.p.c., quale applicazione dell’art. 310 c.p.c. – è errata nel presupposto, in quanto l’oggetto del giudizio di reclamo non può scindersi da quello innestato dalla domanda di fallimento, il quale oggi risponde all’archetipo del procedimento giurisdizionale di tipo contenzioso in contraddittorio tra le parti.

In altre parole, non è corretta l’allusione del tribunale al fatto che il reclamo innesti un processo autonomo avente a oggetto il (solo) gravame avverso la sentenza di fallimento, quasi che codesta rimanga all’esterno del giudizio detto.

Ciò poteva trovare un qualche fondamento in relazione al cessato regime incentrato sull’opposizione avverso la sentenza dichiarativa, poichè, secondo il testo originario della L. Fall., art. 18, l’opposizione al fallimento costituiva, in base all’opinione prevalente, un mezzo di impugnazione teso ad avviare un processo di cognizione di primo grado, caratterizzato dalla diretta applicazione delle norme ordinarie del codice di rito anche relativamente alle successive fasi (appello e ricorso per cassazione). Sicchè nel contesto di quella normativa era possibile sostenere – anche a prescindere dalle similitudini che il tribunale di Roma ha poi associato all’art. 653 c.p.c. – che la mancata riassunzione del giudizio di rinvio, in casi simili a quello in esame, avesse a travolgere il (solo) giudizio di opposizione, ferma restando la stabilizzazione della sentenza di fallimento.

Ma nel nuovo modello normativo, conseguente alla riforma delle legge fallimentare di cui al D.Lgs. n. 5 del 2006 e al D.Lgs. n. 169 del 2007, una eguale conclusione non trova alcun supporto, visto che il reclamo ex art. 18 è disciplinato in modo diverso. E’ infatti un procedimento caratterizzato da un effetto devolutivo pieno e attinente a un provvedimento decisorio emesso all’esito di un procedimento contenzioso svoltosi in contraddittorio, suscettibile di acquistare autorità di cosa giudicata.

Anche se tale effetto devolutivo non implica, come pure è stato precisato, che il reclamo possa assumere le forme di una semplice richiesta di riesame, senza cioè formulazione dei motivi (v. Cass. n. 26771-16 e moltissime altre), la constatazione smentisce quanto sostenuto dal tribunale di Roma. Per i fini di cui all’art. 393 c.p.c., le concrete caratteristiche del procedimento di reclamo non consentono di ritenere che l’oggetto del processo sia la (sola) sentenza di fallimento, e non anche i presupposti (naturalmente ove confluiti all’interno delle censure spese col reclamo) della dichiarazione come specificati nella relativa istanza. Chè anzi ritenere che il reclamo fallimentare contro la sentenza dichiarativa provoca un effetto devolutivo pieno conduce necessariamente alla concezione di un giudizio funzionale a sottoporre a una nuova valutazione, nei limiti delle censure sollevate, proprio la domanda formulata col ricorso al tribunale L. Fall., ex artt. 6 e 7.

IX. – Di nessuna rilevanza, da tal punto di vista, è la L. Fall., art. 22.

Questa norma, come sottolineato dal giudice a quo, osta a ravvisare la funzione sostitutiva della sentenza emessa in sede di reclamo, per il fatto che, ove la domanda sia stata respinta, impone alla corte d’appello, in ipotesi di accoglimento del reclamo del creditore ricorrente o del pubblico ministero, di rimettere gli atti al tribunale per la dichiarazione di fallimento.

Vi è però che la regola non può essere enfatizzata per farne un utilizzo esorbitante dai limiti dell’enunciato.

Essa serve a dire che, nella diversa prospettiva del reclamo contro il diniego di fallimento, solo il tribunale (al quale vanno rimessi gli atti), e non anche la corte d’appello, può pronunciare il fallimento medesimo.

Al fondo dell’art. 22 è la struttura duale della dichiarazione di fallimento nel caso specifico ivi disciplinato: struttura derivante da una precisa scelta del legislatore, peraltro ritenuta immune da rilievi di costituzionalità.

E difatti la L. Fall., art. 22 è stato in tale specifico senso considerato non lesivo dei principi costituzionali espressi dall’art. 101 Cost., comma 2, art. 107 Cost., comma 3, e art. 111 Cost., comma 1, poichè in ogni caso esclude, ferma la struttura prescelta dal legislatore, di configurare una subordinazione gerarchica del tribunale alla corte d’appello.

In sostanza la norma è frutto di una precisa scelta legislativa attinente alla struttura duale del provvedimento, in ragione della quale il decreto del secondo giudice, seppur destinato a essere vincolativamente recepito e posto a premessa nella sentenza dichiarativa di fallimento, è pur sempre un provvedimento giurisdizionale, e non costituisce espressione di un potere di supremazia gerarchica di un organo sull’altro (v. C. Cost. n. 310-92, C. Cost. n. 180-72, C. Cost. n. 137-72).

E’ abbastanza chiaro che da qui non conseguono (nè possono conseguire) effetti derogatori alla regola generale di cui all’art. 393 c.p.c..

Nè può seguirsi l’argomentazione del tribunale fino al punto da creare un collegamento essenziale tra l’art. 393 c.p.c. e la funzione sostitutiva della sentenza, quasi che nel caso in cui tale funzione abbia a far difetto l’art. 393 non debba trovare applicazione.

L’essenzialità di un tal collegamento non discende in vero neppure dalla sentenza n. 4071 del 2010 delle Sezioni unite di questa Corte, la quale ne ha fatto menzione a scopo semplicemente esplicativo, e peraltro nella distinta fattispecie dell’opposizione a decreto ingiuntivo.

Sul punto verrà fatto di tornare a breve.

Qui va osservato che l’art. 393 ha la portata di una regola generale, e più volte questa Corte ha evidenziato che la mancata riassunzione del giudizio di rinvio determina, ai sensi dell’art. 393 c.p.c., l’estinzione dell’intero processo, con conseguente caducazione di tutte le attività espletate, salva la sola efficacia del principio di diritto affermato dalla Corte di cassazione.

Per quanto ciò possa spiegarsi, in linea teorica, con la funzione normalmente sostitutiva della sentenza d’appello, è risolutivo che l’ambito dell’art. 393 va oltre la detta funzione.

Che l’eventuale sentenza d’appello, cassata, si sia limitata, per esempio, a definire in rito l’impugnazione della decisione di primo grado, ovvero abbia rimesso la causa al primo giudice, sicchè manchi un effetto sostitutivo rispetto a quest’ultima pronuncia, è cosa che non impedisce di applicare poi l’art. 393 (naturalmente ove ne sussistano i presupposti) – poichè l’art. 393 risponde a una valutazione negativa del legislatore in ordine al disinteresse delle parti alla prosecuzione del processo (v. Cass. n. 6188-14; e v. già Cass. n. 10456-96). Ed è norma di applicazione a tal punto generalizzata che si estende anche al caso della mancata riassunzione del giudizio di rinvio a fronte – per esempio – della cassazione di sentenza resa dalla corte d’appello a seguito dell’impugnazione del lodo arbitrale; nel qual caso la stessa decisione degli arbitri, al pari di una pronuncia di primo grado, si reputa che non conservi validità ma che venga giustappunto essa pure travolta alla stregua della regola generale enunciata (v. già Cass. n. 10546-96 e poi anche Cass. n. 11842-03).

X. – Come dianzi accennato, la sostanziale limitata estensione dell’art. 393 c.p.c. nella materia fallimentare è stata altresì dal tribunale argomentata in comparazione con quanto affermato da questa Corte per il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo (con la ripetuta sentenza n. 4071 del 2010).

Simile prospettiva è fallace e rende chiaro il fraintendimento sulla portata dell’art. 393 c.p.c..

L’art. 393, diversamente da quanto sostenuto dal tribunale di Roma, non esprime “un principio” – che nel decreto si dice “derogabile in determinati settori dell’ordinamento” – ma una regola processuale.

La differenziazione tra principio e regola non è confinabile nell’alveo puramente dogmatico.

Senza scendere nel dettaglio in ordine alle diverse scuole di pensiero nel tempo venutesi a formare in dottrina, è sufficiente osservare che, in tanto è possibile declinare un precetto in termini di principio, in quanto si rinvenga in esso la traduzione di orientamenti e direttive di tipo generale e fondamentale, da desumere in connessione sistematica con altri concorrenti principi tesi a formare il tessuto dell’ordinamento vigente in un determinato momento storico (cfr. la fondamentale C. Cost. n. 6 del 1956).

La peculiarità della definizione di un precetto in termini di principio (per esempio, il principio del contraddittorio) è che il suo peso specifico può essere, nel concreto, misurato in correlazione con quello più o meno forte di un altro eventuale principio (ancora per l’esempio: la ragionevole durata del processo), così da presupporre il concorrente operare di entrambi e, poi, l’eventuale maggior forza dell’uno o dell’altro in un contesto di bilanciamento rilevante nel caso singolo.

L’art. 393 c.p.c., viceversa, non esprime un principio, ma una regola processuale; e la regola non conosce alternativa, nel senso che l’applicazione di essa esclude la contemporanea possibilità di applicarne un’altra confliggente.

In conclusione le regole non si pesano, come efficacemente è stato detto -: esse si applicano o non si applicano, e il loro ambito può essere solo derogato – ove si tratti di regole generali – dinanzi a un’altra regola, speciale e prevalente, rinvenibile a livello di diritto positivo per singole fattispecie appositamente disciplinate.

XI. – Ora nel caso del processo per dichiarazione di fallimento non è dato rinvenire l’esistenza di un’altra regola, speciale e per l’appunto derogatoria, rispetto all’art. 393 c.p.c..

Cosa che invece non può dirsi per l’opposizione al decreto ingiuntivo.

Cosicchè ogni similitudine tra le relative sorti è manchevole, in quanto trascura le differenze di regime normativo per ciascun procedimento riscontrate.

Per il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo vige l’art. 653 c.p.c., che è norma concernente la formazione del titolo esecutivo. Donde può (e deve) in quel caso distinguersi nel senso che, se alla pronunzia sul decreto sia seguita l’opposizione con il suo accoglimento (totale o parziale), e successivamente la sentenza di merito sia stata cassata con rinvio, al processo che non sia stato riassunto nel termine prescritto non si applica l’art. 653 c.p.c., secondo cui a seguito dell’estinzione del processo di opposizione il decreto, che non ne sia munito, acquista efficacia esecutiva, ma l’art. 393 c.p.c., alla stregua del quale alla mancata riassunzione consegue l’estinzione dell’intero procedimento e, quindi, anche l’inefficacia del decreto ingiuntivo opposto; mentre, nel diverso caso in cui l’estinzione del giudizio di rinvio sia successiva a una pronuncia di cassazione di una decisione di rigetto, in primo grado o in appello, dell’opposizione proposta avverso un decreto ingiuntivo, a tale estinzione consegue il passaggio in giudicato del decreto opposto.

Questa seconda prospettiva è diretta conseguenza della specifica previsione del citato art. 653 c.p.c., comma 1, che, limitatamente a questa ipotesi, prevale sul menzionato art. 393 (in tal senso puntualmente Cass. Sez. U n. 4071-10).

Per cui, quanto all’opposizione a decreto ingiuntivo, la natura del giudizio di rinvio quale fase rescissoria del giudizio di cassazione consente di risolvere il problema semplicemente osservando che la sentenza di rigetto dell’opposizione, ai sensi dell’art. 653, non si sostituisce al decreto opposto. Difatti in tal caso la questione attiene alla formazione del titolo esecutivo rispetto all’esito dell’opposizione.

Il titolo esecutivo, ai sensi dell’art. 653, comma 1, resta integrato dal decreto ingiuntivo, e non dalla sentenza che integralmente lo confermi; a fronte invece della previsione di cui al comma 2 per la contraria eventualità dell’accoglimento dell’opposizione, anche parziale.

Il che poi rientra nella particolare conformazione del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, strutturato come un processo di cognizione di primo grado nel quale la citazione in opposizione vale a trasformare in ordinario il processo promosso nelle forme speciali del monitorio (v. Cass. n. 4103-07, Cass. n. 15026-05; Cass. n. 3984-03 e molte altre).

Per tale complessiva ragione può affermarsi che, nella indicata prospettiva, il confine della regola è rispettato dall’inquadramento del giudizio, poichè nell’opposizione a decreto ingiuntivo il “processo”, cui si riferisce l’art. 393, è il processo di opposizione.

XII. – Una eguale conclusione non è predicabile per il reclamo di cui alla L. Fall., art. 18, non solo perchè in questo caso una conforme e specifica regola non è data, ma anche perchè la attuale conformazione di questo giudizio è, come all’inizio si diceva, totalmente diversa.

E quindi, non essendosi al cospetto di caso concretamente disciplinato in senso derogatorio (e prevalente), deve trovare applicazione la regola generale dell’art. 393 c.p.c.. La quale regola serve ad attestare molto semplicemente il nesso che corre, sul piano processuale, tra il giudizio di cassazione e quello di rinvio, a fronte del giudizio concluso con la sentenza impugnata.

Il giudizio di rinvio, come da tempo si dice, non è un nuovo giudizio di impugnazione (sia esso un appello, sia esso un reclamo), ma è ciò che serve alla fase rescissoria conseguente alla cassazione.

L’estinzione dell’intero processo, in caso di mancata riassunzione, è consequenziale all’impossibilità di attivare la detta fase, al punto che l’art. 393 c.p.c., contrariamente a quanto dispone l’art. 338 per l’estinzione del giudizio d’appello – cui consegue il passaggio in giudicato della sentenza appellata – prevede l’estinzione dell’intero processo come conseguenza dell’estinzione del giudizio di rinvio.

L’art. 393 preserva così l’efficacia vincolante della pronuncia di cassazione, con l’unica particolarità che l’estinzione non può toccare le sentenze che (come ribadito da Cass. Sez. U n. 4071-10) abbiano definito il giudizio rispetto ad alcune delle domande, e che siano passate in giudicato poichè non investite dal ricorso per cassazione ovvero che non abbiano formato oggetto della pronunzia di accoglimento di tale ricorso.

Resta quindi decisivo constatare che, nel caso in cui sia mancata la riassunzione del giudizio di cui alla L. Fall., art. 18 a seguito della cassazione della sentenza di rigetto del reclamo fallimentare, l’oggetto dell’estinzione non può essere scisso dal processo nell’ambito del quale era stata adottata la sentenza.

Non può esserlo una volta appurato che il legislatore ha oggi definitivamente abbandonato la visione propria della legge fallimentare originaria, nella quale la sentenza di fallimento era costruita come provvedimento di merito con natura di accertamento costitutivo emesso, però, al termine di una fase a sè stante e a cognizione sommaria – mentre solo l’opposizione alla stessa dava luogo al giudizio a cognizione piena, diretto a verificare la sussistenza dei presupposti oggettivi e soggettivi del fallimento (v. Cass. n. 10527-98, Cass. n. 7002-04). E tanto impedisce ogni accostamento con norme e istituti disegnati secondo la diversa conformazione bifasica – alla quale risponde invece il richiamato art. 653 c.p.c.; conformazione che implica, per rimanere nell’ambito che qui interessa, la fase dell’opposizione quale “prosecuzione” con cognizione piena del procedimento sommario che ha portato alla formazione del titolo (v. in motivazione Cass. n. 1098-10).

XIII. – Il decreto del tribunale di Roma va cassato.

Devesi affermare il seguente principio: “in tema di effetti del giudizio di rinvio sul giudizio per dichiarazione di fallimento, ove la sentenza di rigetto del reclamo contro la sentenza dichiarativa, di cui alla L. Fall., art. 18, sia stata cassata con rinvio, e il processo non sia stato riassunto nel termine prescritto, trova piena applicazione la regola generale di cui all’art. 393 c.p.c., alla stregua della quale alla mancata riassunzione consegue l’estinzione dell’intero processo e, quindi, anche l’inefficacia della sentenza di fallimento”.

Il procedimento è rinviato al medesimo tribunale di Roma che, in diversa composizione, si uniformerà al principio detto e provvederà sulle domande consequenziali.

Il tribunale provvederà anche sulle spese del giudizio svoltosi in questa sede di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa il decreto impugnato e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, al tribunale di Roma.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della prima sezione civile, il 21 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 10 febbraio 2020

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