Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 30211 del 22/11/2018

Cassazione civile sez. VI, 22/11/2018, (ud. 24/10/2018, dep. 22/11/2018), n.30211

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLITANO Lucio – Presidente –

Dott. ESPOSITO Antonio Francesco – Consigliere –

Dott. LUCIOTTI Lucio – rel. Consigliere –

Dott. CRICENTI Giuseppe – Consigliere –

Dott. SOLAINI Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 18532-2017 R.G. proposto da:

B.M., rappresentato e difeso, per procura speciale in calce

al ricorso, dall’avv. Franco DI LORENZO, ed elettivamente

domiciliato presso lo studio legale del predetto difensore, sito in

Roma, alla via Germanico, n. 12;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, C.F. (OMISSIS), in persona del Direttore pro

tempore, rappresentata e difesa dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO

STATO, presso la quale è domiciliata in Roma, alla via dei

Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 201/09/2017 della Commissione tributaria

regionale del LAZIO, depositata il 27/01/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 24/10/2018 dal Consigliere Dott. Luciotti Lucio.

Fatto

RILEVATO

– che, in controversia relativa ad impugnazione di un avviso di accertamento ai fini IVA, IRAP ed IRPEF emesso ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32 e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51 sulla base della verifica delle movimentazioni bancarie effettuate dal, o comunque riconducibili al predetto contribuente nel periodo d’imposta 2009, con la sentenza impugnata la CTR rigettava l’appello proposto dal medesimo avverso la sfavorevole sentenza di primo grado ritenendo “corretta la imputazione dei redditi del contribuente quali redditi di impresa”, effettuata dall’amministrazione finanziaria sul rilievo che le somme dal medesimo percepite costituivano “provvigioni” relative ad un rapporto di agenzia con le società del Gruppo Piccolo, e rilevando che il contribuente, che ne era onerato, non aveva fornito prova della non imponibilità dei versamenti e dei prelevamenti bancari accertati;

– che avverso tale statuizione il contribuente ricorre per cassazione sulla base di un unico motivo, cui replica l’intimata Agenzia delle entrate;

– che sulla proposta avanzata ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c. risulta regolarmente costituito il contraddittorio camerale, all’esito del quale il ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., comma 2, u.p..

Diritto

CONSIDERATO

– che con il motivo di cassazione il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32 e del D.L. n. 193 del 2016, art. 7-quater, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 225 del 2016, sostenendo che, “poichè l’Amministrazione Finanziaria ha considerato il Sig. B.M. lavoratore autonomo, tanto da arrivare ad aprire a suo nome ed in modo autonomo una partita IVA, è evidente che l’onere della prova, contrariamente a quanto sostenuto dalla CTR di Roma, debba gravare sull’Amministrazione Finanziaria, così come previsto dalle specifiche norme di legge applicabili in materia”;

– che il motivo è manifestamente inammissibile avendo il ricorrente omesso di censurare la qualificazione operata dai giudici di appello dei redditi dal medesimo conseguiti, come redditi d’impresa e non come redditi da lavoro autonomo, su cui invece si fonda il mezzo di cassazione in esame;

– che, invero, la CTR ha affermato che quelli conseguiti dal contribuente nell’anno d’imposta in considerazione andavano qualificate “come “provvigione” e quindi relative ad un(…) rapporto di agenzia con le società del gruppo Piccolo” e, quindi, andavano considerati come redditi di impresa, in ciò conformandosi al consolidato orientamento giurisprudenziale in materia, secondo cui “i redditi derivanti dallo svolgimento dell’attività di agente o rappresentante di commercio, riferendosi ad un’attività commerciale secondo la previsione dell’art. 2195 c.c., sono per questa sola circostanza qualificabili come redditi di impresa” (Cass., Sez. 5, Sentenza n. 1411 del 30/01/2003, Rv. 560164; conf. Sez. 5, Sentenza n. 2709 del 12/02/2004, Rv. 570078; Sez. 5, Sentenza n. 15189 del 30/06/2006, Rv. 591584; Sez. 5, Sentenza n. 7899 del 30/03/2007, Rv. 596852);

– che tale statuizione non è stata oggetto di specifica censura da parte del ricorrente, il quale si è limitato a sostenere che era stata l’amministrazione finanziaria a ritenere che il contribuente fosse un lavoratore autonomo; affermazione rimasta sfornita di adeguato riscontro, avendo il ricorrente omesso di trascrivere le parti dell’avviso di accertamento da cui ciò risultasse; nè sulla questione può condividersi l’affermazione fatta dal ricorrente nella memoria depositata, secondo cui “La impugnazione della qualifica del reddito come reddito di impresa è da intendersi certamente implicita nel motivo di ricorso” in esame; invero, quello operato dalla CTR in ordine alla concreta attività svolta dal ricorrente è accertamento in fatto censurabile in cassazione soltanto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ma che il ricorrente ha omesso di dedurre evidentemente per la preclusione operante nella specie per l’applicabilità del principio della c.d. doppia conforme, posta dall’art. 348-ter c.p.c.;

– che, pertanto, in difetto di impugnazione della predetta statuizione d’appello, è evidente la correttezza della conclusione cui è pervenuta la CTR, posto che la presunzione legale posta dalle disposizioni censurate, con riferimento all’attività imprenditoriale, che i giudici di appello hanno accertato essere svolta dal contribuente, opera sia con riferimento ai versamenti che ai prelevamenti effettuati sui conti correnti bancari, gravando sul contribuente lo specifico onere probatorio contrario, che nella specie i giudici di appello hanno ritenuto non assolto, con statuizione anche questa rimasta incontestata (cfr. Cass., Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 11102 del 05/05/2017, Rv. 643970; Cass. n. 19806 e n. 19807 del 2017, nonchè Cass., Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 7951 del 30/03/2018, Rv. 647721);

– che in estrema sintesi il ricorso va dichiarato inammissibile ed il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali nella misura liquidata in dispositivo.

P.Q.M.

dichiara il ricorso inammissibile e condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.600,00 per compensi, oltre al rimborso delle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 24 ottobre 2018.

Depositato in Cancelleria il 22 novembre 2018

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