Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 30206 del 20/11/2019

Cassazione civile sez. VI, 20/11/2019, (ud. 04/07/2019, dep. 20/11/2019), n.30206

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

Dott. MARCHEIS BESSO Chiara – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 17529-2018 proposto da:

A.N.M., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MUZIO

CLEMENTI n. 51, presso lo studio dell’avvocato SANTAGATA VALERIO,

rappresentata e difesa dall’avvocato MANCUSO LIBERO;

– ricorrente –

contro

G.E., rappresentata e difesa dagli avvocati RIVA

IPPOLITA e COPPOLA VINCENZO e domiciliata presso la cancelleria

della Corte di Cassazione;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1634/2017 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA,

depositata il 30/11/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

04/07/2019 dal Consigliere Dott. OLIVA STEFANO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con atto di citazione notificato il 20.7.2011 A.N.M. proponeva opposizione avverso il decreto ingiuntivo n. 2055/2011 emesso dal Tribunale di Bergamo, in virtù del quale le era stato ingiunto il pagamento in favore di G.S. della somma di Euro 140.000,00 quale duplum della caparra confirmatoria versata dall’ingiungente a mani dell’ingiunta in occasione della firma del contratto preliminare di compravendita immobiliare stipulato tra le parti in data 6.2.2009. Nella narrativa dell’atto di opposizione l’ A. contestava l’esistenza del proprio inadempimento ed allegava che il mancato conseguimento della variante in sanatoria, che ella si era impegnata ad ottenere nel contratto preliminare di cui anzidetto, non era dipeso dalla sua volontà ma da fatti a lei non imputabili; invocava quindi la revoca del decreto opposto, la declaratoria di nulla dovere all’ingiungente e la condanna di quest’ultima, in via riconvenzionale, al pagamento dei frutti civili medio tempore percepiti dall’immobile; in subordine, chiedeva che la propria condanna fosse limitata all’importo a suo tempo ricevuto a titolo di caparra (Euro 70.000,00).

Si costituiva la G. deducendo il grave inadempimento della promittente venditrice, che si era impegnata nel contratto preliminare ad ottenere la variante in sanatoria necessaria ai fini della ristrutturazione del bene compromesso in vendita, invocando la conferma del decreto opposto e, in ipotesi, la condanna dell’opponente al pagamento della somma corrispondente alla caparra a suo tempo ricevuta.

Con sentenza n. 723/2015 il Tribunale di Bergamo accoglieva l’opposizione, revocava il decreto ingiuntivo e condannava l’opponente alla restituzione all’opposta della somma di Euro 70.000, compensando le spese del grado. Riteneva il primo giudice che la promittente venditrice avesse dimostrato di essersi tempestivamente attivata per ottenere la variante in sanatoria e che, d’altro canto, la promissaria acquirente non avesse provato l’inadempimento dell’altra parte; riteneva ancora che il mancato rilascio del titolo era dipeso dalla scoperta dell’insistenza di un uso civico sul bene compromesso in vendita, del quale le parti nulla sapevano in precedenza, e che quindi la clausola contrattuale con la quale l’ A. si era impegnata ad ottenere l’autorizzazione in variante dovesse essere interpretata come clausola condizionale, il cui mancato avveramento non era dipeso dalla volontà della promittente venditrice.

Interponeva appello avverso detta decisione G.S. e si costituiva in seconda istanza A.N.M. invocando il rigetto del gravame.

Con la sentenza impugnata, n. 1634/2017, la Corte di Appello di Brescia accoglieva l’impugnazione, ritenendo legittimo il recesso dal contratto preliminare operato dalla promissaria acquirente a fronte del mancato conseguimento della variante in sanatoria prevista nel contratto medesimo e condannava la promittente venditrice al pagamento del duplum della caparra a suo tempo ricevuta, oltre che alle spese del doppio grado di giudizio.

Propone ricorso per la cassazione di tale decisione A. Maria Nevina affidandosi a cinque motivi.

Resiste con controricorso G.S..

In prossimità dell’adunanza camerale la parte ricorrente ha depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo ed il secondo motivo la ricorrente lamenta la violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 4 e 5, perchè la Corte di Appello non avrebbe esaminato il primo e secondo motivo di gravame proposti dalla G., relativi all’incidenza della normativa in materia di usi civici sulla libera disponibilità del bene immobile oggetto del contendere.

Le censure sono inammissibili per due concorrenti profili.

Da un lato, la Corte bresciana ha proceduto ad una complessiva rivalutazione della fattispecie, interpretando la clausola negoziale in virtù della quale la promittente venditrice si era impegnata ad assicurare l’ottenimento di una variante in sanatoria in relazione all’immobile compromesso in vendita, e concludendo che detta pattuizione assicurasse alla parte promissaria acquirente il diritto di invocare la risoluzione del rapporto negoziale in caso di mancato conseguimento della predetta variante nel termine pattuito tra le parti. Ha poi esaminato il comportamento dei paciscenti, evidenziando il fatto che la promittente venditrice si fosse attivata per ottenere il rilascio del titolo autorizzativo da parte del Comune subito dopo la firma del contratto preliminare (cfr. pag.18 della sentenza impugnata). Infine, ha esaminato la questione relativa all’esistenza del diritto di uso civico, dando atto che la sua apposizione risaliva al 2005 e quindi era anteriore alla firma del contratto preliminare di cui è causa, di talchè la promittente venditrice era in grado di conoscere l’esistenza del predetto diritto e di valutarne l’incidenza potenziale sulla progettata compravendita (cfr. pagg.19 e s. della decisione della Corte bresciana). Di conseguenza non si ravvisa alcun profilo di omesso esame, posto che la Corte territoriale ha apprezzato nel merito l’intero contesto del rapporto negoziale tra le parti, anche considerando l’incidenza del diritto di uso civico sul bene compromesso in vendita.

Dall’altro lato, non è secondario rilevare come i motivi di appello che la Corte territoriale – secondo l’odierna ricorrente-avrebbe omesso di valutare erano stati proposti dalla G.; dal che si ricava l’ulteriore profilo di inammissibilità delle censure in esame per difetto di interesse all’impugnazione da parte dell’ A..

Con il terzo, quarto e quinto motivo la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1385,1373,1453,1256,1463,1218 e 1455 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, perchè la Corte di Appello avrebbe erroneamente interpretato la clausola relativa al rilascio della variante in sanatoria sub specie di clausola risolutiva, laddove essa avrebbe dovuto essere piuttosto ricostruita -come aveva fatto il Tribunale – in termini di clausola condizionale, il cui mancato inveramento non era dipeso dal fatto della promittente venditrice ma dalla volontà della pubblica amministrazione. Ad avviso della ricorrente la sentenza impugnata non avrebbe adeguatamente indagato i profili della configurabilità dell’inadempimento colpevole della promittente venditrice (non avendo, appunto, il giudice di merito considerato l’effetto derivante dalla volontà contraria della P.A. al rilascio della concessione) e della gravità del predetto inadempimento.

Le tre censure, che per la loro connessione meritano un esame congiunto, sono inammissibili in quanto si risolvono nella contestazione dell’interpretazione della clausola negoziale di cui è causa che è stata fatta propria dal giudice di merito. Sul punto, occorre ribadire il principio per cui “In tema di interpretazione del contratto, il procedimento di qualificazione giuridica consta di due fasi, delle quali la prima – consistente nella ricerca e nella individuazione della comune volontà dei contraenti – è un tipico accertamento di fatto riservato al giudice di merito, sindacabile in sede di legittimità solo per vizi di motivazione in relazione ai canoni di ermeneutica contrattuale di cui agli artt. 1362 c.c. e ss., mentre la seconda -concernente l’inquadramento della comune volontà nello schema legale corrispondente- risolvendosi nell’applicazione di norme giuridiche può formare oggetto di verifica e riscontro in sede di legittimità sia per quanto attiene alla descrizione del modello tipico della fattispecie legale, sia per quanto riguarda la rilevanza qualificante degli elementi di fatto così come accertati, sia infine con riferimento alla individuazione delle implicazioni effettuali conseguenti alla sussistenza della fattispecie concreta nel paradigma normativo” (Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 29111 del 05/12/2017, Rv.646340; conf. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 420 del 12/01/2006, Rv.586972).

Poichè nel caso di specie la ricorrente contesta l’interpretazione che il giudice di appello ha fornito della clausola negoziale sotto il profilo della ricostruzione della volontà dei paciscenti, le doglianze non superano il vaglio di ammissibilità.

In definitiva, il ricorso va dichiarato inammissibile.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

Poichè il ricorso per cassazione è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è dichiarato inammissibile, va dichiarata la sussistenza, ai sensi del Testo Unico di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dei presupposti per l’obbligo di versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

la Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 6.200 di cui Euro 200 per esborsi, oltre rimborso delle spese generali in ragione del 15%, iva e cassa avvocati come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sesta sezione civile, il 4 luglio 2019.

Depositato in Cancelleria il 20 novembre 2019

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