Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 30176 del 30/12/2011

Cassazione civile sez. un., 30/12/2011, (ud. 06/12/2011, dep. 30/12/2011), n.30176

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VITTORIA Paolo – Primo presidente f.f. –

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente di sez. –

Dott. SEGRETO Antonio – rel. Consigliere –

Dott. RORDORF Renato – Consigliere –

Dott. CECCHERINI Aldo – Consigliere –

Dott. AMATUCCI Alfonso – Consigliere –

Dott. MACIOCE Luigi – Consigliere –

Dott. BUCCIANTE Ettore – Consigliere –

Dott. AMOROSO Giovanni – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

S.F. ((OMISSIS)), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIALE ERITREA 20, presso lo studio dell’avvocato GREGORIO

CORDELIA MARIA RITA, che lo rappresenta e difende, per delega a

margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

PROCURATORE GENERALE RAPPRESENTANTE PUBBLICO MINISTERO PRESSO LA

CORTE DEI CONTI, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA BAIAMONTI 25;

– controricorrente –

e contro

V.P., + ALTRI OMESSI

;

– intimati –

avverso la sentenza n. 36/2011 della CORTE DEI CONTI – 1^ SEZIONE

GIURISDIZIONALE CENTRALE – ROMA, depositata il 02/02/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

06/12/2011 dal Consigliere Dott. ANTONIO SEGRETO;

udito l’Avvocato Cordella Maria Rita GREGORIO;

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. CICCOLO

Pasquale Paolo Maria, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con la sentenza depositata il 2.2.2011, la sezione prima giurisdizionale centrale della Corte dei conti parzialmente confermando la sentenza di primo grado n. 107/2009, della sezione giurisdizionale regionale della Corte dei conti per la Campania, ha condannato il DR. S.F. a risarcire Euro 107.746,92 all’IPAB “Fondazione Banco di Napoli per l’Assistenza dell’Infanzia”.

La sentenza di primo grado aveva condannato il dr. S. ed altri componenti del C.d.A dell’IPAB medesima, perchè ritenuti responsabili di aver arrecato danno erariale all’ente, attraverso alcune determinazioni illegittime, concessive di vantaggi patrimoniali ingiustificati a consiglieri, componenti del C.d.A. (del. n. 10 del 2002), in assenza di apposita previsione nella normativa statutaria, ed al presidente della commissione consiliare di assistenza (Delib. n. 4 del febbraio 2004) e per avere erogato dotazioni finanziarie in favore di due distinte fondazioni di diritto privato (provvedimento n. 24 del 18.9.2003), in contrasto con le finalità di natura meramente assistenziale, nonchè per l’erogazione di una indennità onnicomprensiva (delib. n. 11 del 2002) per remunerare l’incarico di presidente dell’ufficio di rappresentanza in (OMISSIS) (a fronte di previsione statutaria di gratuità delle cariche), oltre alle spese connesse. Il giudizio di appello veniva proseguito nei confronti dei soggetti che non avevano presentato istanza di definizione agevolata ( D., S.) e di chi non aveva perfezionato il procedimento di definizione agevolata ( C.). La sentenza di appello affermava la propria giurisdizione nella fattispecie sul rilievo che la fondazione del Banco di Napoli in questione costituisse un IPAB di diritto pubblico, attesi la modalità della sua costituzione ed il soggetto fondatore della stessa nonchè la composizione del consiglio di amministrazione. La sentenza confermava la condanna dei tre appellanti rideterminando la quantificazione del danno.

Avverso la sentenza S.F. ha proposto ricorso per Cassazione ed ha anche presentato memoria. Resiste con controricorso il P.G. presso la Corte dei Conti.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione del D.P.C.M. 16 febbraio 1990, art. 1 violazione della L. 14 gennaio 1994, art. 1 come sostituito dal D.L. n. 543 del 1996, del R.D. 12 luglio 1934, n. 1214, art. 13, in rapporto all’art. 103 Cost. e dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 1. Vizio di motivazione della sentenza.

Il ricorrente lamenta il difetto di giurisdizione, sostenendo la natura privata dell’IPAB “Fondazione del Banco di Napoli per l’assistenza all’infanzia” e l’erroneità della sentenza impugnata che ha motivato sulla base del diniego della regione in ordine all’iscrizione della Fondazione nel registro delle persone giuridiche, in applicazione del D.Lgs. n. 207 del 2001. Secondo il ricorrente la natura giuridica privata si doveva desumere dagli effetti della sentenza della Corte Costituzionale n. 396/1988 e dalla “ispirazione religiosa” dell’ente che, secondo il D.P.C.M. del 1990, art. 1 costituisce elemento sufficiente per affermare la natura di soggetto privato.

2. Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione della L. 14 gennaio 1994, n. 20, del R.D. 12 luglio 1934, n. 1214, art. 13, in rapporto all’art. 103 Cost. ed all’art. 360 c.p.c., n. 1.

Secondo il ricorrente, a prescindere dalla veste formale della fondazione, alla stessa va comunque riconosciuta natura di soggetto privato in relazione alla circostanza che le risorse utilizzate e per le quali è stata affermata la responsabilità, sono risorse private provenienti dal patrimonio dell’ente o da donazioni e pertanto il danno si è prodotto sul patrimonio di detto soggetto privato.

Inoltre lo stesso rapporto giuridico tra esso ricorrente e la fondazione avrebbe carattere privatistico, con esclusione di responsabilità amministrativa.

3. Con il terzo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione del R.D. 12 luglio 1934, n. 1214, art. 52R.D. 18 novembre 1923, n. 2440, art. 81 ed 82, ed art. 103, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 1.

Secondo il ricorrente la giurisdizione contabile è ammessa sia con riferimento a gestioni di risorse pubbliche nell’esercizio di poteri autoritativi, sia quando l’ente persegue proprie finalità istituzionali anche mediante attività disciplinata dal diritto privato. Secondo il ricorrente va esclusa la giurisdizione della Corte dei conti sull’azione di responsabilità a carico di amministratori, allorchè si tratti di atti posti in essere nell’ambito della gestione dell’ente con strumenti privatistici dell’attività interna, con esclusione dell’esercizio di poteri pubblicistici di autorganizzazione, come appunto ricorrerebbe nella fattispecie.

4.1. I suddetti tre motivi di ricorso, stante la loro connessione, vanno esaminati congiuntamente.

Essi sono infondati. Va, quindi, affermata la giurisdizione della Corte dei conti.

Va, anzitutto, esaminato il problema della natura giuridica della Fondazione Banco di Napoli per l’Assistenza della Infanzia, eretta in ente morale, con la L. 30 gennaio 1939, n. 283, art. 1.

Il problema della natura giuridica degli enti di assistenza e beneficenza è stato affrontato, con la sentenza 7 aprile 1988, n. 396, dalla Corte costituzionale, la quale ha dichiarato l’illegittimità della L. 17 luglio 1890, n. 6972, art. 1, che definiva “pubbliche” le istituzioni regionali ed infraregionali di assistenza e beneficenza, osservando che la detta normativa appariva, ormai, contraria al principio pluralistico cui si ispira la Costituzione, oltre che alla nuova realtà sociale. In questo mutato contesto le istituzioni di assistenza e beneficenza non potevano che essere considerate pubbliche o private a seconda delle specifiche caratteristiche organizzative e strutturali in concreto sussistenti.

4.2. Detta sentenza indusse questa Corte a ritenere: a) che fosse compito del giudice ordinario, chiamato a risolvere la questione di giurisdizione, l’accertamento della natura pubblica o privata dell’istituzione già appartenuta a quelle di assistenza disciplinate dalla L. n. 6972 del 1890: traendo di ciò conferma dalla motivazione della Corte Costituzionale e della sede – (giudizio pendente davanti ad un giudice ordinario) – in cui era intervenuta la pronuncia d’incostituzionalità, che il riconoscimento della natura pubblica o privata comporta il mero accertamento di un diritto, garantito dalla Costituzione; b) che l’accertamento stesso dovesse essere compiuto tenendo conto delle concrete caratteristiche proprie delle istituzioni prese in considerazione e facendo ricorso ai criteri tradizionalmente indicati dalla giurisprudenza ai fini della distinzione tra enti pubblici e privati, a prescindere dalle denominazioni assunte e dalla stessa volontà degli organi direttivi (Cass. S.U. 18 novembre 1988 n. 6249; Cass. S.U. 29 marzo 1989 nn. 1543, 1544, 1545; Cass. S.U. 13 luglio 1989 n. 3283; Cass. 26 ottobre 1989 n. 4403; Cass. S.U. 19 dicembre 1989 nn. 5680 e 5681).

4.3. In data 16 febbraio 1990, il Presidente del Consiglio dei Ministri emise un decreto, contenente la direttiva alle Regioni in materia di riconoscimento della personalità giuridica di diritto privato alle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza a carattere regionale ed infraregionale (G.U. n. 45 del 23.2.1990). Nel preambolo di tale decreto, si faceva espresso riferimento non soltanto alla sentenza costituzionale 396 del 1988 ed al D.P.R. n. 616 del 1977, art. 14, riguardante la delega alle Regioni delle funzioni amministrative degli organi dello Stato concernenti le persone giuridiche di cui all’art. 12 c.c., operanti in materia di assistenza e beneficenza pubblica, ma anche all’esistenza di principi generali dell’ordinamento, che consentivano di qualificare come pubblica o privata un’istituzione.

Enucleando da tali principi criteri specifici, il decreto stabilì tre categorie di enti, di cui doveva essere riconosciuto il carattere di istituzione privata; 1) gli enti a struttura associativa, per la cui sussistenza devono ricorrere congiuntamente i seguenti requisiti:

a) costituzione dell’ente per iniziativa volontaria dei soci o di promotori privati; b) esistenza di disposizioni statutarie che attribuiscano ai soci un ruolo qualificante nel governo e nell’amministrazione dell’ente, nel senso che i soci provvedano alla elezione di una quota significativa dei componenti dell’organo collegiale deliberante; c) esplicazione dell’attività dell’ente anche sulla base delle prestazioni volontarie dei soci; 2) quelli promossi ed amministrati da privati, anch’essi subordinati alla compresenza di tre requisiti: a) atto costitutivo o tavola di fondazione posti in essere da privati; b) esistenza di disposizioni statutarie che prescrivano la designazione da parte di associazioni o di soggetti privati di una quota significativa dei componenti dell’organo deliberante; c) che il patrimonio risulti prevalentemente costituito da beni risultanti dalla dotazione originaria o dagli incrementi e trasformazioni della stessa ovvero da beni conseguiti in forza dello svolgimento dell’attività istituzionale; 3) infine, gli enti d’ispirazione religiosa.

4.4. Il D.P.C.M. fu impugnato davanti alla Corte Costituzionale, con denuncia di conflitto di attribuzioni dalle Regioni Emilia – Romagna e Toscana, ma fu ritenuto pienamente legittimo dalla Corte Costituzionale con la sentenza 466 del 16 ottobre 1990. La Corte, dopo aver rilevato che le IPAB non erano enti dipendenti dalle Regioni e che le funzioni a queste ultime spettanti riguardo alle prime rientravano tra quelle delegate e non tra quelle loro trasferite dallo Stato – (da qui, la legittimità del decreto) -, ribadì, con ancor maggior chiarezza di quanto non avesse in precedenza fatto con la sentenza del 1988, che la qualificazione come privata di un’istituzione comportava un’attività di mera verifica di una situazione già esistente, senza esercizio alcuno di discrezionalità, tanto da poter essere compiuto in sede giudiziale.

Ne veniva così confermato l’orientamento di queste Sezioni Unite, secondo il quale avevano ad oggetto diritti soggettivi non soltanto le controversie in cui fosse in gioco l’esistenza di una IPAB, ma anche quelle concernenti il modo dell’esistere dell’istituzione e cioè la sua natura pubblica o privata e, quindi, l’individuazione della disciplina in concreto applicabile (Cass. sez. un. 12377/2008;

4291/2008; 7843/2003; 13666/2002). Quindi al fine di stabilire la natura giuridica pubblica o privata degli enti di assistenza pubblica deve farsi ricorso ai criteri indicati dal D.P.C.M. 16 febbraio 1990, (ritenuto legittimo dalla sentenza della Corte costituzionale n. 466 del 1990): ciò a fini esemplificativi , in quanto tali criteri sono ricognitivi dei principi generali dell’ordinamento (Cass. Sez. U. 06/05/2009, n. 10365 ; Sez. U, Ord. n. 28537 del 02/12/2008).

5. Un applicazione di tali criteri deve ritenersi che nella fattispecie la Fondazione Banco di Napoli per l’assistenza dell’Infanzia conserva la sua natura di soggetto di diritto pubblico.

Come correttamente rilevato dalla sentenza impugnata, mancano, infatti almeno i primi due requisiti previsti nelle ipotesi n. 1 e 2 di cui al D.P.C.M. 16 febbraio 1990, per poter affermare la natura privata della fondazione.

Manca sia il carattere associativo dell’istituzione, sia la sua costituzione da parte di privati. Tale Fondazione fu istituita ed eretta in ente morale, nel 1939, dal Banco di Napoli, che era un istituto di diritto pubblico e tale è rimasto fino all’entrata in vigore della L. 30 luglio 1990, n. 218.

Inoltre, e soprattutto, come emerge dall’art. 8 dello Statuto adottato con Delib. commissariale 9 novembre 1994, n. 163 ed approvato dalla regione con D.P. giunta 7 dicembre 1999, n. 17274, il consiglio di amministrazione è composto da 8 membri, compreso il presidente, designati: 1 dal presidente della giunta regionale; 1 a turno per ogni rinnovo del c.d.a. dalle amministrazioni provinciali della Campania; 1 dal Comune di Napoli; 1 dalla Curia di Napoli; 1 dal tribunale per i Minorenni di Napoli; 1 dalla Prefettura di Napoli; 1 dalla Direzione del Banco di Napoli; 1 dal rettore dell’Università di Napoli tra professori ordinari o associati, titolari di insegnamento attinente alle finalità della fondazione.

Ne consegue che 6 degli 8 componenti del c.d.a. provengono da nomine da parte della P.A..

Non può quindi parlarsi di istituzione promossa ed amministrata da privati, secondo i criteri indicati dal predetto D.P.C.M..

5.2. Corretta mente la sentenza impugnata ha escluso anche l’ispirazione religiosa dell’ente, contrariamente a quanto assunto dal ricorrente.

Il D.P.C.M. del 1990, art. 1, comma 6 specifica che “sono considerate istituzioni di ispirazione religiosa quelle per le quali ricorranno congiuntamente i seguenti elementi: a) Attività istituzionale che persegua indirizzi religiosi o comunque inquadri l’opera di beneficenza e di assistenza nell’ambito di una finalità religiosa;

b)Collegamento dell’istituzione ad una confessione religiosa, realizzato per il tramite della designazione, prevista da disposizioni statutarie, di ministri del culto, di appartenenti ad istituti religiosi, di rappresentanti di attività o di associazioni religiose ovvero attraverso la collaborazione di personale religioso come modo qualificante di gestione del servizio”.

Esattamente la sentenza impugnata ha, invece, rilevato che risulta dalle norme statutarie che le finalità della fondazione sono l’assistenza, l’educazione, l’istruzione e la formazione professionale dei minori in condizioni ambientali disagiate, senza alcun collegamento istituzionale con organismi confessionali.

Nè la presenza di un solo delegato della Curia di Napoli su ben 8 componenti del consiglio di amministrazione di cui 6 di nomina da organi pubblici ed un settimo dal Banco di Napoli (fondatore), può caratterizzare il consiglio o l’attività della fondazione come religiosi.

La mancanza di tali 2 requisiti comporta che debba essere esclusa la natura privata della fondazione, dovendosene invece affermare quella pubblica.

5.3.Di nessun rilievo sono invece le circostanze del controllo da parte del presidente della giunta regionale e del mancato riconoscimento della personalità giuridica privata (pur richiesta dalla Fondazione, ma non concessa – pare – per mancata produzione di documentazione nei termini).

Infatti alla regione competono i poteri di vigilanza e di controllo stabiliti dall’art. 25 c.c. e dal D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, art. 25 su qualsiasi fondazione privata.

5.4.Egualmente irrilevante nella fattispecie è il mancato riconoscimento della natura privatistica dell’ente per mancata produzione della documentazione secondo la procedura prevista dalla L. n. 207 del 2001.

Infatti spetta pur sempre al giudice il compito di vagliare la ricorrenza dei requisiti fissati dalla disciplina di settore per accertare la natura della istituzione (non fosse altro perchè, come affermato dalla citata decisione della Corte costituzionale e dalla stessa richiamata giurisprudenza di questa Corte, l’atto della Regione ha valore meramente ricognitivo ed a tale compito può attendere anche il giudice).

Per le ragioni sopra dette deve ritenersi che correttamente la sentenza impugnata ha concluso per la natura pubblica della Fondazione in questione.

In merito alla natura di ente pubblico della “Fondazione Banco di Napoli per l’assistenza dell’infanzia”, la sez. 5^ di questa Corte aveva già deciso con sentenza 30.12.2009, n. 28023 in un giudizio tributario, con ciò accogliendo la tesi sostenuta dalla stessa Fondazione, il resistente contro il Ministero dell’Economia e Finanze, che sosteneva la tesi contraria.

6.1. Poichè il ricorrente S. era componente del CdA della Fondazione in questione, e poichè la stessa ha natura di soggetto pubblico per le ragioni suddette, sussiste quindi la giurisdizione della Corte dei Conti in relazione alla responsabilità amministrativa addebitata al ricorrente in danno della stessa Fondazione.

E’ quindi completamente inconferente la ritenuta violazione della L. 14 gennaio 1994, n. 20, art. 1 in quanto nella fattispecie la responsabilità del ricorrente è stata affermata non quale privato estraneo alla Fondazione, ovvero quale amministratore di un ente diverso, ma quale componente del Consiglio di amministrazione dello stesso soggetto pubblico che aveva subito il danno.

6.2. Egualmente infondata è la censura secondo cui il danno preteso investiva risorse private della Fondazione e che gli atti di gestione erano stati posti in essere avvalendosi di strumenti privatistici.

Anzitutto – quanto alla prima censura – le risorse economiche, a prescindere dalla loro provenienza, per il fatto stesso che entrano nel patrimonio di un ente pubblico ed assumono la destinazione di finalità pubbliche, vanno considerati beni pubblici, con la conseguenza che il danno che l’ente subisce in merito a tali risorse costituisce danno al patrimonio dell’ente.

6.3. Quanto alla seconda censura, spettano alla giurisdizione della Corte dei conti i giudizi di responsabilità amministrativa promossi anche nei confronti di amministratori e dipendenti di enti pubblici economici per i fatti commessi dopo l’entrata in vigore della L. 14 gennaio 1994, n. 20, art. 1, comma 1. Nell’attuale assetto normativo, infatti, il dato essenziale che radica la giurisdizione contabile è rappresentato dall’evento dannoso verificatosi direttamente nei confronti dell’Ente e non più dal quadro di riferimento – pubblico o privato – nel quale si colloca la condotta produttiva del danno (Cass. S.U. n. 8492 del 14/04/2011; Cass. (Ord.), Sez. U., 15/02/2007, n. 3367).

7. Con il quarto motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione della L. n. 14 gennaio 1994, art. 1, comma 1 mod. da D.L. 26 ottobre 1996, n. 543, art. 3 nonchè eccesso di potere giurisdizionale.

Secondo il ricorrente la sentenza ha violato il divieto di sindacato nel merito delle scelte discrezionali, censurando le deliberazioni con le quali gli amministratori hanno deciso di realizzare 2 fondazioni e creare un osservatorio a Roma.

8.1. Il motivo è infondato,allorchè ritiene che la sentenza impugnata abbia violato il divieto di sindacato nel merito.

Secondo la giurisprudenza di queste S.U., ia Corte dei conti, nella sua qualità di giudice contabile, deve verificare la compatibilità delle scelte amministrative con i fini dell’ente pubblico, sia pure nei termini costituiti dalla L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 1.

Infatti, se da un lato, in base alla L. 14 gennaio 1994, n. 20, art. 1, comma 1, l’esercizio in concreto del potere discrezionale dei pubblici amministratori costituisce espressione di una sfera di autonomia che il legislatore ha inteso salvaguardare dal sindacato della Corte dei conti, dall’altro lato, la L. n. 241 del 1990, art. 1, comma 1, stabilisce che l’esercizio dell’attività amministrativa deve ispirarsi ai criteri di “economicità” e di efficacia, che costituiscono specificazione del più generale principio sancito dall’art. 97 Cost., e assumono rilevanza sul piano della legittimità (non della mera opportunità) dell’azione amministrativa.

Pertanto, la verifica della legittimità dell’attività amministrativa non può prescindere dalla valutazione del rapporto tra gli obbiettivi conseguiti e i costi sostenuti (Cass. S.U. 9.7.2008,n. 18757; 29 settembre 2003, n. 14488; Cass. S.U.28 marzo 2006, n. 7024).

Non vi sono ragioni per discostarsi da questo orientamento.

8.2. La Corte dei conti ha, quindi, rispettato i limiti della “riserva di amministrazione” e non ha violato i limiti esterni della propria giurisdizione sia nel valutare anzitutto illegittima l’attribuzione di indennità di funzioni, quando lo statuto ne prevedeva la gratuità sia nel valutare le dotazioni finanziarie di Euro 516.000 ciascuna a favore di 2 fondazioni di diritto privato nonchè le somme impiegate per costituire a Roma un osservatorio, inadeguate ed estranee rispetto al fine pubblico da perseguire (Cass. S.U. 5.3.2009, n. 5288), tenuto anche conto che attraverso la creazione di nuovi soggetti privati i consiglieri deliberanti garantivano a se stessi altre cariche e funzioni ben retribuite.

8.3. Quanto alla censura di eccesso di potere giurisdizionale, nei termini in cui è stata proposta, è inammissibile, poichè il motivo di ricorso si risolve nella sostanza in una censura di cattivo esercizio da parte della Corte dei Conti della propria giurisdizione, vizio che, attenendo all’esplicazione interna del potere giurisdizionale conferito dalla legge al giudice contabile, non può essere dedotto dinanzi alle sezioni unite della suprema corte (Cass. S.U. 19/01/2007, n. 1136).

Invero il sindacato di questa Corte sulle sentenze del giudice contabile è limitato, ai sensi dell’art. 111 Cost. “per soli motivi inerenti alla giurisdizione” cioè per lo sconfinamento del giudice contabile nelle competenze di altra giurisdizione o di altro potere dello Stato. Tale sconfinamento si verifica quando il giudice travalichi i così detti “limiti esterni” della giurisdizione cioè si pronunci su questione non soggetta alla sua valutazione (Cass. S.U. 18.11.2008, n. 27335).

Quando invece la materia rientri nella competenza del giudice adito, potrà parlarsi – se mai – di una travalicazione dai “limiti interni” della giurisdizione cioè di una “violazione di legge”.

Per i motivi sopra esposti nella fattispecie il giudice contabile si è pronunziato su questioni soggette alla sua valutazione, ai sensi delle L. n. 241 del 1990 e L. n. 20 del 1994.

9. Con il quinto motivo di ricorso il ricorrente lamenta una serie di nullità processuali che si sarebbero verificate nel corso del giudizio lesive dei principi del giusto processo; segnatamente la nullità insanabile dei provvedimenti di proroga n. 4 e 10, emessi dalla sezione. Inammissibilità ed improcedibilità della citazione in giudizio di decadenza. Nullità della sentenza, violazione della L. n. 19 del 1994, art. 5, Violazione degli art. 154 e 291 c.p.c..

10. Il motivo è inammissibile.

Va, infatti, qui ribadito il principio espresso di recente da queste S.U. con sentenza n. 16165 del 25/07/2011, secondo cui in tema di sindacabilità del difetto di giurisdizione delle sentenze della Corte dei Conti, è inammissibile il ricorso che si fondi su vizi processuali relativi a violazioni dei principi costituzionali del giusto processo, quali quelli che ledono il contraddittorio tra le parti o la loro parità di fronte al giudice o l’esercizio del diritto di difesa, trattandosi di violazioni endoprocessuali rilevabili in ogni tipo di giudizio, al pari di tutti gli altri “errores in procedendo” e non inerenti all’essenza della giurisdizione o allo sconfinamento dei limiti esterni di essa ma solo al modo in cui è stata esercitata (v. anche S.U. 3688 del 16/02/2009).

11. Il ricorso va, pertanto, rigettato.

Nessun provvedimento deve adottarsi in ordine alle spese di lite di questo giudizio di legittimità, nel contraddittorio del solo Procuratore Generale rappresentante il Pubblico Ministero presso la Corte dei conti.

PQM

Rigetta il ricorso e dichiara la giurisdizione della Corte dei conti.

Nulla per le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, il 6 dicembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 30 dicembre 2011

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