Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 30172 del 15/12/2017


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Cassazione civile, sez. trib., 15/12/2017, (ud. 25/10/2017, dep.15/12/2017),  n. 30172

Fatto

RILEVATO IN FATTO

1. La Mini S.p.A. ricorre, con cinque mezzi, nei confronti dell’Agenzia delle entrate (che resiste con controricorso), avverso la sentenza in epigrafe con la quale la Commissione tributaria regionale della Lombardia ha rigettato l’appello da essa proposto, ritenendo legittimo il diniego di rimborso, chiesto con istanza presentata in data 13/6/2006, della maggiore Irpeg versata (per l’importo di Euro 16.510,09) dalla società incorporata Arioli S.p.A., per l’anno 2001, in relazione al contributo di lire 88.800.000 ricevuto a titolo di incentivo per la ricerca scientifica (L. 27 dicembre 1997, n. 449, art. 5): contributo che per mera dimenticanza essa non aveva indicato tra le variazioni in diminuzione del reddito imponibile nella dichiarazione presentata per quell’anno, ma che era stato indicato nella dichiarazione integrativa presentata ai sensi del D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322, art. 2, comma 8, in data 14/9/2004.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Con il primo motivo di ricorso la società contribuente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, vizio di motivazione omessa o comunque apparente, per avere la C.T.R rinviato acriticamente alla decisione di primo grado, con specifico riferimento alla questione della emendabilità della dichiarazione nel termine di uno o di quattro anni dalla presentazione della dichiarazione medesima.

2. Con il secondo motivo la ricorrente deduce inoltre, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, violazione dell’art. 112 c.p.c. per avere la C.T.R. omesso di pronunciare sul motivo di appello con il quale si chiedeva di procedere a una corretta qualificazione della fattispecie, evidenziandosi che si verteva non sulla legittimità della presentazione di una dichiarazione integrativa, ma in tema di rimborso D.P.R. n. 602 del 1973, ex art. 38.

3. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione del combinato disposto di cui al D.P.R. n. 322 del 1998, art. 2, commi 8 e 8-bis, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la C.T.R. confermato, sia pure implicitamente, l’affermazione posta a base della decisione di primo grado secondo cui la dichiarazione integrativa doveva ritenersi tardiva in quanto presentata in data 14/9/2004 oltre il termine fissato dall’art. 2, comma 8-bis, D.P.R. cit. (ossia oltre la scadenza del termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo): sostiene la ricorrente che termine ultimo di riferimento per la presentazione di dichiarazione integrativa avrebbe dovuto considerarsi quello quadriennale fissato in via generale dal comma 8 della medesima disposizione, essendo il più breve termine di cui al successivo comma 8-bis previsto al solo fine di consentire al dichiarante di utilizzare l’eventuale suo credito in compensazione.

4. Con il quarto motivo la ricorrente denuncia poi, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, vizio di ultrapetizione per essersi il giudice d’appello pronunciato anche nel merito, sebbene il provvedimento di rigetto dell’istanza di rimborso si limitasse a motivare unicamente sulla asserita violazione del termine di cui all’art. 2, commi 8 e 8-bis, ragione per cui – sostiene – l’oggetto del contendere avrebbe dovuto ritenersi limitato alla interpretazione di tali disposizioni e non riguardare anche la legittimità dell’istanza di rimborso in ordine alla quale nessuna contestazione era contenuta nell’atto impugnato.

5. Con il quinto motivo la ricorrente denuncia infine violazione e falsa applicazione della L. n. 449 del 1997, art. 4, comma 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la C.T.R. negato nella fattispecie il diritto al rimborso in base al triplice rilievo per cui: a) “nella fattispecie trattasi di agevolazione e non di contributo ed il credito di cui si discute non è rimborsabile”; b) ai sensi del D.M. n. 275 del 1998, art. 6, comma 1, il credito medesimo va indicato a pena di decadenza nella dichiarazione dei redditi relativa al periodo d’imposta per il quale è concesso; c) ai sensi dell’art. 6, comma 3, del decreto medesimo, “l’errato inserimento del credito d’imposta (all’interno della tardiva dichiarazione correttiva) tra le variazioni in diminuzione del quadro RF va visto come modalità per aggirare il divieto di rimborsabilità del credito”.

Secondo la ricorrente trattasi di considerazioni errate e fuorvianti posto che nella specie non si discute del diritto al rimborso del credito concesso a titolo di contributo/agevolazione bensì del diritto ad apportare una variazione favorevole nel calcolo della base imponibile e del conseguente diritto al rimborso del versamento eccedente rispetto all’imposta riliquidata.

6. E’ infondata la censura – dedotta con il primo motivo di ricorso – di nullità della sentenza per mancanza di motivazione.

Non può infatti dubitarsi che una motivazione esista e che non sia meramente apparente, consentendo la stessa di comprendere quali siano le ragioni della decisione adottata (tardività della dichiarazione integrativa e inaccoglibilità dell’istanza di rimborso).

Ciò vale certamente ad escludere la dedotta violazione dai doveri decisori di cui all’art. 112 c.p.c. denunciata dalla ricorrente, che si configura soltanto nell’ipotesi in cui sia mancata del tutto da parte del giudice – ovvero sia meramente apparente – ogni statuizione sulla domanda o eccezione proposta in giudizio, mentre rientra nell’ambito dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la censura con la quale si deduca la mancata (o insufficiente o contraddittoria) valutazione di alcuni dei fatti (controversi e decisivi) posti a fondamento della domanda o della eccezione medesima (v. ex multis Cass. 07/04/2008, n. 6858).

Nè un tale vizio può ravvisarsi a motivo dell’affermata condivisione della decisione di primo grado sul punto riguardante la contestata tardività della dichiarazione integrativa, della quale si fa cenno sintetico in apertura della parte motiva.

Il rilievo che si tratterebbe di mera motivazione per relationem alla sentenza di prima grado appare smentito, in fatto, in primo luogo, dal resoconto, nella parte narrativa della stessa sentenza, sia delle ragioni poste a fondamento della decisione di primo grado, sia dei motivi d’appello e delle controdeduzioni dell’appellata; in secondo luogo esso è smentito dall’ampiezza della seconda parte della stessa motivazione, nella quale si afferma la correttezza nel merito della decisione impugnata, in ragione di considerazioni ulteriori, dedicate proprio al tema della legittimità dell’istanza di rimborso (tema considerato dai giudici d’appello evidentemente prioritario e assorbente e tale da condurre comunque di per sè alla conferma della decisione impugnata).

7. Discende dalle considerazioni che precedono il rilievo della palese infondatezza anche del secondo e del quarto motivo di ricorso, congiuntamente esaminabili.

Diversamente da quanto affermato con il secondo motivo di ricorso, la C.T.R. si è espressa sulla questione del rimborso D.P.R. n. 602 del 1973, ex art. 38, la quale apparteneva al thema decidendum proprio su sollecitazione dell’appellante, a fronte dell’implicito rigetto, o comunque dell’omesso esame da parte del primo giudice. Tanto ciò è vero che con il quarto e il quinto mezzo la ricorrente ne censura la relativa statuizione.

Con specifico riferimento poi alla censura di cui al quarto motivo giova rammentare che costituisce principio del tutto consolidato che il vizio di ultra o extrapetizione ricorre quando il giudice, interferendo nel potere dispositivo delle parti, pronuncia oltre i limiti delle pretese e delle eccezioni fatte valere dalle parti stesse ovvero su questioni estranee all’oggetto del giudizio e non rilevabili d’ufficio, attribuendo un bene della vita non richiesto o diverso da quello domandato; mentre il giudice è libero di individuare l’esatta natura dell’azione proposta e di porre a base della propria pronuncia norme giuridiche e considerazioni di diritto diverse da quelle invocate o prospettate dalle parti.

Orbene, nella specie, la C.T.R. – tenendo fermi i fatti posti a base del ricorso introduttivo originario (con il quale si era chiesto anche di riconoscere la deducibilità del credito di imposta mediante istanza di rimborso di quanto versato), dello specifico motivo di appello e delle controdeduzioni dell’Ufficio – ha deciso anche sulla configurabilità, nella specie, del diritto al rimborso.

Non è dunque certamente configurabile la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., peraltro dedotta dalla ricorrente sotto il duplice contraddittorio profilo della omessa pronuncia (secondo motivo) e della ultrapetizione (quarto motivo).

8. Sono altresì infondati il terzo e il quinto motivo, congiuntamente esaminabili, discendendo il loro rigetto dalla medesima ragione di fondo.

La L. n. 449 del 1997, art. 5, al fine di potenziare l’attività di ricerca, ha accordato alle piccole e medie imprese un credito d’imposta a partire dal periodo in corso al 1 gennaio 1998, per ogni nuova assunzione a tempo pieno, anche con contratto a tempo determinato, di soggetti titolari di dottorato di ricerca o di altro titolo di formazione post-laurea, ovvero di laureati con esperienza nel settore della ricerca (comma 1, lett. a); o per ogni nuovo contratto per attività di ricerca commissionata ad università, consorzi e centri interuniversitari, altri enti e fondazioni private ivi indicati (comma 1, lett. b).

La stessa norma ha demandato alla successiva decretazione ministeriale il compito di stabilire le modalità attuative, di controllo e regolazione contabile dei crediti stessi (comma 7).

Tale disciplina è stata dettata col D.M. 22 luglio 1998, n. 275, il quale, all’art. 6, ha stabilito che:

a) “il credito di imposta è indicato, a pena di decadenza, nella dichiarazione dei redditi relativa al periodo di imposta nel corso del quale il beneficio è concesso” (comma 1);

b) “il credito di imposta, che non concorre alla formazione del reddito imponibile, può essere fatto valere ai fini del pagamento, anche in sede di acconto, dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, dell’imposta sul reddito delle persone giuridiche e dell’imposta sul valore aggiunto, a partire dai versamenti da effettuare per il periodo di imposta di cui al comma 1 successivamente alla comunicazione di cui all’art. 5, comma 4. Il credito di imposta può essere fatto valere anche in compensazione ai sensi del D.Lgs. 9 luglio 1997, n. 241, artt. 17 e seguenti, per i soggetti nei confronti dei quali trova applicazione tale normativa” (comma 2);

c) “il credito di imposta non è rimborsabile, tuttavia esso non limita il diritto al rimborso di imposte ad altro titolo spettante; l’eventuale eccedenza è riportabile nei periodi di imposta successivi” (comma 3).

Nel descritto contesto normativo appare evidente che l’indicazione che si richiede al contribuente ai fini della concessione del credito d’imposta non è strutturalmente parificabile ad una dichiarazione di scienza attraverso cui far valere un credito scaturente dal fisiologico susseguirsi delle ordinarie poste fiscali riportate nelle dichiarazioni, ma integra un atto negoziale in quanto diretto a manifestare la volontà di avvalersi del beneficio fiscale in ragione dell’affermazione (che in sè sottende anche un impegno) della rispondenza dell’attività svolta alle finalità perseguite dal legislatore.

Essa è per converso strumentale all’espletamento delle successive congruenti verifiche da parte dell’amministrazione finanziaria e la decadenza prevista dal comma 1 appare logicamente coerente con la scelta di accordare il beneficio in rapporto all’esercizio fiscale interessato.

Si è dunque condivisibilmente rilevato che “il credito fiscale de quo non deriva dal meccanismo fisiologico di applicazione del tributo, ma da un beneficio appositamente accordato a fronte di precise scelte politiche, finalizzate a incentivare un determinato settore: in un contesto di tal genere il legislatore è libero di orientare la propria scelta stabilendo altresì le condizioni per la fruizione del beneficio medesimo, in rapporto alla correlata ratio di definire entro un tempo egualmente determinato l’onere finanziario inerente, altrimenti suscettibile di rimanere sospeso a tempo indefinito” (Cass. 14/11/2012, n. 19868; Cass. 24/10/2014, n. 22673).

Per tali ragioni è da escludere, in radice, che possa trovare spazio, con riferimento al beneficio in parola, il principio della generale emendabilità delle dichiarazioni e ciò sia che a tale emenda si voglia procedere attraverso dichiarazione integrativa D.P.R. n. 322 del 1998, ex art. 2, sia che si voglia procedere per mezzo di istanza di rimborso D.P.R. n. 602 del 1973, ex art. 38.

Come chiarito da questa Corte, infatti, “sebbene le denunce dei redditi costituiscano di norma delle dichiarazioni di scienza, e possano quindi essere modificate ed emendate in presenza di errori che espongano il contribuente al pagamento di tributi maggiori di quelli effettivamente dovuti, nondimeno, quando il legislatore subordina la concessione di un beneficio fiscale ad una precisa manifestazione di volontà del contribuente, da compiersi direttamente nella dichiarazione attraverso la compilazione di un modulo predisposto dall’erario, la dichiarazione assume per questa parte il valore di un atto negoziale, come tale irretrattabile, anche in caso di errore, salvo che il contribuente dimostri che questo fosse conosciuto o conoscibile dall’amministrazione” (v. Cass. 22/01/2013 n. 1427; Cass. 11/05/2012, n. 7294).

In coerenza con tale principio è stato più volte rilevato, con più specifico riferimento al credito d’imposta di che trattasi, che trattandosi di decadenza direttamente contemplata dalla disciplina dell’istituto, non giova invocare il principio della generale e illimitata emendabilità della dichiarazione fiscale, perchè l’emendabilità, finanche con atti rilevanti in sede processuale, non consente di superare il limite delle dichiarazioni destinate a rimanere irretrattabili per il sopravvenire di decadenze, così come affermato, d’altronde, dalle sezioni unite di questa Corte (sentenza n. 15063 del 2002) all’atto del definitivo riconoscimento del principio anzidetto e come di recente ribadito dalle stesse Sezioni unite con sentenza n. 13378 del 2016 (v. in motivazione, par. 23) (v. Cass. 26/04/2017, n. 10239; Cass. 19/01/2016, n. 883; Cass. 13/01/2016, n. 389; Cass. n. 22673 del 2014, cit.; Cass. n. 19868 del 2012, cit.).

Non può condividersi pertanto il principio in senso contrario affermato da Cass. 21/12/2016, n. 26550, secondo cui “in tema di incentivi fiscali per la ricerca scientifica, il credito d’imposta concesso dalla L. n. 449 del 1997, art. 5 può essere opposto dal contribuente in sede giudiziaria anche qualora egli sia incorso nella decadenza di cui al D.M. n. 275 del 1998, art. 6 per non aver indicato il credito nella pertinente dichiarazione dei redditi o in una tempestiva dichiarazione integrativa, sempre che in giudizio i requisiti sostanziali del credito d’imposta siano provati dal contribuente o incontestati dal fisco”: principio bensì riferito alla emenda in sede contenziosa, ma tuttavia fondato su premesse che, come rilevato dal P.G. nelle sue conclusioni, se condivise, non potrebbero che condurre a riconoscere l’ininfluenza della maturata decadenza anche rispetto al diritto al rimborso D.P.R. n. 602 del 1973, ex art. 38, in quanto rimedio autonomo e disancorato dai presupposti richiesti per la emendabilità della dichiarazione.

Sono però proprio tali premesse che, alla luce delle considerazioni sopra esposte, non possono essere condivise.

Esse vanno individuate nel duplice rilievo per cui: a) l’orientamento testè sopra riferito deve ritenersi inciso dal principio recentemente enunciato dalle Sezioni Unite in tema di emenda delle dichiarazioni fiscali (Cass. Sez. U n. 13378 del 2016, cit.); b) la decadenza comminata dal D.M. n. 275 del 1998, art. 6 ha natura esclusivamente formale, non riguardando gli elementi costitutivi del diritto sostanziale, come fissati dalla L. n. 449 del 1997, art. 5. Pertanto, essa incide unicamente sul piano amministrativo ed esclusivamente sul medesimo piano agisce l’eventuale dichiarazione integrativa.

Tali affermazioni, come detto, non possono essere condivise perchè, se si tiene fermo che trattasi nella specie di dichiarazione negoziale e non di scienza, non può non concludersi per l’inapplicabilità, in radice, del principio affermato da Cass. Sez. U n. 13378 del 2016 al tema trattato.

Detta pronuncia, infatti, altro non fa che chiarire il modo in cui il principio di generale emendabilità delle dichiarazioni dei redditi abbia a declinarsi (in relazione alle diverse modalità in cui a tale emenda può provvedersi) e il rapporto tra le diverse discipline, evidenziando che tale rapporto va ricostruito considerando la loro specificità ed il loro diverso campo di applicazione (rispettivamente l’accertamento, la riscossione delle imposte e il contenzioso tributario)(v. sentenza cit. par. 15); in tal senso essa chiarisce in particolare che: a) “il diverso campo applicativo delle norme in materia di accertamento (D.P.R. n. 600 del 1973, D.P.R. n. 322 del 1998) rispetto a quelle relative alla riscossione (D.P.R. n. 602 del 1973) comporta la necessaria distinzione tra la dichiarazione integrativa di cui all’art. 2 comma 8-bis e il diritto al rimborso di cui al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 38” (par. 24); b) “il diverso piano sul quale operano le norme in materia di accertamento e riscossione, rispetto a quelle che governano il processo tributario, comportano poi l’inapplicabilità in tale sede, delle decadenze prescritte per la sola fase amministrativa” (par. 26).

Non va però dimenticato che sia il principio di generale emendabilità delle dichiarazioni dei redditi (Cass. Sez. U n. 15063 del 2002), sia la specificazione che ne fa Cass. Sez. U n. 13378 del 2016, muovono dalla considerazione della (e si riferiscono esclusivamente alla) dichiarazione dei redditi come “atto non negoziale e non dispositivo, recante una mera esternazione di scienza e di giudizio” (v. parr. 10, 11 e lo stesso par. 26 della sentenza n. 13378 del 2016) e non sono pertanto invocabili nel diverso campo delle dichiarazioni aventi contenuto e valore negoziale, in relazione alle quali eventuali errori della volontà espressa dal contribuente assumono rilevanza soltanto ove sussistano i requisiti di essenzialità e riconoscibilità ex art. 1428 cod. civ. (norma che trova applicazione, ai sensi dell’art. 1324 cod. civ., anche agli atti negoziali unilaterali diretti ad un destinatario determinato: cfr. Cass. 11/05/2012, n. 7294; Cass. 01/10/1993, n. 9777).

In tali ipotesi – qual è quella di specie – la possibilità di rimediare all’errore attraverso istanza di rimborso è dunque da escludere non già per una impropria confusione dei piani dell’accertamento e della riscossione (e dunque per una non corretta estensione all’istanza di rimborso di decadenze previste per l’emenda o integrazione della dichiarazione dei redditi), ma ben diversamente, e in radice, per l’impossibilità di procedere ad emenda – di qualsiasi tipo – di una dichiarazione negoziale, se non nei ristretti limiti della rilevanza dell’errore negli atti negoziali.

In tale prospettiva va indubbiamente letta anche la già menzionata precisazione contenuta nel par. 23 nell’esaminato arresto delle Sezioni unite del 2016 secondo la quale “il principio della generale e illimitata emendabilità della dichiarazione fiscale incontra il limite delle dichiarazioni destinate a rimanere irretrattabili per il sopravvenire di decadenze, come nell’ipotesi prevista nei D.M. 22 luglio 1998, n. 275, il quale, all’art. 6, stabilisce che il credito di imposta è indicato, a pena di decadenza, nella dichiarazione dei redditi relativa al periodo di imposta nel corso del quale il beneficio è concesso (Cass. n. 19868 del 2012)”.

Tale precisazione – in quanto espressamente riferita all’ipotesi del credito d’imposta per l’incentivo alla ricerca scientifica – non può intendersi limitata al campo dell’accertamento, con esclusione pertanto della rilevanza della decadenza rispetto alle forme di emenda che da tale ambito prescindano (istanza di rimborso, contenzioso), una tale lettura apparendo impedita se non altro dalla citazione, quale precedente conforme, di Cass. n. 19868 del 2012, che – sostanzialmente per le stesse ragioni sopra esposte – esclude espressamente l’invocabilità del principio di generale emendabilità per la dichiarazione di che trattasi, anche in sede contenziosa.

Tornando dunque al caso in esame, pacifico essendo che il contribuente abbia omesso l’indicazione del credito in parola nella dichiarazione relativa all’anno d’imposta cui lo stesso si riferisce e dovendosi in parte qua la dichiarazione ritenere espressione dell’autonomia negoziale, correttamente i giudici di merito ne hanno escluso l’emendabilità, a favore del contribuente, sia attraverso dichiarazione integrativa (la quale, come per l’appunto precisato dalla citata sentenza delle Sez. U n. 13378 del 2016, par. 23, avrebbe dovuto considerarsi priva di effetto quand’anche fosse stata presentata nel termine previsto dal D.P.R. n. 322 del 1998, art. 2, comma 8-bis), sia attraverso istanza di rimborso.

9. Il ricorso va pertanto rigettato.

Tenuto conto tuttavia della complessità delle questioni trattate si ravvisano i presupposti per l’integrale compensazione delle spese.

PQM

Rigetta il ricorso. Compensa integralmente le spese processuali.

Così deciso in Roma, il 25 ottobre 2017.

Depositato in Cancelleria il 15 dicembre 2017

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