Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 30154 del 21/11/2018

Cassazione civile sez. VI, 21/11/2018, (ud. 06/11/2018, dep. 21/11/2018), n.30154

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DORONZO Adriana – rel. Presidente –

Dott. ESPOSITO Lucia – Consigliere –

Dott. FERNANDES Giulio – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

Dott. CAVALLARO Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 13601-2016 proposto da:

POSTE ITALIANE SPA (OMISSIS), in persona del legale rappresentante

pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, V.LE EUROPA 190,

presso lo studio dell’avvocato ROSSANA CLAVELLI, che la rappresenta

e difende;

– ricorrente –

contro

M.R., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA RENO 21, presso

lo studio dell’avvocato ROBERTO RIZZO, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 8089/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 30 novembre 2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 06 novembre 2018 dal Presidente Relatore Dott.

ADRIANA DORONZO.

Fatto

RILEVATO

che:

con sentenza depositata il 30 novembre 2015, la Corte di appello di Roma, in accoglimento del gravame proposto da M.R. e in riforma della sentenza resa dal Tribunale di Roma, ha dichiarato la nullità del termine apposto al contratto sottoscritto da quest’ultima con la s.p.a. Poste Italiane per il periodo dal 2 ottobre 2002 – 31 dicembre 2002 ai sensi del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1, per “sostenere il livello di servizio del recapito durante la fase di realizzazione dei processi di mobilità tuttora in fase di completamento, di cui agli accordi… che prevedono al riguardo il riposizionamento su tutto il territorio degli organici della società”; ha dichiarato costituito tra le parti un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato dalla data di stipulazione del contratto e ha condannato la società al pagamento, ai sensi della L. n. 183 del 2010, art. 32 comma 5, di un’ indennità pari a cinque mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, con gli accessori di legge sino al soddisfo;

la Corte, dopo aver escluso che rapporto di lavoro si sia risolto per mutuo dissenso, ha ritenuto che, pure a fronte di una specifica clausola contrattuale di giustificazione del termine, nondimeno, sul piano della verifica della effettiva sussistenza delle esigenze dedotte e della effettiva destinazione delle prestazioni della lavoratrice al loro soddisfacimento, la società non avesse adeguatamente assolto all’onere probatorio sulla stessa incombente; in particolare, Poste italiane avrebbe dovuto dimostrare che il numero delle assunzioni a termine non fosse eccedente rispetto al personale assente perchè interessato da processi di mobilità, essendo del tutto generica e, quindi, inammissibile la prova testimoniale articolata, in mancanza di dati numerici di riferimento atti a consentire il riscontro di effettività di cui si è detto; per la cassazione di tale decisione ricorre la società, affidando l’impugnazione a quattro motivi, ai quali resiste con controricorso la lavoratrice;

la proposta del relatore ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c. è stata comunicata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza camerale non partecipata;

la lavoratrice ha depositato memoria in prossimità dell’adunanza camerale.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. con i motivi di ricorso la società censura: 1) la violazione e falsa applicazione dell’art. 1372, comma 1, e art. 1362 c.c., comma 2, in ordine all’eccezione di risoluzione del rapporto di lavoro per mutuo consenso; 2) la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1, comma 2, del C.C.N.L. 2001, art. 25, e degli accordi sindacali del 17, 18, 23 ottobre e 11 dicembre 2001, 11 gennaio, 13 febbraio, 17 aprile, 30 luglio e 18 settembre 2002, sotto il profilo della pretesa genericità della causale; 3) la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, con riferimento alla mancata ammissione della prova testimoniale, volta a comprovare il nesso causale tra la singola assunzione e le ragioni indicate nel contratto, e alla contraddittorietà della motivazione, nella parte in cui la Corte territoriale ha, da un lato, affermato che incombeva sul datore di lavoro la prova del nesso causale e, dall’altro, negato l’ammissione della prova volta dimostrare tale dato; 4) la violazione e falsa applicazione della L. n. 183 del 2010, art. 32, commi 5 e 6, in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3, lamentandosi il mancato riconoscimento del minimo risarcitorio, fissato in 2,5 mensilità, in presenza di accordi stipulati con le organizzazioni sindacali e la mancanza di motivazione in ordine al riconoscimento del danno da ritardo subito dalla controparte nel periodo intermedio, considerato che esso era dipeso dalla sua inerzia;

2. il primo motivo non è fondato: l’accertamento di merito, svolto al riguardo dalla Corte territoriale, è conforme a diritto ed è stato congruamente motivato, con riferimento alla giurisprudenza prevalente di questa Corte di legittimità (cfr. Cass. n. 20704/2015; Cass. n. 21876/2015; Cass. n. 13535/2015; Cass. n. 1780/2014), la quale ha confermato la necessità dell’accertamento della “chiara e certa comune volontà delle parti”: requisito, nel caso di specie, non ravvisabile, come correttamente sottolineato dalla Corte distrettuale che, con valutazione di merito in questa sede incensurabile e conforme alla giurisprudenza di questa Corte, ha escluso che, in mancanza di ulteriori elementi di valutazione diversi dal mero decorso del tempo, fosse ravvisabile nel comportamento tenuto dalle parti una volontà di risolvere il rapporto (cfr. Cass. Sez. Un. 27/10/2016, n. 21691, punti 55, 56, 57, 58);

ne deriva che l’apprezzamento circa l’idoneità degli elementi presuntivi a consentire inferenze rientra nei compiti affidati al giudice del fatto, senza che il convincimento da questi espresso in relazione al complesso degli indizi, soggetti ad una valutazione globale e non con riferimento singolare a ciascuno di essi, possa essere suscettibile di un diverso o rinnovato apprezzamento in sede di legittimità (da ultimo, Cass. 5/6/2018, n. 14392);

3. il secondo motivo non è fondato considerata la consolidata giurisprudenza di questa Corte sull’onere di provare le ragioni obiettive poste a giustificazione della clausola appositiva del termine, che grava sul datore di lavoro e che deve essere assolto sulla base delle istanze istruttorie dallo stesso formulate (cfr. ex/giuri/27/s Cass. nn. 22716/2012; 2279/2010) e avendo, il giudice del merito, con valutazione correttamente motivata e priva di vizi logico-giuridici, ritenuto non assolto, dalla società, l’onere probatorio, per essersi limitata a chiedere l’ammissione di prova testimoniale concernente l’esistenza, in generale, di un processo di mobilità interna e dei suoi effetti indiretti, senza tuttavia chiedere di fornire la prova dell’incidenza anche sull’ufficio in cui la lavoratrice ha lavorato;

deve aggiungersi che il motivo si presenta in parte inconferente, dal momento che la Corte territoriale ha ritenuto la causale relativa all’apposizione del termine specifica, e non già generica come sostenuto il ricorso, difettando solo la prova della effettività delle ragioni addotte rispetto alla singola assunzione (in tal senso, v. pure Cass. n. 7844/2016).

4. il terzo motivo non è fondato avendo la Corte distrettuale espresso una motivazione congrua e logica, ossia l’inammissibilità dei capitoli di prova testimoniale perchè genericamente formulati e tali da indurre i testi ad esprimere giudizi di valore, in quanto volti a dimostrare l’assunto che, all’epoca dell’assunzione della dipendente, la fase attuativa delle procedure di mobilità avesse “prodotto effetti diretti” anche sull’unità produttiva cui era addetta la medesima lavoratrice, sicchè la contestazione – ad onta della sua rubrica e della sua formale sussunzione nel vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3 – finisce per risolversi nella inammissibile prospettazione di un preteso migliore e più appagante coordinamento dei dati acquisiti (cfr. nello stesso senso con riguardo ad analoga fattispecie Cass. n. 14392/2018, che rinvia a Cass. n. 10584/2017, Cass. n. 7122/2017; v. pure Cass. n. 29754/2017);

5. le censure articolate in riferimento alla quantificazione della indennità della L. n. 183 del 2010, ex art. 32, comma 5, sono infondate, dovendosi dare seguito all’orientamento espresso da questa Corte (Cass. civ., 22/01/2014, n. 1320; Cass. civ. 17 marzo 2014 n. 6122) – in continuità con quanto da essa affermato in relazione al risarcimento del danno derivato dal licenziamento illegittimo nell’ area in cui opera la tutela obbligatoria (Cass. 08/06/2006, n. 13380)- secondo cui la determinazione, tra il minimo e il massimo, della misura dell’indennità risarcitoria prevista alla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, comma 5, in caso di illegittima opposizione del termine al contratto di lavoro spetta al giudice di merito ed è censurabile in sede di legittimità solo per vizio di motivazione;

la censura sotto questo profilo difetta di decisività giacchè le circostanze di cui si lamenta l’omesso esame non sono tali da privare di fondamento la decisione assunta, in sè logicamente e congruamente motivata (in tal senso, Cass., 31/1/2018, n. 2442);

6. il ricorso deve pertanto essere rigettato e la ricorrente condannata al pagamento delle spese del presente giudizio, nella misura liquidata in dispositivo, con distrazione in favore dell’avvocato anticipatario, avvocato Roberto Rizzo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 4.000 per compensi professionali e 200 per esborsi, oltre al rimborso forfettario delle spese generali nella misura del 15% e agli altri oneri accessori, disponendo nella distrazione in favore dell’avvocato Roberto Rizzo, anticipatario. Ai sensi del D.Lgs. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 6 novembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 21 novembre 2018

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