Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3015 del 07/02/2018

Cassazione civile, sez. VI, 07/02/2018, (ud. 24/10/2017, dep.07/02/2018),  n. 3015

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte d’appello di Roma, con sentenza del 5 giugno 2016, ha rigettato il gravame principale di S.A. avverso la sentenza del Tribunale di Roma che aveva revocato l’assegnazione a suo favore della casa coniugale e rigettato la sua domanda di aumentare rassegno divorzile, posto a carico dell’ex coniuge P.V.C., da Euro 800,00 a Euro 3.800,00 o, in caso di mancata assegnazione della casa coniugale, a Euro 5.800,00; ha rigettato il gravame incidentale di P.V. che aveva chiesto l’eliminazione dell’assegno.

La Corte ha rigettato la domanda del P. di eliminazione dell’assegno divorzile; ha poi ritenuto che la S. non avesse diritto all’assegnazione della casa coniugale, poichè l’unico figlio della coppia era maggiorenne e dimorava presso il padre, nè all’integrazione dell’assegno, essendo proprietaria di un appartamento, da cui percepiva un canone di locazione, e di un terreno, oltre a beneficiare di un reddito per un’attività lavorativa svolta in una società.

Avverso questa sentenza la S. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi; il P.V. ha resistito con controricorso. Le parti hanno presentato memorie.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, la ricorrente ha denunciato violazione e falsa applicazione degli artt. 116 e 187 c.p.c., poichè la Corte di merito non aveva ammesso una prova testimoniale, a suo avviso, rilevante ai fini di una congrua determinazione dell’assegno divorzile.

Il motivo è inammissibile. Esso non contiene la trascrizione dei capitoli di prova nè l’indicazione dei testi e delle ragioni per le quali essi sarebbero stati qualificati a testimoniare, nè della tempestività e ritualità della relativa istanza di ammissione nel giudizio di merito, elementi necessari al fine di consentire a questa Corte di valutare la decisività del mezzo istruttorio richiesto (Cass. n. 9748/2010).

Con il secondo, la ricorrente ha denunciato violazione e falsa applicazione dell’art. 32 Cost. e L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 6 poichè la revoca dell’assegnazione della casa coniugale (assegnata invece alla S. nel giudizio di separazione) potrebbe aggravare le sue condizioni di salute, in quanto affetta da crisi ansioso-depressiva a seguito dell’abbandono del marito.

Il motivo è inammissibile, a norma dell’art. 360 bis c.p.c., n. 1, avendo la sentenza impugnata fatto corretta applicazione del principio – già desumibile, in sede di divorzio, dalla L. n. 898 del 1970, art. 6, comma 6, e, in sede di separazione, dai previgenti artt. 155 e, poi, 155 quater c.c. (introdotto dalla L. 8 febbraio 2006, n. 54) ed ora 337 sexies c.c. (introdotto dal D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, art. 55) – secondo cui il provvedimento di assegnazione della casa coniugale è subordinato alla presenza di figli, minori o maggiorenni non economicamente autosufficienti, conviventi con i genitori: tale ratio protettiva, che tutela l’interesse dei figli a permanere nell’ambiente domestico in cui sono cresciuti, non è configurabile in presenza di figli economicamente autosufficienti, sebbene ancora conviventi, verso cui non sussiste alcuna esigenza di speciale protezione (Cass. n. 25010/2007 in ambito divorzile; Cass. 21334/2013 in sede di separazione).

Con il terzo motivo, è denunciata violazione e falsa applicazione della L. n. 898 del 1970, art. 5 e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, non avendo la sentenza impugnata considerato che l’integrazione dell’assegno era necessaria per consentire alla S. di conservare il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio.

Il motivo è infondato.

Si deve premettere che sulla debenza dell’assegno divorzile è calato il giudicato, essendo la sentenza impugnata stata censurata soltanto dalla S., che ha chiesto l’aumento dell’assegno posto dal primo giudice a carico del P.V..

Il giudizio relativo al quantum debeatur, logicamente e giuridicamente successivo a quello positivo sull’an debeatur (Cass. n. 11504 del 2017), è stato compiuto dai giudici di merito con un apprezzamento di fatto incensurabile in sede di legittimità, che ha fatto applicazione dei principali criteri di quantificazione dell’assegno indicati nel vigente testo della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, (durata del matrimonio, condizioni reddituali delle parti, contributo dato da ciascuno alla conduzione familiare).

La Corte di merito ha confermato l’importo dell’assegno, che il primo giudice aveva determinato, tenendo conto della breve durata della convivenza matrimoniale (circa sei anni) e delle condizioni personali ed economiche della S., persona abilitata all’esercizio della professione forense e proprietaria di un terreno e di un appartamento da cui percepiva (all’epoca della separazione) un canone di locazione. La sentenza impugnata ha riferito delle libere scelte di vita della S. di rinunciare a una carriera promettente, di accettare un posto di lavoro part-time e poi di dimettersi dal lavoro all’età di quarantasei anni, senza che vi fosse prova di alcuna costrizione al riguardo nè di tentativi di riprendere l’attività lavorativa, come precisato dai giudici di merito con un apprezzamento di fatto non specificamente censurato. Il criterio del “contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio personale di ciascun coniuge e di quello comune”, indicato nella L. del 1970, art. 5, comma 6, ai fini della quantificazione (e non dell’attribuzione) dell’assegno, costituisce pur sempre oggetto di prova nel giudizio, seppure in via presuntiva, di cui è onerata la parte che richiede l’assegno.

La conservazione del tenore di vita matrimoniale, richiamato dalla ricorrente a sostegno della richiesta di quantificazione dell’assegno in misura superiore a quella riconosciutale, non costituisce più un parametro di riferimento utilizzabile nè ai fini del giudizio sull’an debeatur nè di quello sul quantum debeatur, la cui determinazione è finalizzata a consentire all’ex coniuge il raggiungimento dell’indipendenza economica (Cass. nn. 11504, 15481, 23602, 20525, 25327 del 2017).

A giustificare l’attribuzione dell’assegno non è, quindi, di per sè, lo squilibrio o il divario tra le condizioni reddituali delle parti, all’epoca del divorzio, nè il peggioramento delle condizioni del coniuge richiedente l’assegno rispetto alla situazione (o al tenore) di vita matrimoniale, ma la mancanza della “indipendenza o autosufficienza economica” di uno dei coniugi, intesa come impossibilità di condurre con i propri mezzi un’esistenza economicamente autonoma e dignitosa.

Quest’ultimo parametro va apprezzato con la necessaria elasticità e l’opportuna considerazione dei bisogni del richiedente l’assegno, considerato come persona singola e non come ex coniuge, ma pur sempre inserita nel contesto sociale. Per determinare la soglia dell’indipendenza economica occorrerà avere riguardo alle indicazioni provenienti, nel momento storico determinato, dalla coscienza collettiva e, dunque, nè bloccata alla soglia della pura sopravvivenza nè eccedente il livello della normalità, quale, nei casi singoli, da questa coscienza configurata e di cui il giudice deve farsi interprete, ad essa rapportando, senza fughe, le proprie scelte valutative, in un ambito necessariamente duttile, ma non arbitrariamente dilatabile. E’ questa una valutazione di fatto riservata al giudice di merito, censurabile in cassazione nei ristretti limiti in cui lo consente il novellato art. 360 c.p.c., n. 5.

Con il quarto motivo è denunciata violazione e falsa applicazione del D.P.R. 3 maggio 2002, n. 115, poichè la sentenza aveva posto a carico di entrambe le parti soccombenti il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, mentre tale versamento non discende dal mero rigetto dell’impugnazione, ma dalla manifesta infondatezza della domanda e dalla mala fede della parte impugnante.

E’ inammissibile il motivo di ricorso per cassazione, come quello in esame, avverso le statuizioni della sentenza di appello che abbiano dato atto della sussistenza o insussistenza dei presupposti per l’erogazione, da parte del soccombente, di un importo pari a quello corrisposto per il contributo unificato, in quanto tale rilevamento, essendo un atto dovuto collegato al fatto oggettivo delle definizione del giudizio in senso sfavorevole all’impugnante, non ha un contenuto decisorio suscettibile di impugnazione, sicchè l’eventuale erroneità dell’indicazione sul punto potrà essere solo segnalata in sede di riscossione (Cass. n. 22867 del 2016).

In conclusione, il ricorso è rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente alte spese, liquidate in Euro 2100,00, di cui Euro 100,00 per esborsi.

Doppio contributo a carico della ricorrente come per legge. In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi.

Così deciso in Roma, il 24 ottobre 2017.

Depositato in Cancelleria il 7 febbraio 2018

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