Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 30149 del 15/12/2017


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Cassazione civile, sez. trib., 15/12/2017, (ud. 07/11/2017, dep.15/12/2017),  n. 30149

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con avviso di accertamento emesso sulla base di p.v.c. redatto da funzionari dell’Ufficio, l’Agenzia delle entrate, Ufficio di Bologna (OMISSIS), rettificava il reddito imponibile della Parker Calzoni S.r.l. (ora Parker Hannifin S.p.A.), a fini Irpeg e Irap per l’anno 2003, recuperando a tassazione:

1) ai sensi dell’art. 76, comma 5, T.U.I.R. (nel testo applicabile ratione temporis), l’importo di Euro 584.282,60 calcolato applicando il valore normale ex art. 9 del medesimo Testo Unico sui trasferimenti effettuati dalla contribuente in favore di tre società estere controllate (transfer pricing);

2) gli interessi passivi, pari a Euro 113.136,00, corrisposti a fronte del finanziamento di Euro 2.500.000 ricevuto dalla collegata società francese Denison Hydraulics France S.p.A.;

3) l’importo di Euro 100.666,00 dedotto dalla contribuente per commissioni relative a prestazioni ricevute dalla capogruppo (c.d. commissioni intercompany);

4) spese per consulenze legali per Euro 54.136,23;

5) perdite su crediti per Euro 16.132,65.

Il ricorso proposto dalla contribuente era accolto dalla adita C.T.P. di Bologna, in ragione della mancata allegazione agli atti del processo verbale di constatazione.

Il susseguente appello dell’Ufficio era parzialmente accolto, con la sentenza in epigrafe, dalla Commissione tributaria regionale dell’Emilia-Romagna, che riteneva legittima la sola ripresa degli interessi passivi verso società collegata (rilievo n. 2), confermando, sia pure per diversi motivi, l’annullamento degli altri recuperi (a due dei quali – nn. 4 e 5 – la stessa Agenzia aveva peraltro rinunciato).

2. Avverso tale decisione propone ricorso per cassazione l’Agenzia delle Entrate, sulla base di quattro motivi, cui resiste con controricorso la società contribuente, proponendo a sua volta ricorso incidentale, basato anch’esso su quattro motivi.

Entrambe le parti hanno presentato memorie ex art. 378 c.p.c.. La società controricorrente ha in tale sede chiesto in subordine applicarsi, per il principio del favor rei, il trattamento sanzionatorio previsto per le violazioni contestate quale risultante a seguito delle modifiche apportate, al D.Lgs. n. 18 dicembre 1997, n. 471, dal D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo del ricorso principale l’Agenzia delle entrate denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 167 c.p.c., comma 1, in combinato disposto con il D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 1, comma 2, per avere la C.T.R. ritenuto che l’Ufficio avesse rinunciato in parte alla ripresa fiscale relativa al transfer pricing (v. supra, rilievo num. 1), con riferimento ai trasferimenti effettuati in favore di due delle tre società interessate, per un complessivo importo di Euro 445.775,55 e che residuasse pertanto a tale titolo, quale tema di lite, la contestata legittimità della ripresa del residuo minore importo di Euro 138.507,05.

A tale convincimento la C.T.R. è in effetti pervenuta considerando che:

a) nelle proprie controdeduzioni la società appellata aveva affermato che l’Ufficio aveva rinunciato all’accertamento di maggior imponibile per un complessivo importo di Euro 516.045,43, in parte imputabile ai rilievi sopra indicati ai numeri 4 e 5, in altra parte imputabile (per l’importo di Euro 445.775,55) al rilievo n. 1, residuando per quest’ultimo il solo importo di Euro 138.507,05;

b) tale affermazione non era stata contestata dall’Ufficio “nè in dibattimento, nè con memoria aggiuntiva”;

c) per il principio di non contestazione detta rinuncia, nei termini sopra esposti, doveva ritenersi non bisognevole di prova, in quanto non espressamente contestata dall’amministrazione appellante.

Ciò premesso, con il motivo in esame l’Agenzia ricorrente rileva che la Commissione ha correttamente affermato che l’Ufficio aveva rinunciato ai rilievi nn. 4 e 5, nonchè a parte del rilievo n. 1 (segnatamente alla parte di esso relativa ai trasferimenti operati in favore delle società estere Professional Hydraulic Taiwan e ROMI Brasile), ma ha errato nel quantificare l’importo residuo (relativo ai prezzi praticati nei confronti della terza società estera, Denison Hydraulics Ltd. Hong Kong), considerandolo pari a Euro 138.507,05 anzichè a Euro 266.177,00; ciò in ragione di una non pertinente applicazione del principio di non contestazione anche all’interpretazione del contenuto dell’atto d’appello.

La censura è fondata.

La rinuncia, sia pur parziale, alla pretesa impositiva in corso di giudizio può ritenersi ritualmente acquisita al processo ed essere conseguentemente posta a base della decisione solo in presenza di espressa e rituale manifestazione in tal senso direttamente riferibile alla parte titolare del relativo potere (ossia dell’Ufficio impositore), non potendosi a tal fine considerare sufficiente il mero silenzio sul punto serbato in udienza dal rappresentante dell’Ufficio a fronte delle affermazioni in tal senso fatte dalla controparte, nè la mancata replica con memoria aggiuntiva.

Del tutto fuor di luogo è a tal fine il richiamo al principio di non contestazione.

Questo, com’è noto, vale (solo) ad espungere dal thema probandum il fatto non contestato (con conseguente relevatio ab onere probandi della parte che lo ha allegato) economizzando i tempi del giudizio; costituisce un riflesso del potere/onere di allegazione delle parti e, pertanto, partecipa alla natura ed ai limiti per questo previsti.

Ne discende anzitutto che un tale onere non è predicabile rispetto alla affermazione del contribuente appellato secondo cui sarebbe intervenuta nelle more del giudizio rinuncia alla pretesa impositiva, trattandosi non di fatto storico suscettibile di prova nel contrasto tra le parti, ma di atto dispositivo riferito alla pretesa sostanziale che costituisce oggetto stesso del giudizio, da ritenersi nella esclusiva e diretta disponibilità della parte che ne è titolare e per il quale si richiede, come detto, per i principi generali, una espressa ed inequivoca manifestazione ad essa direttamente riferibile.

Sotto altro profilo, inoltre, un onere di specifica contestazione non è più in generale configurabile, nel giudizio di appello, rispetto alle controdeduzioni della controparte appellata, in mancanza di norma che lo preveda.

2. L’accoglimento del primo motivo, escludendo la validità dell’unico argomento posto a base del convincimento espresso nella sentenza impugnata secondo cui la controversia in ordine alla legittimità del primo recupero (transfer pricing) resterebbe limitata al solo importo di Euro 138.507,05 (anzichè a quello di Euro 266.177,00), assorbe e rende ultroneo l’esame del secondo motivo di ricorso, con il quale si deduce sul punto anche vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per avere la C.T.R. tanto affermato nonostante emergesse dal p.v.c. richiamato nell’avviso di accertamento che “complessivamente, per quanto riguarda le vendite a Denison… vengono determinati maggiori ricavi pari a Euro 266.177,31”, senza che nell’atto d’appello tale importo fosse in alcun modo modificato.

3. Con il terzo motivo la ricorrente principale deduce violazione e falsa applicazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 9 e art. 76, comma 5 (nel testo all’epoca vigente), in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la C.T.R. ritenuto illegittimo il recupero del maggior prezzo applicato (in base al valore normale) sui trasferimenti operati nei confronti della società estera controllata Denison Hydraulics Ltd. Hong Kong in ragione del rilievo per cui “l’Ufficio non ha dimostrato nè la sussistenza di un vantaggio fiscale perseguito illecitamente, nè l’effettivo trasferimento di utili e quindi di materia imponibile all’interno del gruppo” e dell’ulteriore considerazione secondo cui “la scelta operata dalla società seppure con diversa politica dei prezzi di vendita… non si presenta irragionevole e priva di valide ragioni economiche”. Ciò sul presupposto – erroneo, secondo l’Agenzia – che l’art. 76, comma 5, T.U.I.R. detti una norma antielusiva di portata simile a quella di cui all’art. 37-bis T.U.I.R. e che, come quest’ultimo, richieda la dimostrazione di elementi ulteriori, rispetto a quello della mera difformità tra il valore dichiarato nelle cessioni e quello normale.

La censura è fondata.

Secondo indirizzo che può dirsi ormai consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, in caso di operazioni infragruppo intercorse con società estere controllate o controllanti di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 76 (ora art. 110, comma 7), l’onere probatorio gravante sull’Amministrazione finanziaria si esaurisce nel fornire la prova della esistenza della operazione infragruppo e della pattuizione di un corrispettivo inferiore al valore normale di mercato; il contribuente che intende contrastare la pretesa impositiva deve invece fornire la prova che il corrispettivo convenuto ovvero la mancanza di un corrispettivo per l’operazione infragruppo, corrisponde ai valori economici che il mercato attribuisce a tali operazioni. Non è invece necessario che l’Amministrazione finanziaria fornisca ulteriormente la prova che l’operazione infragruppo sia priva di una valida giustificazione economica ed abbia comportato un concreto risparmio di imposta, trattandosi di presupposti costitutivi della fattispecie generale di operazione antielusiva disciplinata dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37-bis, presupposti non richiesti nel caso in cui venga contestata la violazione della regola del “valore normale” dei componenti reddituali prevista nella specifica fattispecie del transfer pricing internazionale di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 110, comma 7 (v. ex multis Cass. 15/09/2017, n. 21410; Cass. 06/09/2017, n. 20805; Cass. 30/06/2016, n. 13387; Cass. 15/04/2016, n. 7493; Cass. 18/09/2015, n. 18392).

La sentenza impugnata, avendo effettivamente deciso nei termini esposti dalla ricorrente, non si è conformata a tale principio e va conseguentemente anche sul punto cassata.

4. Con il quarto motivo infine l’Agenzia delle Entrate denuncia motivazione insufficiente e contraddittoria circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per avere la C.T.R. posto a base della ritenuta illegittimità del recupero a tassazione delle spese (per Euro 100.666,00) imputate a commissioni relative a prestazioni ricevute dalla capogruppo (c.d. commissioni intercompany) il rilievo che “l’Ufficio non ha dimostrato che tali servizi non siano stati documentalmente provati e realmente avvenuti, ma si limita ad opporsi con generiche contestazioni di maniera senza opporre significativi rilievi di fondatezza”. Lamenta che, con tale motivazione, nulla i giudici d’appello hanno detto sul punto decisivo e controverso relativo alla idoneità della documentazione prodotta dalla società a fornire la necessaria prova dell’inerenza dei costi portati in deduzione.

Anche tale censura è fondata e merita accoglimento.

Secondo pacifico indirizzo della giurisprudenza di legittimità, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, l’onere della prova dei presupposti di deducibilità dei costi ed oneri concorrenti alla determinazione del reddito d’impresa, ivi compresa la loro inerenza e la loro diretta imputazione ad attività produttive di ricavi, tanto nella disciplina del D.P.R. n. 597 del 1973 e del D.P.R.n. 598 del 1973, che del D.P.R. n. 917 del 1986, incombe al contribuente. Inoltre, poichè nei poteri dell’amministrazione finanziaria in sede di accertamento rientra la valutazione della congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni, con negazione della deducibilità di parte di un costo sproporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’impresa, l’onere della prova dell’inerenza dei costi, gravante sul contribuente, ha ad oggetto anche la congruità dei medesimi (v. Cass. 25/02/2010, n. 4554; Cass. 30/07/2002, n. 11240).

Nel caso di specie la C.T.R. sembra aver presente tale criterio di riparto laddove postula la necessità di una “prova documentale” dei servizi da parte della società contribuente, ma tuttavia omette ogni valutazione circa l’idoneità di tale prova – ciò che costituiva il nucleo della contestazione mossa dall’amministrazione appellante -erroneamente assumendo un contrapposto onere dell’Ufficio di dimostrare “che tali servizi non siano stati documentalmente provati”, con ciò di fatto venendo meno a un compito invece ad essa riservato (quello appunto di valutare le prove offerte dalla contribuente) con il risultato di esporre sul punto la decisione adottata al denunciato vizio di motivazione.

5. Con il primo motivo di ricorso incidentale la società contribuente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, omessa pronuncia sulla eccezione sollevata da essa contribuente con il ricorso introduttivo – e reiterata con le controdeduzioni presentate in appello – di illegittimità dell’avviso per erronea riliquidazione delle imposte, avvenuta utilizzando dati del tutto difformi da quelli contenuti nella dichiarazione dei redditi relativa all’anno d’imposta 2003.

La censura si appalesa infondata.

E’ sufficiente rammentare al riguardo che, secondo pacifico insegnamento della giurisprudenza di legittimità, non ricorre il vizio di omessa pronuncia, nonostante la mancata decisione su un punto specifico, quando la decisione adottata comporti una statuizione implicita di rigetto sul medesimo (v. in tal senso Cass. 08/03/2007, n. 5351, in un caso in cui la S.C. ha ravvisato il rigetto implicito dell’eccezione di inammissibilità dell’appello nella sentenza che aveva valutato nel merito i motivi posti a fondamento del gravame).

Nel caso di specie il parziale accoglimento da parte della C.T.R. del gravame proposto dall’Ufficio, all’esito dell’esame nel merito dei motivi che ne erano posti a fondamento, comporta evidentemente l’implicito rigetto della eccezione reiterata dalla contribuente di radicale infondatezza dell’accertamento sotto il profilo suindicato (peraltro nel merito di oscura pertinenza alla fattispecie in esame, trattandosi di pretesa impositiva nascente da accertamenti in rettifica del reddito imponibile e non da mera liquidazione di imposte autodichiarate).

6. Con il secondo motivo la ricorrente incidentale deduce violazione e falsa applicazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 63 e art. 75, comma 5, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la C.T.R. ritenuto legittima la ripresa a tassazione, a fini Irpeg, degli interessi passivi corrisposti a fronte di finanziamenti ricevuti, per Euro 2.500.000, dalla società collegata Denison Hydraulics France S.p.A., in ragione della mancata dimostrazione della sussistenza di valide ragioni per ricorrere ad esso, risultando dal bilancio che la società si avvaleva di un conto valutario in dollari pari Dollari 3.600.000 per finanziare un piano di investimenti in immobilizzazioni tecniche.

La censura è fondata.

Costituisce infatti orientamento consolidato nella giurisprudenza di questa Corte quello secondo cui “al fini della determinazione del reddito d’impresa, gli interessi passivi, a mente del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75, comma 5 e a differenza della precedente normativa contenuta nel D.P.R. 29 settembre 1973, n. 597, art. 74, sono sempre deducibili, anche se nei limiti della disciplina detta dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 63, che indica misura e modalità del calcolo degli interessi passivi deducibili in via generale, senza che sia necessario operare alcun giudizio di inerenza” (v. Cass. 14/05/2014, n. 10501; Cass. 21/11/2001, n. 14702; Cass. 19/05/2010, n. 12246; 21/04/2009, n. 9380; Cass. 21/01/2009, n. 1465; Cass. 13/10/2006, n. 22034).

Si è in proposito anche chiarito che nella determinazione del reddito d’impresa “resta precluso tanto all’imprenditore quanto all’Amministrazione finanziaria dimostrare che gli interessi passivi afferiscono a finanziamenti contratti per la produzione di specifici ricavi, dovendo invece essere correlati all’intera attività dell’impresa esercitata. Gli interessi passivi, infatti, sono oneri generati dalla funzione finanziaria che afferiscono all’impresa nel suo essere e progredire, e dunque non possono essere specificamente riferiti ad una particolare gestione aziendale o ritenuti accessori ad un particolare costo” (Cass. n. 1465 del 2009).

I giudici di merito non hanno fatto corretta applicazione di detti principi, avendo ritenuto indeducibili gli interessi passivi, sui finanziamenti richiesti dalla contribuente, per mancata inerenza all’attività sociale, stante la loro antieconomicità.

La sentenza impugnata va pertanto anche sul punto cassata, restando assorbito il quarto motivo di ricorso incidentale con il quale la società deduce, con riferimento al medesimo rilievo, vizio di motivazione (per avere la C.T.R. negato, senza il supporto si sufficiente motivazione, la validità delle ragioni economiche dedotte a giustificazione del finanziamento).

7. Con il terzo motivo di ricorso incidentale la società contribuente denuncia altresì violazione del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 5, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la C.T.R. ritenuto legittima la ripresa a tassazione, a fini Irap, dei suddetti interessi passivi.

Tale censura è infondata.

Il D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 5 (nel testo applicabile ratione temporis, quale risultante delle modifiche introdotte dal D.Lgs. 30 dicembre 1999, n. 506, art. 1, comma 1, lett. c) e art. 3, comma 1,), così dispone: “1. Per i soggetti di cui all’art. 3, comma 1, lett. a) e b), non esercenti le attività di cui agli articoli 6 e 7, la base imponibile è determinata dalla differenza tra la somma delle voci classificabili nel valore della produzione di cui dell’art. 2425 c.c., comma 1, lett. A) e la somma di quelle classificabili nei costi della produzione di cui alla lett. B) del medesimo comma, ad esclusione delle perdite su crediti e delle spese per il personale dipendente. Detta disposizione opera anche per i soggetti non tenuti all’applicazione del citato art. 2425”.

La norma non fa dunque alcun riferimento alle voci classificate sub lett. C dello schema di conto economico di cui all’art. 2425 c.c., tra le quali sono compresi, al punto 17, gli “interessi e altri oneri finanziari, con separata indicazione di quelli verso imprese controllate e collegate e verso controllanti”.

Dal che deve desumersi non già, come sostenuto dalla ricorrente incidentale, che tali voci sono già per legge escluse dalla formazione della base imponibile Irap, ma, all’opposto, che non possono essere dedotte, in quanto non comprese tra le poste passive che la norma consente di portare in deduzione da quelle attive di cui dell’art. 2425 c.c., comma 1, lett. A).

8. In ragione dell’accoglimento del primo, del terzo e del quarto motivo del ricorso principale, nonchè del secondo motivo del ricorso incidentale, la sentenza impugnata va quindi cassata con rinvio al giudice a quo.

Nell’uniformarsi ai principi sopra esposti il giudice territoriale valuterà anche l’incidenza sul quadro sanzionatorio delle modifiche apportate alla relativa disciplina dal D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158.

Al quale giudice di rinvio va anche demandato il regolamento delle spese del presente giudizio di legittimità.

PQM

accoglie, nei termini di cui in motivazione, i motivi primo, terzo e quarto del ricorso principale; accoglie il secondo motivo del ricorso incidentale; rigetta il primo e il terzo motivo del ricorso incidentale; dichiara assorbiti il secondo motivo del ricorso principale e il quarto motivo di quello incidentale; cassa la sentenza in relazione ai motivi accolti; rinvia alla Commissione Tributaria Regionale dell’Emilia-Romagna in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 7 novembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 15 dicembre 2017

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