Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 30139 del 21/11/2018

Cassazione civile sez. lav., 21/11/2018, (ud. 11/10/2018, dep. 21/11/2018), n.30139

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 12460/2017 proposto da:

D.G., domiciliato in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA CANCELLERIA

DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso

dall’avvocato TIZIANA FOGLI, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

MAGNA CLOSURES S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA EMPORIO 16/A,

presso lo studio degli avvocati RICCARDO DEL PUNTA, ILARIA PAGNI,

che la rappresentano e difendono, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 855/2016 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 21/11/2016 R.G.N. 523/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

11/10/2018 dal Consigliere Dott. FABRIZIO AMENDOLA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MASTROBERARDINO Paola, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato ANNA SCOTTI per delega Avvocato ILARIA PAGNI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte di Appello di Firenze, con sentenza del 21 novembre 2016, nell’ambito di un procedimento ex lege n. 92 del 2012, ha respinto il reclamo proposto da D.G. nei confronti della Magna Closures Spa avverso la sentenza di primo grado che, in sede di opposizione, aveva dichiarato la legittimità del licenziamento intimato al lavoratore in data 23.9.2013 “per permanente impossibilità di continuare ad adibire il dipendente alle mansioni affidategli, così come a qualsiasi altra mansione, anche inferiore, di tipo operaio”.

La Corte, anche dopo aver disposto un accertamento medico-legale in fase di reclamo, ha condiviso l’assunto del primo giudice circa la dimostrata inidoneità psico-fisica del D. sia alle mansioni di addetto all’assemblaggio che a quelle di macchinista, oltre l’impossibilità di repechage nell’ambito aziendale.

2. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso il D. con 3 motivi, cui ha resistito la Magna Closures Spa con controricorso, illustrato da memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo del ricorso denuncia “violazione e falsa applicazione dell’art. 195 c.p.c. e dell’art. 111 Cost.”, deducendo che “la relazione del consulente tecnico adottata nel corso del giudizio di appello è stata modificata per ben tre volte”; si sostiene che “alcuna norma prevede che il consulente nominato dal giudice invii una bozza di relazione e possa quindi modificarla in base alle osservazioni delle parti”; si lamenta che il CTU abbia espunto dalla relazione depositata il 14/6/2016 la conclusione cui era addivenuto nella relazione inviata alle parti il 5/6/2016 e cioè la seguente affermazione: “ad oggi sembra che il D. abbia riacquistato un’idoneità completa alle mansioni lavorativa precedentemente espletate sia di macchinista che di addetto al montaggio”.

La censura, che prospetta un errore di attività del giudice con conseguente “ingiustizia” del processo, non può trovare accoglimento.

1.1. Le contestazioni sollevate ad una la consulenza tecnica d’ufficio dalle parti possono riguardare il procedimento, oppure il contenuto di essa.

Se le prime integrano eccezioni di nullità e si inquadrano nell’ambito di applicazione degli artt. 156-157 c.p.c., onde la relativa eccezione va sollevata nella prima difesa, le seconde costituiscono argomentazioni difensive, sebbene non di carattere tecnico-giuridico, le quali non soggiacciono a detto rigoroso termine di decadenza (cfr. Cass. n. 15418 del 2016).

1.2. Secondo la giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 23493 del 2017; conformi: Cass. n. 14880 del 2018 e n. 21984 del 2018), dell’art. 195 c.p.c., comma 3, come sostituito della L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 46, comma 5, ha introdotto una sorta di sub procedimento nella fase conclusiva della consulenza tecnica d’ufficio, regolando, attraverso scansioni temporali rimesse alla concreta determinazione del giudice, i compiti del c.t.u. e le facoltà difensive delle parti nel momento del deposito della relazione scritta.

La novella ha perseguito l’obiettivo di garantire la piena esplicazione di un contraddittorio tecnico e, quindi, del diritto di difesa delle parti anche nella fase dell’elaborazione dei risultati dell’ indagine peritale. La dialettica tra l’ausiliario officioso e gli esperti di fiducia delle parti si realizza così in maniera anticipata rispetto alla sottoposizione degli esiti peritali al giudice, consentendogli di esercitare un effettivo esercizio della funzione di peritus peritorum e di conoscere già all’ udienza successiva al deposito della relazione i rilievi delle parti, nonchè le repliche e controdeduzioni del consulente d’ufficio, con conseguente accelerazione dei tempi del processo.

In particolare non è affatto vietato che il consulente tecnico d’ufficio, in seguito all’interlocuzione con le parti ed i loro consulenti, all’esito dell’articolato iter procedimentale giunga a formulare conclusioni diverse, in tutto o in parte, o, comunque, ad argomentarle meglio quelle già formulate, sollecitato proprio dalle osservazioni delle difese, che altrimenti sarebbero private in gran parte della loro utilità.

1.3. In ogni caso, anche laddove l’alterazione procedimentale determini un pregiudizio del diritto di difesa (ad ex. per mancata comunicazione alle parti della data di inizio delle operazioni peritali o mancata loro partecipazione alla prosecuzione delle operazioni), essa si traduce, per consolidata giurisprudenza di legittimità (tra molte v. Cass. n. 1744 del 2013), in una nullità assoggettata al rigoroso limite preclusivo di cui all’art. 157 c.p.c., sicchè tale nullità resta sanata se non eccepita nella prima istanza o difesa successiva al deposito.

Nel motivo in esame non si specifica il contenuto testuale dell’atto processuale (verbale d’udienza o memoria) nel corpo del quale il procuratore del D. abbia formalmente e tempestivamente eccepito la nullità procedimentale nella prima istanza o difesa successiva al deposito della consulenza viziata, sì da consentire a questa Corte di ritenere, sulla base del ricorso per cassazione, che la pretesa nullità non sia stata sanata.

1.4. Inoltre, per la giurisprudenza innanzi citata, l’eventuale nullità consumatasi nel corso del sub procedimento ex art. 195 c.p.c., è suscettibile anche di sanatoria per rinnovazione, potendo il contraddittorio sui risultati dell’indagine essere recuperato dal giudice e ripristinato successivamente al deposito della relazione, in modo da potere comunque, all’esito, esercitare con piena cognizione di causa i poteri lui attribuiti ai sensi dell’art. 196, cioè a valutare la necessità o l’opportunità di assumere chiarimenti dal c.t.u. ovvero disporre accertamenti suppletivi o addirittura la rinnovazione delle indagini o la sostituzione del consulente.

E’ quanto accaduto nel caso che ci occupa in quanto la Corte di Appello di Firenze, rispetto alla contestata relazione peritale depositata il 14 giugno 2016, non avendo il CTU rispettato il termine concesso alle parti per effettuare osservazioni, ha disposto una nuova relazione di chiarimento, facultando le parti a nuove osservazioni “tanto alla relazione già depositata, quanto all’integrazione depositanda”, sostanzialmente ripristinando il pieno contraddittorio sui risultati dell’indagine e sanando ogni eventuale pregresso vizio procedimentale per rinnovazione.

1.5. Da ultimo, ma non ultimo per importanza, occorre ancora una volta ribadire che secondo questa Corte la denuncia di vizi fondati sulla pretesa violazione di norme processuali non tutela l’interesse all’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma garantisce solo l’eliminazione del pregiudizio subito dal diritto di difesa della parte in conseguenza della denunciata violazione, potendo trovare applicazione la sanzione di nullità solo nel caso in cui l’erronea applicazione della regola processuale abbia comportato, per la parte, una lesione del diritto di difesa che abbia avuto riflessi sulla decisione di merito (tra molte: Cass. n. 4340 del 2010; n. 3024 del 2011; n. 6330 del 2014; n. 26831 del 2014; n. 26157 del 2014).

I principi informatori del processo civile, ed in particolare i principi del “giusto” processo e della “ragionevole durata” del processo (art. 111 Cost.) impongono, infatti, di evitare per quanto possibile lo svolgimento di attività processuale inutile, circoscrivendo gli effetti della invalidità caducante l’intera attività fino ad allora svolta ai soli vizi processuali che risultino “effettivamente” insanabili in quanto suscettibili di determinare una effettiva compromissione del risultato cui deve tendere il giudizio, volto a rendere alle parti una decisione “giusta” ossia una regola del rapporto di diritto sostanziale controverso che risponda al canone di giustizia prefissato dall’ordinamento giuridico. Non va dunque condiviso l’assioma “inosservanza della norma processuale – errore nell’attività processuale – “automatica” invalidazione dell’attività successiva”, difettando in tale equazione l’elemento eziologico intermedio dato dall’effettivo insanabile pregiudizio subito dalla parte, il quale soltanto può giustificare la sanzione della nullità processuale con la caducazione di tutti gli atti consequenziali compiuti (da ultimo v. Cass. n. 18522 del 2018, in motivazione).

La tesi difensiva svolta nel motivo di ricorso in esame, tendente ad accreditare l’idea che il diverso tenore delle relazioni depositate dal CTU nel corso del procedimento determinerebbero ex se la nullità di quella finale su cui la Corte del merito ha fondato la decisione è pertanto priva di fondamento.

La scansione dei tempi delle indagini peritali, formalizzata dell’art. 195 c.p.c., comma 3, introdotto dalla L. n. 69 del 2009, art. 46, comma 5, si è limitata a razionalizzare l’esistente, proprio al fine di adeguare quanto più possibile lo svolgimento dell’ “iter” processuale al principio di rango costituzionale della “ragionevole durata del processo” (art. 111 Cost., comma 2), evitando inutili dispersioni di tempo che venivano a riscontrarsi nella prassi giudiziaria laddove alla udienza immediatamente successiva al deposito dell’elaborato peritale le parti richiedevano – ed il giudice si limitava a disporre – l’assegnazione di termini per il deposito di note critiche alla c.t.u., con ulteriore rinvio a nuova udienza per l’esame e la discussione delle eventuali osservazioni critiche e la convocazione a chiarimenti del CTU (Cass. n. 18522/20188 cit.).

E tale intento perseguito dalla legge di riforma del 2009, con la funzione peculiare, sottolineata dalla dottrina, di realizzare una “anticipazione” del contraddittorio tecnico, non può essere vanificato da pretese nullità procedimentali ravvisate nella mera evoluzione del giudizio peritale cui si è giunti proprio attraverso l’interlocuzione con le parti.

2. Con il secondo mezzo si denuncia “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Si lamenta che la Corte d’Appello avrebbe omesso di esaminare le doglianze sollevate dal lavoratore alla relazione peritale in ordine alla contraddittorietà del consulente tecnico che avrebbe cambiato per tre volte le sue conclusioni in merito alla riacquisizione da parte del D. della sua capacità lavorativa dopo il licenziamento.

Il motivo, così come formulato, è inammissibile.

Esso denuncia il vizio di cui dell’art. 360 c.p.c., n. 5, che tipicamente riguarda l’omesso esame di un fatto storico decisivo, il quale attiene alla ricostruzione della vicenda storica che ha dato origine alla controversia, e che deve essere dedotto, dopo la novella del 2012, nelle forme rigorosamente previste da Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014.

Invece si contesta un preteso errore di attività del giudice, che avrebbe dovuto essere fatto valere nelle forme dell’error in procedendo richieste dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, anche con la specificazione delle ragioni per cui ne sarebbe derivata la nullità della sentenza o del procedimento.

Inoltre, per costituire motivo idoneo di ricorso per cassazione, il vizio processuale avrebbe dovuto essere dedotto dimostrando che lo stesso ha influito in modo determinante sulla sentenza di merito investita dal ricorso, nel senso che la stessa, in assenza del vizio denunciato, non sarebbe stata resa come tale (tra tutte: Cass. n. 22978 del 2015; Cass. n. 15676 del 2014), mentre all’evidenza la critica si fonda su di una pretesa contraddittorietà della condotta del consulente e si traduce in un mero dissenso rispetto all’opinione del perito condivisa invece motivatamente dalla Corte di merito.

3. Con il terzo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., art. 115 c.p.c., L. n. 604 del 1966, artt. 3 e 5, D.Lgs. n. 216 del 2003, art. 3, comma 3, nonchè “violazione obbligo di repechage”.

Si critica la sentenza impugnata “poichè ritiene provato l’assolvimento dell’obbligo di repechage senza che questa prova sia sorretta da alcun elemento probatorio”.

Anche tale motivo risulta inammissibile perchè, nonostante l’invocazione solo formale di plurimi errori di diritto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, nella sostanza tende a provocare una diversa valutazione della vicenda storica rispetto a quella effettuata dai giudici cui spetta la competenza esclusiva sul merito; si deduce, infatti, esplicitamente che non sarebbe stato dal datore di lavoro “provato l’assolvimento dell’obbligo di repechage”.

Si tratta di un accertamento, che attiene tipicamente ad una quaestio facti, certamente sottratto al sindacato di legittimità, tanto più nel vigore dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, novellato, così come rigorosamente interpretato da Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014 già citate e di cui parte istante non tiene alcun conto.

Non di errore di diritto si tratta, bensì di diversa valutazione dei fatti inibita a questa Corte, anche perchè, per i giudizi di appello instaurati dopo il trentesimo giorno successivo alla entrata in vigore della legge 7 agosto 2012 n. 134 (pubblicata sulla G.U. n. 187 dell’11.8.2012), di conversione del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, rispetto ad un appello promosso come nella specie dopo la data sopra indicata (del richiamato D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 2), opera la preclusione per il ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di Appello che conferma la decisione di primo grado, qualora il fatto sia stato ricostruito nei medesimi termini dai giudici di primo e di secondo grado (art. 348 ter c.p.c., u.c., in base al quale il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non è deducibile in caso di impugnativa di pronuncia c.d. doppia conforme; v. Cass. n. 23021 del 2014).

4. Conclusivamente il ricorso va respinto; le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo.

Allo stato occorre dare atto che non sussistono i presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, in quanto il D., ammesso al patrocinio a spese dello Stato, non è tenuto al versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato (cfr. Cass. n. 18523 del 2014; Cass. n. 7368 del 2017).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in Euro 4.000,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, rimborso spese forfettario al 15% ed accessori secondo legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della non sussistenza allo stato dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 11 ottobre 2018.

Depositato in Cancelleria il 21 novembre 2018

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