Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 30111 del 21/11/2018

Cassazione civile sez. I, 21/11/2018, (ud. 24/10/2018, dep. 21/11/2018), n.30111

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Presidente –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – rel. Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 25585/2017 proposto da:

A.A., elettivamente domiciliato in Roma, Piazza Cavour,

presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione,

rappresentato e difeso dall’avvocato Ciafardini Antonino, giusta

procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’interno presso la Commissione Territoriale per il

riconoscimento della Protezione Internazionale di Bari e Pubblico

Ministero presso il Tribunale Di L’aquila;

– intimati –

avverso la sentenza n. 1092/2017 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,

pubblicata il 15/06/2017;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

24/10/2018 dal Cons. Dott. IOFRIDA GIULIA.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte d’appello di L’Aquila, con sentenza n. 1092/2017, pronunciata in un giudizio promosso da A.A., cittadino del Bangladesh, in opposizione al provvedimento della Commissione Territoriale di Bari di diniego della domanda di protezione internazionale (anche sussidiaria ed umanitaria), ha confermato, respingendo il gravame dell’ A., nella contumacia del Ministero appellato, la decisione di primo grado che aveva respinto il ricorso. In particolare, la Corte d’appello (dopo avere ritenuto tempestivo il gravame, introdotto con ricorso depositato nel termine di trenta giorni dalla comunicazione del provvedimento impugnato), nel merito, ha rilevato che, quanto alla richiesta di protezione sussidiaria, non era sufficiente allegare una situazione generale di privazione delle libertà e di violazione dei diritti umani nel Paese d’origine, occorrendo invece dedurre una situazione di rischio derivante da una minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona, salvo che si versasse in una situazione generalizzata di “violenza indiscriminata e di conflitto armato”, insussistente nei predetti termini nel Bangladesh; quanto al riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari, “la storia personale” dello straniero (allontanatosi dal paese d’origine per ragioni di lavoro) non evidenziava un quadro di grave vulnerabilità personale.

Avverso la suddetta sentenza, A.A. propone ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi, nei confronti del Ministero dell’Interno (che non svolge attività difensiva).

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

11. Il ricorrente lamenta: 1) con il primo motivo, la nullità della sentenza, ex art. 360 c.p.c., n. 4, per motivazione del tutto contraddittoria e apparente, avendo la Corte d’appello escluso la ricorrenza dei presupposti per la protezione internazionale, anche sussidiaria, pur avendo confermato che dai report di Amnesty Interntional risultava un regime diffuso di violazione dei diritti umani ed una situazione di grave insicurezza del paese derivante da disordini ed attentati; 2) con il secondo motivo, la violazione e/o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3 e 5, per non avere la Corte d’appello applicato il principio dell’onere probatorio attenuato, avvalendosi dei propri poteri istruttori, e per non avere valutato la credibilità del richiedente alla luce dei suddetti parametri normativi; 3) con il terzo motivo, la violazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), per non avere la Corte d’appello riconosciuto la sussistenza di una minaccia grave alla vita del cittadino straniero derivante da una situazione di violenza indiscriminata, ai fini della chiesta protezione sussidiaria; 4) con il quarto motivo, la violazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, per non avere la Corte d’appello riconosciuto la sussistenza dei motivi umanitari per la concessione della relativa tutela.

2. La prima censura è infondata.

La sentenza non risulta infatti affetta da un vizio di radicale carenza di motivazione o motivazione apparente. Invero, la Corte d’appello ha ritenuto che, malgrado i report diffusi da Amnesty International, con riguardo ai necessari requisiti della individualità della minaccia grave alla vita ed alla persona prescritti per il riconoscimento della protezione sussidiaria, la situazione del Bangladesh non aveva raggiunto un livello talmente elevato da far sussistere fondati motivi per ritenere che un civile rinviato nel paese in questione potesse correre “un rischio effettivo di subire una minaccia grave alla vita o alla persona”, mentre con riguardo alla protezione umanitaria, “la storia personale” dello straniero non evidenziava un quadro di grave vulnerabilità personale.

Come osservato dalle S.U. di questa Corte (Cass S.U. 22232/2016) “La motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perchè affetta da “error in procedendo”, quando, benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture”.

In realtà, i motivi sottendono una censura di insufficienza motivazionale che non può essere più avanzata, in sede di legittimità, attesa la nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5. Si tratta di una motivazione che non può considerarsi meramente apparente, in quanto esplicita le ragioni della decisione, proprio criticando la congruità del criterio di rideterminazione dei maggiori ricavi non dichiarati, operato dall’Ufficio, in rapporto alla specifica attività dell’impresa.

4. Il secondo motivo è inammissibile, in quanto prescinde dal contenuto della sentenza impugnata e trascura il percorso argomentativo svolto dalla Corte territoriale.

Secondo l’assunto del ricorrente, il giudice può accertare la sussistenza di un determinato titolo di protezione internazionale pur in difetto di allegazione del medesimo da parte dell’attore.

Tuttavia, come già rilevato da questa Corte (Cass. 19197/2015; conf.

Cass. 7385/2017; Cass. 30679/2017), “il ricorso al tribunale costituisce atto introdutttvo di un giudizio civile, retto dal principio dispositivo: principio che, se nella materia della protezione internazionale viene derogato dalle speciali regole di cui al cit. D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 e al D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 8, che prevedono particolari poteri-doveri istruttori (anche) del giudice, non trova però alcuna deroga quanto alla necessità che la domanda su cui il giudice deve pronunciarsi corrisponda a quella individuabile in base alle allegazioni dell’attore”, cosicchè “i fatti costitutivi del diritto alla protezione internazionale devono necessariamente essere indicati dal richiedente, pena l’impossibilità per il giudice di introdurli in giudizio d’ufficio, secondo la regola generale”.

La Corte territoriale ha rilevato, nella domanda formulata dalla ricorrente, una carenza di allegazione dei fatti costitutivi del diritto di protezione invocato. Tali fatti andavano perciò dedotti in giudizio dall’attuale ricorrente, che però non vi ha provveduto, cori conseguente insussistenza della violazione dell’obbligo di cooperazione officiosa invocato.

5. Il terzo motivo è del pari inammissibile.

Come precisato di recente da questa Corte (Cass. 14006/2018) con riguardo alla protezione sussidiaria (cui si riferisce il motivo in esame), “in tema di protezione sussidiaria dello straniero, prevista dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), l’ipotesi della minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale implica o una con testualizzazione della minaccia suddetta, in rapporto alla situazione soggettiva del richiedente, laddove il medesimo sia in grado di dimostrare di poter essere colpito in modo specifico, in ragione della sua situazione personale, ovvero la dimostrazione dell’esistenza di un conflitto armato interno nel Paese o nella regione, caratterizzato dal ricorso ad una violenza indiscriminata, che raggiunga un livello talmente elevato da far sussistere fondati motivi per ritenere che un civile, rientrato nel paese in questione o, se del caso, nella regione in questione, correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio di questi ultimi, un rischio effettivo di subire detta minaccia”.

Nel ricorso, non si spiegano le ragioni per le quali, nello specifico, sussisterebbero i presupposti per il riconoscimento della tutela in favore del ricorrente, limitandosi il racconto a riferire di scontri nei paese (il Bangladesh) tra due partiti, senza alcun riferimento alla situazione personale del richiedente.

Nonostante la formale denuncia della violazione di legge, parte ricorrente mira, insomma, del tutto inammissibilmente, a confutare le valutazioni di merito operate dalla Corte distrettuale, tra le quali quella relativa alla sua inattendibilità, tenuto conto che il riconoscimento della protezione sussidiaria, cui il motivo sostanzialmente si riferisce, presuppone che il richiedente rappresenti una condizione, che, pur derivante dalla situazione generale del paese, sia, comunque, a lui riferibile e sia caratterizzata da una personale e diretta esposizione al rischio di un danno grave, quale individuato dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14.

6. Anche il quarto motivo risulta inammissibile.

Questa Corte ha di recente chiarito (Cass. 4455/2018) che “in materia di protezione umanitaria, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza”.

La Corte d’appello ha ritenuto insussistente una situazione di vulnerabilità personale, meritevole di tutela, del richiedente il permesso di soggiorno per ragioni umanitarie, essendosi lo stesso limitato a riferire di una situazione personale di povertà. La genericità del racconto del ricorrente, collegato a vicende nate comunque in un contesto familiare del passato, rimaste prive di elementi di riscontro, ha giustificato la pronuncia. Tale giudizio è sorretto da una valutazione di totale inattendibilità di quanto dedotto, che, essendo adeguatamente motivata, non è censurabile in questa sede, implicando accertamenti di merito che sono per loro natura estranei al giudizio di legittimità (Cass. 2858/2018).

Inoltre, la questione in merito al tatto che le condizioni socio economiche e sanitarie del paese d’origine non consentano un livello sufficientemente adeguato ed accettabile di vita non è affrontata dai giudice di merito ed il ricorrente non ha indicato se la stessa era stata allegata in sede di merito e dove era stata posta (cfr. Cass. 23675/2013).

Miglior sorte, infine, nemmeno toccherebbe, eventualmente, al motivo in esame alla stregua del testo del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3, come recentemente modificato dal D.L. n. 113 del 2018, tuttora in fase di conversione in legge, non recando la prospettazione dell’odierno motivo di ricorso alcun riferimento alle specifiche previsioni di cui al D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 19, commi 1 e 1.1, come modificato dal citato D.L. n. 113 del 2018. 7. Per tutto quanto sopra esposto, va respinto il ricorso. Non v’è luogo a provvedere sulle spese processuali, non avendo l’intimato svolto attività difensiva.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della non ricorrenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 24 ottobre 2018.

Depositato in Cancelleria il 21 novembre 2018

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