Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 30105 del 21/11/2018

Cassazione civile sez. I, 21/11/2018, (ud. 18/07/2018, dep. 21/11/2018), n.30105

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCHIRO� Stefano – Presidente –

Dott. SAMBITO Maria Giovanna C. – rel. Consigliere –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 10070/2017 proposto da:

A.S., elettivamente domiciliato in Roma, Via Antonio Gramsci

n. 24, presso lo studio dell’avvocato Masini Maria Stefania,

rappresentato e difeso dall’avvocato Mannironi Stefano Francesco

Maria, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno;

– intimato –

avverso la sentenza n. 105/2017 della CORTE D’APPELLO di CAGLIARI,

depositata il 20/02/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

18/07/2018 dal cons. SAMBITO MARIA GIOVANNA C.;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale DE

RENZIS LUISA, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito, per il ricorrente, l’Avvocato Stefano Francesco Maria

Mannironi che ha chiesto l’accoglimento del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con sentenza in data 20.2.2017, la Corte d’Appello di Cagliari ha confermato il rigetto delle istanze volte in via gradata al riconoscimento dello status di rifugiato, del diritto all’asilo, della protezione sussidiaria e della protezione umanitaria, avanzate da A.S., cittadino pakistano, il quale aveva esposto di aver lasciato il suo Paese perchè aveva subito percosse, minacce e un tentativo di omicidio da parte dei cugini di una ragazza -appartenente ad una casta superiore alla sua e con la quale aveva instaurato una relazione sentimentale – e di esser giunto in (OMISSIS), dopo esser transitato dalla Libia. Dopo aver riepilogato i principi informatori della materia, e riportato notizie da fonti internazionali sulla situazione del pakistan e della regione del (OMISSIS), di provenienza del richiedente, la Corte ha affermato che: a) l’opposizione D.Lgs. n. 25 del 2008, ex art. 35, non costituisce un’impugnazione in senso tecnico del rigetto della domanda proposta in sede amministrativa, essendo il giudice chiamato a pronunciarsi sulla fondatezza della richiesta di protezione sulla scorta delle allegazioni del richiedente e delle risultanze istruttorie acquisite, anche, d’ufficio; b) la domanda di asilo ex art. 10 Cost., non è autonomamente azionabile, essendo il principio costituzionale stato attuato mediante il previsto sistema pluralistico di protezione internazionale; c) non sussistono i presupposti nè per il riconoscimento dello status di rifugiato, non essendo i fatti rappresentati dal richiedente rilevanti al riguardo, nè per il riconoscimento della protezione sussidiaria, non potendo ritenersi sussistente nella regione del (OMISSIS) un conflitto armato interno, nè, infine, per il riconoscimento della protezione umanitaria, non avendo il ricorrente dedotto alcuna sua particolare condizione di vulnerabilità.

A.S. ha proposto ricorso per cassazione sulla scorta di nove motivi. Il Ministero non ha depositato difese. All’esito dell’adunanza del 5.12.2017, la causa è stata rinviata alla pubblica udienza. Il ricorrente ha depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Col primo ed il secondo motivo, si censura la statuizione sub a) di parte narrativa, per violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 4, 28 e 32, art. 97 Cost., art. 342 c.p.c., oltre che omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio. In particolare, col primo motivo, il ricorrente afferma di avere un autonomo diritto al rispetto delle disposizioni volte a disciplinare la composizione ed il funzionamento delle Commissioni territoriali che travalica quello volto ad ottenere la protezione richiesta, e, con il secondo, lamenta che la Corte territoriale ha considerato irrilevante il motivo con cui si era doluto della mancata traduzione del provvedimento impugnato in lingua a lui comprensibile e, così, erroneamente avallato un trattamento discriminatorio rispetto a quello che la giurisprudenza di legittimità riconosce al cittadino straniero destinatario di un provvedimento di espulsione, dubitando della costituzionalità del D.P.R. n. 303 del 2004, art. 4, del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 19 e artt. 702 bis e segg. c.p.c., nonchè della L. n. 2248 del 1865, artt. 4 e 5, in riferimento agli artt. 3,24 e 10 Cost., in relazione all’art. 6 CEDU.

2. I motivi, da valutarsi congiuntamente per la loro connessione, sono, in parte, inammissibili ed, in parte, infondati. 3. Sotto il primo profilo, il ricorso, al quale solo va fatto riferimento ai fini della valutazione di specificità dell’impugnazione ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, non contiene alcuna informazione circa la qualifica dei componenti della Commissione territoriale, formula generiche illazioni in ordine ai poteri del suo Presidente nella redazione del provvedimento ed all’assenza della certificazione del segretario, ed omette di indicare le ragioni espresse dal Tribunale nel rigettare la doglianza riferita alla mancata traduzione del provvedimento ed i pertinenti motivi di gravame proposti in appello, senza neppure indicare la lingua nella quale il provvedimento avrebbe dovuto essere tradotto.

4. Il reiterato riferimento alla disposizione di cui all’art. 97 Cost., effettuato dal ricorrente, pure, in sede di discussione, risulta, ad ogni modo, inconferente, in quanto l’ipotetica violazione dei canoni di buon andamento ed imparzialità non potrebbe incidere su di un diritto del ricorrente autonomo ed avulso dall’esame del caso che lo riguarda: trattandosi di principi che devono informare l’azione amministrativa la relativa trasgressione in tanto può avere rilevanza in giudizio in quanto si rifletta sull’attività in concreto svolta dall’Amministrazione determinando l’invalidità dell’atto che, assunto in loro inosservanza, sia stato oggetto d’impugnazione. 5. Ed al riguardo, il Collegio intende ribadire che, in materia di protezione internazionale, il ricorso giurisdizionale proposto dal richiedente, all’esito negativo della fase amministrativa – nell’ambito della quale un collegio di esperti esamina la domanda previa sua audizione – non ha per oggetto un giudizio d’impugnazione del provvedimento della Commissione territoriale, ma il diritto soggettivo dell’istante alla protezione invocata.

Conseguentemente il relativo giudizio non può concludersi con il mero annullamento del diniego amministrativo della protezione, in tesi, illegittimo, ma deve pervenire alla decisione sulla spettanza o meno del diritto alla stessa e ciò in quanto la legge (D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 19, comma 9, qui applicabile ratione temporis, prima D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35, comma 10 ed oggi art. 35 bis stesso decreto, comma 13, quale inserito dal D.L. n. 13 del 2017, convertito nella L. n. 46 del 2017) stabilisce che la sentenza del Tribunale può contenere, alternativamente, il rigetto del ricorso ovvero il riconoscimento dello status di rifugiato o di persona cui è accordata la protezione sussidiaria, o umanitaria e non prevede il puro e semplice annullamento della decisione della Commissione (cfr. Cass. 26480 del 2011; n. 18632 del 2014; n. 7385 del 2017; n. 23472 del 2017; cfr. pure, Cass. n. 12273 del 2013), neppure quando se ne deduca, come nella specie, la nullità per l’omessa sua comunicazione in lingua comprensibile dall’interessato o, in mancanza in una lingua veicolare, in riferimento al D.P.R. n. 303 del 2004, art. 4, vigente ratione temporis (D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 40, comma 1, lett. b, ha disposto l’abrogazione dell’intero D.P.R. n. 303, a decorrere dalla data di entrata in vigore del regolamento attuativo previsto dall’art. 38, che è stato emanato con D.P.R. n. 21 del 2015, in GU n. 53 del 5.3.2015).

6. La paventata disparità di trattamento rispetto al caso della mancata traduzione del provvedimento di espulsione, conseguente alla disciplina dettata dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 13, comma 7, è insussistente e la questione di costituzionalità sollevata, al riguardo, dal ricorrente in riferimento all’art. 3 Cost., è manifestamente infondata, dovendo affermarsi il principio secondo cui: “la disposizione di cui al D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 19, comma 9, oggi D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis, comma 13, nel richiedere una statuizione di merito in ordine alla spettanza o meno del diritto alla protezione internazionale senza prevedere una decisione di mero annullamento del provvedimento negativo della Commissione territoriale si giustifica in ragione del fatto che la rimozione di tale atto non è idonea ad incidere sulla situazione giuridica sostanziale del richiedente, intesa ad ottenere la protezione, a differenza di quanto avviene per la statuizione di annullamento del provvedimento di espulsione, che di per sè ripristina il diritto sostanziale dell’espellendo illegittimamente inciso, così realizzando il suo interesse protetto e ponendo termine al processo. La differente rilevanza che va riconnessa ai vizi del provvedimento adottato dalla Commissione territoriale rispetto a quelli che inficiano il provvedimento di espulsione non è, pertanto, lesiva del principio di uguaglianza, trattandosi di statuizioni incidenti su provvedimenti aventi effetti diversi e non comparabili”.

7. Totalmente infondato è il richiamo all’art. 24 Cost. e art. 6 CEDU, (parametro che, peraltro, non è direttamente denunciabile, neppure in riferimento all’art. 10 Cost., trattandosi di norme pattizie, cfr. Corte Cost. n. 348 e 349 del 2007), in quanto il diritto ad un equo processo del richiedente protezione risulta appieno garantito – parimenti a quello dell’espellendo – mediante la possibilità di adire del giudice e così dispiegare compiutamente ogni sua difesa nell’ambito del processo. 8. Privi di consistenza sono, pure, i dubbi di costituzionalità del D.P.R. n. 303 del 2004, art. 4,artt. 702 bis e segg. c.p.c., nonchè la L. n. 2248 del 1865, artt. 4 e 5, formulati in riferimento ai medesimi parametri, non avendo il ricorrente neppure enunciato in che modo le censurate disposizioni – che, rispettivamente, prevedono l’obbligo di comunicazione in lingua comprensibile al richiedente o veicolare, regolano il procedimento camerale, da sempre impiegato anche per la trattazione di controversie su diritti e status, ed i limiti in cui l’AGO può conoscere degli effetti dei provvedimenti amministrativi, come tracciati dalla legge abolitiva del contenzioso amministrativo del 1865 – potrebbero produrre disparità di trattamento o pregiudicare il diritto di difesa ed ad un equo processo del richiedente, processo che, in quanto attinente alla categoria dei diritti umani fondamentali, è, appunto, demandato alla giurisdizione ordinaria, dotata di piena cognizione di merito a conoscere della fondatezza della domanda.

9. Con il terzo motivo, si denuncia la violazione della L. n. 241 del 1990, art. 3, in relazione alla L. n. 39 del 1990, art. 1 e successive modificazioni, ed omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, in riferimento al mancato riconoscimento dello status di rifugiato. Il ricorrente lamenta che la Corte territoriale non ha preso nella dovuta considerazione le dichiarazioni da lui rese, da cui risultava la persecuzione ai suoi danni per motivi legati esclusivamente alla sua casta di appartenenza, avendo egli riferito che la sua relazione con una ragazza di casta superiore costituiva grave offesa all’onore della famiglia di lei e metteva a repentaglio la sua incolumità, essendo stato già violentemente percosso e minacciato e non potendo ricevere protezione ad opera degli organi statali del Paese, perchè corrotti; inoltre in pakistan era abitualmente applicata la pena di morte e praticata la tortura. 10. Il motivo è infondato. Il ricorrente ha riferito, in seno al ricorso (pag. 7) riportando stralci delle dichiarazioni rese, che la polizia locale aveva “cercato di non prendere la denuncia” per l’influenza politica dei cugini della ragazza, ed invece la Corte ha dato conto che il richiedente aveva raccontato che la denuncia era stata, in effetti, presentata, talchè non solo la censura muove da un assunto diverso da quello appurato in sede di merito ma si basa su di una petizione di principio, in quanto afferma impossibile la protezione legale nel suo Paese, ascrivendo tout court allo Stato, a norma del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, lett. e) e D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 5, lett. c), le minacce dei congiunti della ragazza.

11. Sotto altro profilo, la Corte di merito ha escluso il fumus persecutionis, osservando che nella regione di provenienza del richiedente ((OMISSIS)), a differenza di altre regioni del Paese, non vi è una situazione di specifica pericolosità sia perchè distante dalla zona afgana sia per lo scarso radicamento di gruppi terroristici. 12. In proposito, va rilevato che la forma maggiore di protezione, costituita dallo status di rifugiato, si caratterizza per la circostanza che lo straniero non può o non vuole fare ritorno nel Paese nel quale in precedenza dimorava abitualmente, per il fondato timore di una persecuzione personale e diretta, per l’appartenenza ad un’etnia, associazione, credo politico o religioso, ovvero in ragione delle proprie tendenze o stili di vita; sicchè la situazione socio politica o normativa del paese di provenienza in tanto è rilevante in quanto si correla alla posizione del singolo richiedente, il quale sia personalmente esposto al rischio di specifiche misure sanzionatorie a carico della sua integrità psico-fisica (cfr. Cass. n. 10177 del 2011, e sulla personalizzazione del rischio, Cass. n.14157 del 2016, e n. 6503 del 2014). 13. Tale condivisibile principio va qui riaffermato, dovendo ulteriormente precisarsi che l’accertamento dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato integra un apprezzamento di fatto, riservato in quanto tale al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità nei ristretti limiti di cui al nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposizione che, oltre a limitare il sindacato sulla motivazione alla sola verifica della violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6, ha introdotto nell’ordinamento il vizio di omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia (Cass. SU n. 8053 del 2014). 14. Deve, in conclusione, affermarsi il seguente principio di diritto: “Ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, la situazione socio politica o normativa del paese di provenienza del richiedente protezione è rilevante solo se correlata alla specifica posizione del richiedente stesso, e più specificamente al suo fondato timore di una persecuzione personale e diretta, per l’appartenenza ad un’etnia, associazione, credo politico o religioso, ovvero in ragione delle proprie tendenze e stili di vita e quindi alla sua personale esposizione al rischio di specifiche misure sanzionatorie a carico della sua integrità psico-fisica. Il relativo accertamento integra un apprezzamento di fatto, riservato al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità nei limiti di cui al nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”. 15. Nella specie, non avendo il ricorrente indicato alcun fatto decisivo relativo alla sua specifica posizione il cui esame sarebbe stato omesso e che avrebbe condotto ad una decisione diversa, la situazione legittimante il riconoscimento della massima protezione, non emersa nel giudizio di merito, non può essere dimostrata in sede di legittimità.

16. La censura che il ricorrente formula in riferimento alla L. n. 241 del 1990, art. 3 e reitera in tutti i successivi motivi, è inammissibile: la norma, che pone l’obbligo di motivazione del provvedimento amministrativo, esula totalmente dall’ambito delle questioni dibattute sia nel presente che nei restanti motivi, e del resto, nonostante tale disposizione sia enunciata nel titolo dei motivi non risulta poi svolta alcuna doglianza ad essa riferibile.

17. Con il quinto motivo, che, per comodità espositive, va ora esaminato, è denunciata la violazione e falsa applicazione della L. n. 241 del 1990, art. 3 e D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14 e omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, per non avere il giudice territoriale riconosciuto l’esistenza di fondati motivi per ritenere che, se egli tornasse nel Paese d’origine, correrebbe il rischio di subire un grave danno, in relazione alla protezione sussidiaria.

18. Il motivo è infondato. Va premesso che la nozione di “violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”, di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), deve essere interpretata in conformità della fonte Eurounitaria di cui è attuazione (direttive 2004/83/CE e 2011/95/UE), in coerenza con le indicazioni ermeneutiche fornite dalla Corte di Giustizia UE (Grande Sezione, 18 dicembre 2014, C-542/13, par. 36), secondo cui i rischi a cui è esposta in generale la popolazione di un paese o di una parte di essa di norma non costituiscono di per sè una minaccia individuale da definirsi come danno grave (v. 26 Considerando della direttiva n. 2011/95/UE), sicchè “l’esistenza di un conflitto armato interno potrà portare alla concessione della protezione sussidiaria solamente nella misura in cui si ritenga eccezionalmente che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati o tra due o più gruppi armati siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria, ai sensi dell’art. 15 direttiva, lett. c), a motivo del fatto che il grado di violenza indiscriminata che li caratterizza raggiunge un livello talmente elevato da far sussistere fondati motivi per ritenere che un civile rinviato nel paese in questione o, se del caso, nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio di questi ultimi, un rischio effettivo di subire la detta minaccia (v., in questo senso, Corte Giustizia UE 17 febbrario 2009, Elgafaji, C-465/07, citata nel ricorso, e 30 gennaio 2014, Diakitè, C285/12; vedi pure Cass. n. 13858 del 2018).

19. Al pari di quanto si è detto per la protezione maggiore, anche l’accertamento di detti requisiti attiene al giudizio di fatto dovendo, perciò, affermarsi il seguente principio di diritto: “In tema di protezione sussidiaria, l’accertamento della situazione di “violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”, di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), che sia causa per il richiedente di una sua personale e diretta esposizione al rischio di un danno grave, quale individuato dalla medesima disposizione, implica un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito. Il risultato di tale indagine potrà essere censurato, con motivo di ricorso per cassazione, nei limiti consentiti dal novellato art. 360 c.p.c., n. 5″.

20. Nella specie, la Corte di merito ha escluso, come si è già esposto al p. 11, l’esistenza nella regione di provenienza del ricorrente di siffatta situazione di “violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”, ed il motivo non indica il fatto decisivo il cui esame sarebbe stato omesso e che avrebbe condotto ad una decisione differente, ma richiama fonti diverse rispetto a quelle tenute in considerazione dai giudici d’appello e cita una decisione del Tribunale di Cagliari riferita a periodo antecedente rispetto a quello considerato; in altri termini, la censura è diretta a sollecitare un’impropria rivisitazione dell’apprezzamento di fatto compiuto in sede di merito circa i paventati rischi in caso di rientro nel paese di origine. 21. L’argomento evidenziato nel ricorso, secondo cui l’esposizione al rischio di un danno grave sussisterebbe poichè il richiedente non potrebbe ricevere protezione dagli organi statali, in relazione alle riferite percosse e minacce, resta smentito dalle considerazioni sopra svolte nel p. 10, e, comunque, dal rilievo che, ai fini della protezione qui invocata, il danno dovrebbe manifestarsi come conseguenza di una violenza indiscriminata in situazione di conflitto armato, situazione che è stata esclusa. 22. A tanto, va aggiunto che la giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 2294 del 2012, n. 8399 del 2014; 5674 del 2018) ha precisato che l’istanza di protezione non può essere rigettata, e va accolta, nel caso opposto a quello in esame, e, cioè, quando in altra zona del territorio del paese d’origine, a differenza da quella da cui il ricorrente proviene, egli non abbia fondati motivi di temere di essere perseguitato o non corra rischi effettivi di subire danni gravi. 23. A maggior ragione, la necessità della personalizzazione del rischio viene in rilievo con riferimento alle ipotesi di cui alle lett. a) (condanna a morte o esecuzione della pena di morte) e b) (tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante) del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, ma nella specie il ricorrente, pur avendo evidenziato che in Pakistan viene praticata la pena di morte ed illegali pratiche di tortura, non ha mai esposto di esser stato oggetto di procedimento penale o di temere arresti di sorta (in proposito, infra).

24. Con il sesto motivo, il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione della L. n. 241 del 1990, art. 3, art. 3 Convenzione Edu ed omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, per non esser stato considerato il rischio di sua uccisione in caso di rientro in pakistan, a causa degli scontri tra sciiti e sunniti, e per l’impossibilità di beneficiare di una tutela da parte delle forze dell’ordine a causa della corruzione esistente nel suo Paese. 25. Il motivo, che dà per certa l’esistenza di atti di persecuzione o di un pericolo di danno grave, contrariamente agli accertamenti di fatto compiuti dai giudici di merito, è infondato per le ragioni appena esposte in relazione al rigetto dei motivi terzo e quinto volti al riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria, di cui costituisce una sostanziale (ed apodittica) ripetizione.

26. Con il settimo motivo, si deduce la violazione e falsa applicazione della L. n. 241 del 1990, art. 3,D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, art. 6 direttiva Cee n. 115/2008, comma 4 e omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, per avere la Corte negato la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione per motivi umanitari. Il ricorrente lamenta che il giudice territoriale ha disquisito sui presupposti della chiesta protezione in riferimento al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, senza considerare i casi, di cui al successivo art. 19 ed all’art. 6 Direttiva, comma 4, che rappresentano, invece, fattispecie del tutto autonome, ampliando la portata della protezione sotto il profilo umanitario, in quanto consentono il rilascio del permesso di soggiorno per “motivi caritatevoli ed altri motivi”. Il richiedente sottolinea, quindi, il paradosso del sistema che non consentirebbe il suo rimpatrio, ove avesse commesso un crimine per il quale è prevista in pakistan la pena detentiva.

27. Con l’ottavo motivo, il ricorrente ha denunciato la violazione e falsa applicazione della L. n. 241 del 1990, art. 3, del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3 e D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3, nonchè omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, per non avere la sentenza considerato che esso ricorrente non potrebbe ricevere e non aveva ricevuto tutela dalle forze dell’ordine nel suo Paese, a causa della corruzione ivi esistente, e per non aver tenuto conto che l’art. 3 CEDU vieta l’allontanamento verso un Paese in cui rischia di esser sottoposto a tortura o a trattamenti disumani o degradanti: le minacce subite e l’impossibilità di trovare adeguata tutela presso le forze dell’ordine costituivano, insomma, elementi che “ove attentamente esaminati” avrebbero dovuto indurre a conclusioni diverse. La Corte non aveva, inoltre, valutato che egli stato costretto alla fuga, pure, dalla Libia, ed aveva erroneamente taciuto sul suo pieno inserimento nel mondo del lavoro in Italia e sulla percezione di reddito, come da lui dedotto in seno alla comparsa conclusionale.

28. Con il quarto motivo, il ricorrente ha denunciato la violazione e falsa applicazione della L. n. 241 del 1990, art. 3,D.Lgs. n. 286 del 1998, artt. 5,13 e 19 e omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, in riferimento alla statuizione sub b) di parte narrativa. In particolare, il ricorrente lamenta che la Corte territoriale ha omesso di pronunciare sulla sua richiesta di asilo a norma dell’art. 10 Cost..

29. I motivi, che, per la loro connessione, vanno congiuntamente esaminati, sono inammissibili.

30. La Corte di appello, nel motivare il rigetto dell’istanza di protezione umanitaria con riferimento a tutti i profili di diritto prospettabili al riguardo, ha affermato che “sul punto l’appellante non ha dedotto alcunchè di specifico nel suo atto di appello, ed in particolare nessuna situazione di personale vulnerabilità sotto un profilo economico, sanitaria, familiare e politico, che possa convincere questa Corte a concedere la protezione umanitaria…Il motivo di gravame sul punto, tra l’altro appena accennato nell’atto di appello, e privo di alcuna argomentazione, non solo è infondato, ma deve ritenersi al limite dell’ammissibilità”.

31. A fronte di tale specifica motivazione, il ricorrente non censura la ratio decidendi del provvedimento impugnato, nè contesta direttamente la conclusione – che peraltro attiene ad un incensurabile apprezzamento di fatto – di detto provvedimento, secondo cui non è ravvisabile una “situazione di personale vulnerabilità sotto un profilo economico, sanitario, familiare e politico”, nè deduce quale situazione sarebbe stata in tesi pretermessa, mentre tardiva, in quanto asseritamente dedotta in comparsa conclusionale, è la questione dell’inserimento lavorativo del richiedente in Italia. Inoltre, la affermata impossibilità del richiedente di trovare tutela dalle azioni violente e minacciose dei congiunti della ragazza a causa della corruzione delle istituzioni (OMISSIS) mira, inammissibilmente, ad un nuovo apprezzamento di fatto, laddove, in relazione ai restanti profili, la censura non considera che l’attivazione dei poteri istruttori officiosi opera, bensì, per tutte le forme di protezione internazionale (cfr. Cass. 19873 del 2018), ma che essa deve essere rapportata al singolo caso da esaminare ed ai fatti dedotti dal richiedente, dovendo in proposito affermarsi il seguente principio: “Il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, nel prevedere che “Ciascuna domanda è esaminata alla luce di informazioni precise e aggiornate circa la situazione generale esistente nel Paese di origine dei richiedenti asilo e, ove occorra, dei Paesi in cui questi sono transitati…” deve essere interpretato nel senso che l’obbligo di acquisizione di tali informazioni da parte delle Commissioni territoriali e del giudice deve essere osservato in diretto riferimento ai fatti esposti ed ai motivi svolti in seno alla richiesta di protezione internazionale, non potendo per contro addebitarsi la mancata attivazione dei poteri istruttori officiosi, in ordine alla ricorrenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione, riferita a circostanze non dedotte”. Nel caso di specie il richiedente non ha mai riferito del timore di poter essere sottoposto a torture o a rischio di sottoposizione a trattamenti inumani o degradanti.

32. Con il nono motivo, è denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c. e omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, in riferimento alla mancata compensazione delle spese del giudizio di appello. 33. Il motivo è inammissibile: la facoltà di disporre la compensazione delle spese tra le parti rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, il quale non è tenuto a dar conto del mancato uso di tale sua facoltà, con la conseguenza che la pronuncia di condanna alle spese, anche se adottata senza prendere in esame l’eventualità di una compensazione, non può essere censurata in cassazione, neppure, sotto il profilo della mancanza di motivazione.

34. Non si deve provvedere sulle spese, non avendo l’intimato svolto attività difensiva. Essendo il ricorrente stato ammesso al patrocinio a spese dello Stato, non sussistono i presupposti per il versamento del doppio del contributo unificato.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 18 luglio 2018.

Depositato in Cancelleria il 21 novembre 2018

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