Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 30098 del 21/11/2018

Cassazione civile sez. trib., 21/11/2018, (ud. 31/10/2018, dep. 21/11/2018), n.30098

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAPPABIANCA Aurelio – Presidente –

Dott. CONDELLO Pasqualina A. P. – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello M. – rel. Consigliere –

Dott. BERNAZZANI Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 14268-2012 R.G. proposto da:

S.F., quale socio della Da Franco srl (già Da Franco

Di S.A. & C. s.n.c.), con l’avv. Massimo Esposito e

domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Massimo Lauro, in Roma,

alla via Ludovisi, n. 39;

– ricorrente –

e

sul ricorso iscritto al n. 14269/2012 R.G. proposto da:

DA FRANCO SRL, rappresentata e difesa dall’avv. Massimo Esposito,

elettivamente domiciliata in Roma, in via Ludovisi n. 39, presso lo

studio dell’avv. Massimo Lauro.

– ricorrente –

e

sul ricorso iscritto al n. 14272/2012 R.G. proposto da:

S.R., quale socio dello Da Franco srl, con l’avv. Massimo

Esposito e domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Massimo

Lauro, in Roma, alla via Ludovisi, n. 39;

– ricorrente –

e

sul ricorso iscritto al n. 14274/2012 R.G. proposto da:

S.A., quale socio dello Da Franco srl, con l’avv. Massimo

Esposito e domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Massimo

Lauro, in Roma, alla via Ludovisi, n. 39;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, rappresentata e difesa dall’Avvocatura

Generale dello Stato, con domicilio eletto in Roma, via dei

Portoghesi, n. 12;

– controricorrente –

Rispettivamente avverso la sentenza della Commissione Tributaria

Regionale per la Campania, – Sez. 08 n. 100/08/11 depositata in data

06/04/2011 e non notificata;

e

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale per la

Campania, Sez. 08, n. 98/08/11, depositata il 6/04/2011 e non

notificata;

e

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale per la

Campania, – Sez. 08 n. 101/08/11 depositata in data 06/04/2011 e non

notificata;

e

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale per la

Campania, – Sez. 08 n. 99/08/11 depositata in data 06/04/2011 e non

notificata.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 31 ottobre

2018 dal Co: Marcello M. Fracanzani, in ordine a tutti giudizi

sopraemarginati e, specificamente, in sostituzione del Cons.

Riccardo Guida per quanto attiene il r.g.n. 14269/2012.

Fatto

RILEVATO

Che:

fra i ricorsi in epigrafe sussistono profili di connessione oggettiva e soggettiva che inducono a disporne la riunione per esigenze di economicità processuale ed uniformità della decisione;

che i contribuenti persone fisiche sono tre fratelli germani, soci di una srl a ristretta base azionaria, già s.n.c., che reagivano con distinti ricorsi avverso il provvedimento di accertamento del proprio reddito per il periodo di imposta 2004, in conseguenza della rideterminazione del reddito accertato in capo alla società e della loro percentuale di partecipazione nella stessa;

che la CTP rigettava i ricorsi e la CTR, preso atto di aver già deciso la connessa controversia inerente alla società in senso favorevole all’Ufficio, confermava le decisioni di primo grado e, per effetto vincolante della precedente pronuncia, riteneva quindi definito il reddito dei ricorrenti, nella misura proporzionale a quella della loro partecipazione in detta società;

che insorgono i soci contribuenti affidandosi a quattro motivi di ricorso;

che resiste l’Avvocatura dello Stato con puntuale controricorso;

che, parimenti, la società Da Franco Srl (già Da Franco di S.A. & C. Snc), ricorre, sulla base di quattro motivi, nei confronti dell’Agenzia delle entrate per la cassazione della sentenza della CTR Campania di rigetto dell’appello della contribuente in controversia concernente l’impugnazione di un avviso di accertamento che recuperava a tassazione, per l’anno 2004, maggiori IVA ed IRAP, in seguito alle indagini finanziarie effettuate nei confronti della società e dei soci (appartenenti ad un unico nucleo famigliare), riguardanti, soprattutto, gli accrediti ed i prelievi sui conti bancari personali di questi ultimi, quali movimentazioni ingiustificate che venivano (presuntivamente) qualificate come ricavi non dichiarati della società.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

in tutti i ricorsi dei soci con il primo motivo si lamenta violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 32 e 39, in parametro all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per illegittima estensione delle indagini bancarie a soggetti terzi rispetto alla società;

che con il secondo motivo si lamenta omessa motivazione su fatto decisivo per il giudizio in parametro all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e n.;

che con il terzo motivo lamenta violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art 7, in parametro all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per inesistenza della motivazione con riferimento al calcolo della pretesa impositiva;

che con il quarto motivo si lamenta violazione e falsa applicazione della L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 402, lett. a), in parametro all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e n. 5, per mancato riconoscimento dei costi;

che sostanziali analoghi motivi muove la società nel proprio ricorso avverso all’analoga sentenza.

che in via preliminare occorre rilevare la violazione del contraddittorio nei precedenti gradi di giudizio, per mancata costituzione del litisconsorzio necessario fra soci tra loro e società (che all’epoca dei fatti era) di persone;

che, con riferimento all’art. 101 c.p.c. e art. 111 Cost., comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la mancata integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti i soci e della società è motivo di nullità rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio;

che al proposito, questa Corte rammenta che, fin dalla sentenza delle Sezioni Unite n.14815 del 4 giugno 2008, è stato statuito come “In materia tributaria, l’unitarietà dell’accertamento che è alla base della rettifica delle dichiarazioni dei redditi delle società di persone e delle associazioni di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 5 e dei soci delle stesse e la conseguente automatica imputazione dei redditi a ciascun socio, proporzionalmente alla quota di partecipazione agli utili ed indipendentemente dalla percezione degli stessi, comporta che il ricorso tributario proposto, anche avverso un solo avviso di rettifica, da uno dei soci o dalla società riguarda inscindibilmente sia la società che tutti i soci – salvo il caso in cui questi prospettino questioni personali -, sicchè tutti questi soggetti devono essere parte dello stesso procedimento e la controversia non può essere decisa limitatamente ad alcuni soltanto di essi; siffatta controversia, infatti, non ha ad oggetto una singola posizione debitoria del o dei ricorrenti, bensì gli elementi comuni della fattispecie costitutiva dell’obbligazione dedotta nell’atto autoritativo impugnato, con conseguente configurabilità di un caso di litisconsorzio necessario originario. Conseguentemente, il ricorso proposto anche da uno soltanto dei soggetti interessati impone l’integrazione del contraddittorio ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 14 (salva la possibilità di riunione ai sensi del successivo art. 29) ed il giudizio celebrato senza la partecipazione di tutti i litisconsorzi necessari è affetto da nullità assoluta, rilevabile in ogni stato e grado del procedimento, anche di ufficio” (conforme, e pluribus, Cass. 20 aprile 2016, n.7789; Cass. 12 ottobre 2018, n. 25446);

che tale principio è stato affinato ritenendo non necessario il rinvio al primo giudice, disponendo le riunione per economia processuale e rispetto della ragionevole durata del processo quando: a) vi sia identità di causa petendi dei ricorsi; b) simultanea proposizione degli stessi avverso sostanziale avviso unitario di accertamento da cui scaturiscono le rettifiche reddituali per società e soci; c) simultanea trattazione degli afferenti processi in entrambi i gradi di merito; d) identità sostanziale delle decisioni ivi adottate (cfr. Cass. S.U. 3830/2010, Cass. 3789/2018);

che tale è il caso di specie, ove analoghe e coeve sentenze di primo e seconda grado hanno deciso in maniera distinta, ma coordinata, le diverse posizioni;

che il litisconsorzio può essere qui ricostituito mediante la riunione delle controversie così pervenute all’unica udienza;

che, riuniti i giudizi, si può procedere all’esame degli analoghi motivi di doglianza, tutti rivolti principalmente alla sentenza 98/08/11, cui le altre qui impugnate fanno espresso riferimento;

che, innanzitutto, la CTR ha reputato corretto l’accertamento, ai fini delle imposte dirette, tramite la presunzione legale del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32, di maggiori ricavi sulla scorta dei prelevamenti e dei versamenti non giustificati sui conti personali dei soci; allo stesso modo, ha ravvisato corretto l’uso della presunzione legale del D.P.R. n. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 51, per qualificare, ai fini dell’IVA, come maggiori corrispettivi (non dichiarati) gli accreditamenti non giustificati sui conti correnti personali dei soci e, ancora, come omessa documentazione di acquisti (imponibili) gli addebiti ingiustificati sui medesimi conti;

che, inoltre, la sentenza d’appello ha ritenuto sufficientemente motivato l’atto impositivo, e, infine, ha illustrato i seguenti indici presuntivi dell’esistenza di maggiori ricavi non dichiarati, riferibili alla contribuente: la circostanza che la Da Franco Snc avesse ammesso che la gestione delle risorse era confusa; il fatto che operazioni in conto ed extra-conto dei soci fossero incompatibili con i loro redditi apparenti; l’assenza di prova, da parte dei soci, che le operazioni sui loro conti personali non fossero riferibili alla società; il bassissimo reddito dichiarato dalla società – Euro 57.269,00 -, a fronte dell’elevato numero di dipendenti (24) che sembrava attestare che i tre soci guadagnassero meno di questi ultimi; il margine di ricarico inesatto, trattandosi di una pizzeria, ossia di un’attività con ricarichi e redditi molto elevati; l’incompatibilità degli investimenti personali dei soci rispetto ai loro redditi figurativi;

che con il primo motivo di ricorso la contribuente denuncia la violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 32 e 39, in parametro all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, con l’illegittima estensione delle indagini bancarie a soggetti terzi rispetto alla società, senza che l’Organo di controllo avesse dimostrato la riferibilità alla società dei conti personali dei soci;

che il motivo è infondato: la CTR ha fatto corretta applicazione del condivisibile principio di diritto enunciato dalla Corte, secondo cui: “In tema di accertamento IVA relativo a società di persone a ristretta base familiare, l’Ufficio finanziario può legittimamente utilizzare, nell’esercizio dei poteri attribuitigli dal D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 51, comma 2, nn. 2 e 7, le risultanze di conti correnti bancari intestati ai soci, riferendo alla medesima società le operazioni ivi riscontrate (nella specie, prelevamenti), tenuto conto della relazione di parentela tra quelli esistente idonea a far presumere, salvo facoltà di provare la diversa origine delle entrate, la sostanziale sovrapposizione degli interessi personali e societari, nonchè ad identificare in concreto gli interessi economici perseguiti dalla società con quelli stessi dei soci.” (Cass. 15/03/2013, n. 6595);

che il medesimo principio, nitidamente espresso in tema di IVA, vale anche ai fini dell’accertamento presuntivo delle imposte dirette; in particolare, secondo la Cassazione: “In tema di imposte sui redditi ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 32 e 37, delle imposte sui redditi di società di capitali, l’utilizzazione dei dati risultanti dalle copie dei conti correnti bancari acquisiti dagli istituti di credito non può ritenersi limitata ai conti formalmente intestati all’ente, ma riguarda anche quelli formalmente intestati ai soci, amministratori o procuratori generali, allorchè risulti provata dall’Amministrazione finanziaria, anche tramite presunzione, la natura fittizia dell’intestazione o, comunque, la sostanziale riferibilità all’ente dei conti medesimi o di alcuni loro singoli dati. Ne consegue in ordine alla distribuzione dell’onere probatorio che una volta dimostrata la pertinenza alla società dei rapporti bancari intestati alle persone fisiche con essa collegate, l’Ufficio non è tenuto a provare che tutte le movimentazioni che risultano da quei rapporti rispecchino operazioni aziendali, ma al contrario la corretta interpretazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, impone alla società contribuente di dimostrare la estraneità di ciascuna di quelle operazioni alla propria attività di impresa.” (Cass. 24/09/2010, n. 20199);

che tale regula iuris, ovviamente, si attaglia non solo alle società di capitali, ma, a maggior ragione, alle società di persone, specie se caratterizzate (come nel caso della Da Franco Snc) da una ristretta base proprietaria, per l’appartenenza dei soci ad un unico nucleo famigliare;

che con il secondo motivo, sotto la rubrica: “Violazione e falsa applicazione ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5: omessa motivazione su fatto decisivo per il giudizio”, la ricorrente fa valere l’assenza di motivazione, da parte della CTR, sulle causali, fornite dai soci, delle movimentazioni – non giustificate, in base alla prospettazione dell’Ufficio – dei propri conti personali;

che il motivo è infondato: il giudice d’appello, infatti, non ha omesso prendere posizione sulla quaestio facti esposta dalla contribuente; anzi, la sentenza dà conto, con chiarezza, della propria ratio decidendi, laddove afferma che: a) la società ha ammesso che la gestione delle risorse e i movimenti bancari erano complessi e confusi; b) i prelevamenti e i versamenti in conto e i movimenti extra-conto, effettuati dai soci, erano incompatibili con i loro redditi; c) i soci non hanno fornito la prova che i loro conti personali non fossero riferibili alla società; d) apparentemente i soci guadagnavano meno dei dipendenti della pizzeria;

che a tutto ciò si aggiunga, infine, che, più che denunciare un vizio di motivazione, il mezzo sollecita la Corte, in modo non consentito, ad un nuovo esame dei fatti di causa, il cui apprezzamento è insindacabilmente rimesso al giudice di merito;

che con il terzo motivo la ricorrente denuncia la violazione della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7, in parametro all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in quanto la sentenza impugnata avrebbe ravvisato la legittimità dell’avviso di accertamento che non era chiaro e non metteva la contribuente nella condizione di esercitare compiutamente il proprio diritto di difesa;

che il motivo è inammissibile: nel giudizio tributario, in base al principio d’autosufficienza del ricorso per cassazione, sancito dall’art. 366 c.p.c., qualora il ricorrente censuri la sentenza di una Commissione tributaria regionale sotto il profilo della congruità del giudizio espresso in ordine alla motivazione di un avviso di accertamento (nella specie, risultante “per relationem” ad un processo verbale di constatazione) è necessario, a pena d’inammissibilità, che il ricorso ne riporti testualmente i passi che si assumono erroneamente interpretati o pretermessi, al fine di consentirne la verifica esclusivamente in base al ricorso medesimo, essendo il predetto avviso non un atto processuale, bensì amministrativo, la cui legittimità è necessariamente integrata dalla motivazione dei presupposti di fatto e dalle ragioni giuridiche poste a suo fondamento (Cass. 19/04/2013, n. 9536);

che nel caso in esame, l’omessa riproduzione, in seno al ricorso per cassazione, delle parti dell’atto impositivo che si assumono scarsamente intelligibili e poco nitide non pone la Corte nella condizione di valutare la fondatezza o meno della censura;

che con il quarto motivo la ricorrente lamenta la violazione della L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 402, lett. a), perchè la CTR avrebbe omesso di considerare la doglianza, sollevata dalla contribuente, d’illegittimità dell’avviso di accertamento nella parte in cui, in deduzione dei maggiori ricavi presunti, non era stata detratta una quota dei costi;

che il motivo è infondato, poichè il giudice d’appello, nell’escludere l’invocata detrazione forfettaria dei costi, ha fatto buon governo del principio di diritto enunciato dalla Corte che, anche di recente, ha avuto modo di precisare che: “In tema di imposte sui redditi, l’Amministrazione finanziaria deve riconoscere una deduzione in misura percentuale forfettaria dei costi di produzione soltanto in caso di accertamento induttivo “puro” D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 39,comma 2, mentre in caso di accertamento analitico o analitico presuntivo (come in caso di indagini bancarie) è il contribuente ad avere l’onere di provare l’esistenza di costi deducibili, afferenti ai maggiori ricavi o compensi, senza che l’Ufficio possa, o debba, procedere al loro riconoscimento forfettario.”;

che, in definitiva, il ricorso è in parte inammissibile, in parte infondato e ne consegue il suo rigetto;

che le spese del giudizio di legittimità seguono la regola della soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

la Corte rigetta il ricorso; condanna la contribuente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità in favore dell’Agenzia delle entrate, che liquida in Euro seimila/00, oltre alle spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 31 ottobre 2018.

Depositato in Cancelleria il 21 novembre 2018

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