Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 30095 del 29/12/2011

Cassazione civile sez. I, 29/12/2011, (ud. 19/12/2011, dep. 29/12/2011), n.30095

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VITRONE Ugo – Presidente –

Dott. SALVAGO Salvatore – Consigliere –

Dott. MACIOCE Luigi – rel. Consigliere –

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Consigliere –

Dott. CRISTIANO Magda – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

BENI STABILI s.p.a. (incorporante Sviluppi Immobiliari s.p.a.,

incorporante Iniziativa Granai di Nerva s.r.l.) domiciliata in ROMA,

via Antonio Bertoloni 29 con l’avv. Berruti Paolo che la rappresenta

e difende giusta procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Comune di Roma in persona del Sindaco in carica, dom.to in Roma via

del Tempio di Giove 21 presso l’avv. Ceccarelli Americo che lo

rappresenta e difende per procura speciale a margine del

controricorso;

– controricorrente –

e

Soc.Coop. Edilizia DELFINO a r.l.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 923 in data 03.03.2008 della Corte di Appello

di Roma;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

19.12.2011 dal Consigliere Dott. Luigi MACIOCE;

uditi gli avvocati Paolo Berruti ed Americo Ceccarelli che hanno

richiamato le proprie conclusioni;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

che ha concluso per il rigetto dei ricorsi principale ed incidentale.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con citazione de 6.05.1988 la soc. Iniziativa Granai di Nerva convenne in giudizio il Comune di Roma e la Cooperativa Edilizia Delfino onde ottenerne la condanna al risarcimento dei danni correlati ad una vicenda di occupazione illegittima di aree di sua proprietà effettuata per la realizzazione di interventi di ERP in base al pdz 39/bis (OMISSIS). Costituitisi i convenuti, il Tribunale, che con una sentenza non definitiva aveva respinto l’eccezione di prescrizione, ed innanzi al quale era stato riunito un nuovo giudizio nel quale la società conveniva gli stessi convenuti per chiedere la restituzione dell’area o il subordinato ristoro dei danni, con sentenza 22.04.2003 accertata l’acquisizione dell’area da parte del Comune, condannò i convenuti in solido a versare alla società attrice Euro 29.466,00 per risarcimento ed indennità di occupazione, al contempo statuendo che il Comune dovesse rimborsare alla Soc. Delfino quanto versato. La Iniziativa Granai di Nerva ebbe quindi a proporre appello avverso le due sentenze del Tribunale e si costituì il Comune ma non la soc. Delfino, il primo anche proponendo appello incidentale. La Corte di Appello di Roma, con sentenza del 3.03.2008, ha rigettato l’appello incidentale del Comune ed in parziale accoglimento dell’appello principale ha condannato il Comune e la Cooperativa a pagare la somma di Euro 55.283,83 oltre interessi.

Ha affermato, in motivazione, per quel che rileva in questa sede, che doveva ritenersi ormai irrevocabilmente accertato che la vicenda avesse il profilo della avvenuta occupazione acquisitiva, pur se la questione aveva perso rilevanza, che con riguardo alle doglianze di cui all’appello incidentale del Comune, rivolte verso la Cooperativa, esse erano infondate sussistendo, per il ristoro dei danni da occupazione acquisitiva,la responsabilità solidale dell’espropriante e della cooperativa concessionaria L. n. 865 del 1971, ex art. 35 anche se non delegata, e non esistendo alcun margine per negare l’obbligo di rivalsa del Comune a beneficio della cooperativa sulla base del comma 12 del detto art. 35, che con riguardo alle doglianze dell’appellante principale nei confronti dei criteri rivenienti dalla CTU esse andavano disattese ed invece seguite le indicazioni peritali, conformi ai criteri di cui alla sentenza 4.12.2006 della stessa Corte di Roma, che nondimeno i valori liquidati dal primo giudice dovevano essere rivisti alla luce del dictum di C.C. 349 del 2007. Per la cassazione di tale sentenza la soc. BENI STABILI, avente causa di I.G.N., ha proposto ricorso il 3.04.2009 con tre motivi. Il Comune di Roma in data 14.05.2009 ha notificato controricorso contenente ricorso incidentale affidato ad un motivo, al quale la Cooperativa Delfino non ha opposto difese. Beni Stabili ha depositato memoria finale ed i difensori delle parti hanno discusso oralmente la causa.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Riuniti i ricorsi ex art. 335 c.p.c., ritiene il Collegio che debbasi rigettare il ricorso della Beni Stabili e dichiarare inammissibile quello del Comune di Roma. All’esito si regoleranno le spese con riguardo a dette parti ricorrenti (principale ed incidentale). Si esaminano, partitamente, le impugnazioni ed i loro motivi.

Il ricorso principale.

Con il primo motivo si censura la sentenza per falsa applicazione alla specie della norma risultante dopo la sentenza 349 del 2007 della Corte Costituzionale, essendo stato recepito un valore venale indicato dalla CTU in evidente difformità dal valore di mercato. Con il secondo motivo si censura la pronunzia per avere fatto apodittico rinvio a proprio precedente 4.12.2006 senza rispondere motivatamente alle censure che alla prima sentenza venivano rivolte. Con il terzo motivo si denunzia violazione dell’art. 2697 c.c. degli artt. 115, 116 e 196 c.p.c. e vizio di motivazione nell’avere la Corte di Roma adottato il criterio sintetico-comparativo proposto dal CTU in luogo di quello analitico ricostruttivo proposto da essa deducente; si articolano in venti pagine sintesi delle valutazioni peritali e delle critiche ad esse mosse e si conclude con un quesito – sintesi conclusiva.

Le censure di cui ai primi due motivi sono in parte inammissibili ed in parte infondate.

Con la prima delle censure, infatti, la società mostra di non aver compreso ratio e contenuto della sentenza 349/2007 della Corte Costituzionale che (unitamente alla coeva decisione 348/2007),lungi dall’aver voluto interferire sui meccanismi estimativi per la ricerca del prezzo in comune commercio dei suoli, ha inciso sui criteri per la determinazione dell’indennizzo dovuto, secondo il precetto contenuto nell’art. 42 Cost., all’espropriato in tutte le ipotesi di ablazione degli immobili per la realizzazione di opere di p.u.: è stato dichiarato (per quanto qui interessa) incostituzionale, per contrasto con il menzionato precetto e con quello dell’art. 117 Cost., il parametro riduttivo introdotto dalla L. n. 662 del 1996, art. 3, comma 65 per le aree edificatorie la cui irreversibile trasformazione si era consumata prima del 30 settembre 1996, che ne aveva stabilito la stima in misura sostanzialmente non superiore al 55% del loro valore venale effettivo. E pertanto si è ripristinata la regola (ora recepita dalla L. n. 244 del 2007, art. 2, comma 89, sub 2, che ha in tal modo modificato il T.U. approvato con D.P.R. n. 327 del 2001, art. 55) che nelle espropriazioni illegittime detto indennizzo, quale che sia la natura e la destinazione del bene espropriato, deve essere liquidato in misura corrispondente al suo valore venale. Impregiudicati sono però rimasti i criteri di estimo ritenuti più opportuni per accertarlo in concreto (criteri la cui utilizzazione resta devoluta al prudente apprezzamento del giudice del merito).

Egualmente erronea è la lettura delle garanzie costituzionali prospettata dalla società Beni Stabili per la quale nell’ipotesi di espropriazioni illegittime si viene a rivendicare una sorta di sdoppiamento dell’indennizzo costituito da due distinte poste,l’una comprendente il valore di mercato dell’immobile, e l’altra includente ogni ulteriore pregiudizio arrecato all’espropriato, comprensivo ex art. 2043 cod. civ. sia del danno emergente che del lucro cessante, e variabile in funzione delle sue qualità: si lamenta, in sostanza, che il giudice del merito non avrebbe tenuto conto dell’attività imprenditoriale esercitata.

Di ben diverso segno è la giurisprudenza tanto della Corte Costituzionale quanto di questa Corte di legittimità che ha tratto dal ricordato precetto costituzionale i seguenti principi: 1) l’indennità per l’esproprio, essendo destinata a tener luogo del bene espropriato, è unica e non può superare in nessun caso il valore che esso presenta, in considerazione della sua concreta destinazione (il valore cioè che il proprietario ne ritrarrebbe se decidesse di porlo sul mercato L. n. 2359 del 1865, ex art. 39), e nelle singole fattispecie, neppure quello derivante dal criterio di valutazione posto dalla legge applicabile per determinarlo; 2) il termine di riferimento dell’unica indennità è quindi rappresentato dal valore di mercato del bene espropriato, quale gli deriva dalle sue caratteristiche naturali, economiche e giuridiche, e soprattutto dal criterio previsto dalla legge per apprezzarle: essa non può peraltro essere rapportata (all’infuori delle ipotesi previste dalla L. n. 865 del 1971, art. 15) al pregiudizio che il proprietario risente come effetto del non potere ulteriormente svolgere mediante l’uso dello stesso immobile la precedente o altre attività (industriali o commerciali); 3) a questo regime non si sottrae la c.d. occupazione espropriativa, pur essa appartenente alla materia delle espropriazioni per p.u. considerate dal precetto dell’art. 42 Cost. (cfr. art. 5 bis, comma 6) che d’altra parte riserva al legislatore il potere di modulare contenuto, ampiezza e denominazione dell’indennizzo nelle varie fattispecie disciplinate (Corte Costit.

188 del 1995; 179 del 1999; 349 del 2007; ex multis Cass. 10560 del 2008).

Ebbene proprio a tali principii si è attenuta la sentenza impugnata che, riformata quella del Tribunale, là dove aveva applicato il meccanismo riduttivo della L. n. 662, art. 3, comma 65 dichiarato incostituzionale, ha determinato l’indennizzo dovuto alla società nella misura corrispondente al valore venale del fondo stimato alla data della sua acquisizione al patrimonio del Comune e quindi, sul presupposto della natura risarcitoria dell’indennizzo nella fattispecie appropriativa, ne ha rivalutato l’importo alla data della decisione, tenendo conto della svalutazione intervenuta dal tempo dell’acquisizione, come è peculiare dei debiti di valore. Egualmente inconsistenti sono le censure rivolte dalla società con il terzo motivo ai criterii di valutazione del terreno utilizzati dalla Corte territoriale. In primo luogo l’accertamento del relativo valore può avvenire indifferentemente sia con metodi analitico-ricostruttivi, tesi ad individuare quello di trasferimento del fondo, sia con metodi sintetico-comparativi, volti invece a desumere dall’analisi del mercato il valore commerciale del fondo stesso: oggi non è più consentito stabilire, dopo il sopravvenire del principio dell’edificabilità legale di cui alla L. n. 359 del 1992, art. 5 bis tra i due criteri un rapporto di regola/eccezione,come era in passato allorchè si attribuiva valore preminente a questi ultimi perchè era sufficiente l’edificabilità di fatto per liquidare l’indennità. Da qui la regola, del tutto pacifica nella giurisprudenza, per la quale rientra tra i compiti del giudice di merito la scelta del criterio di stima improntato per quanto possibile a criteri di effettività, anche secondo le indicazioni della Corte costituzionale (ex multis Cass. 13182 del 2006; 3034 del 2005; Corte Costit. 305 del 2003). E di qui la facoltà di stabilire in base alle peculiarità del caso concreto (anche avvalendosi delle indicazioni del consulente tecnico d’ufficio), e senza necessità di motivazione, se sussistono gli elementi occorrenti per la ricerca del presumibile valore comparativo dell’area, se privilegiare quest’ultimo metodo, ovvero i criteri di stima c.d. analitici-ricostruttivi, o ancora metodi diversi da questi, ed infine se utilizzarli entrambi (tra le tante Cass. 7200 del 2011; 9639 del 2010; 12771 e 1161 del 2007; 4885 del 2006).

Pertanto tutte le doglianze rivolte a contestare le sentenze di merito per aver privilegiato il criterio sintetico-comparativo risultano inammissibili anche perchè la società non ha dimostrato che quello analitico invocato, ove correttamente applicato alla situazione di mercato del 1983 nella specifica zona del PEEP, avrebbe condotto ad una valutazione più elevata del fondo. In secondo luogo è errato anche l’altro presupposto da cui la soc. Beni Stabili muove per contestare la validità del criterio suddetto,che esso si fondi sulle inaffidabili fluttuazioni della moneta nel tempo, e/o sugli indici calcolati dall’ISTAT per l’aumento del costo della vita, laddove esso è invece incentrato sulla ricognizione di prezzi storici e certi che, in ragione della loro rappresentatività, si porgono come idonei parametri di determinazione del valore da attribuire al bene oggetto della stima. E siffatta rappresentatività si configura solo allorquando i prezzi di confronto riguardino terreni “omogenei” con riferimento non solo agli elementi materiali – quali la natura, la posizione, la consistenza morfologica e simili – e temporali, ma anche alla condizione giuridica urbanistica cui sono soggetti. Consegue che la Corte di appello correttamente non ha preso in alcuna considerazione gli elementi comparativi offerti dalla società quanto meno per la disomogeneità del dato temporale cui essi si riferiscono, la maggior parte di essi concernendo terreni e fabbricati, stimati nel triennio 1995-1998 (taluno nel periodo immediatamente antecedente), laddove la valutazione del terreno espropriato è stata correttamente compiuta nell’anno 1983, in cui se ne è verificata l’acquisizione da parte del comune. Ed in quel tempo,come ha finito per riconoscere la stessa società, il mercato immobiliare inerente al piano edilizio ancora da realizzare per la gran parte non era sotto alcun profilo comparabile con quello del decennio successivo (durante il quale erano stati realizzati servizi ed opere di urbanizzazione di ogni genere e la zona era stata interamente edificata). Oltretutto per nessuno degli immobili indicati sono state prospettate la disciplina urbanistica nonchè le altre caratteristiche che dovevano renderle analoghe a quelle proprie dell’immobile da valutare,mentre alcuni di detti atti,come l’avviso di accertamento del 17 dicembre 1997, contengono soltanto una proposta di valutazione di cui la società non ha riferito neppure se sia divenuta o meno definitiva, pur essendo di essa destinatala la dante causa Granai di Nerva. In terzo luogo giova rammentare che la sentenza impugnata non si è limitata a recepire gli accertamenti e le risultanze della CTU ma ha individuato gli atti di riscontro utilizzati per la valutazione del fondo espropriato, correttamente rilevando che per il loro ingente numero nonchè per le loro caratteristiche analoghe a quelle del fondo espropriato, soprattutto con riguardo alla comune disciplina urbanistica, gli stessi dovevano considerarsi pienamente rappresentativi dei prezzi del mercato immobiliare del tempo e senza alcuna contestazione al riguardo della società. La Corte di merito ha poi illustrato le ragioni per cui era stato necessario ridurre il valore di alcuni di essi inclusi in zona E ed aventi possibilità di sfruttamento edilizio solo a distanza di un rilevante intervallo temporale ed ha indicato quale ultimo e decisivo riscontro della congruità della stima compiuta dal consulente,sicuramente favorevole alla società, un atto di compravendita di una vasta area ubicata nella zona da parte della Iniziativa Granai che vi aveva attribuito nello stesso mese di dicembre 1983 il valore assai più modesto di L. 8135 mq. In sostanza le ragioni per formare il proprio convincimento sono state espresse con completezza e senza alcun vizio logico sì che le espressioni critiche contenute nel motivo ora esaminato, sovente inammissibili perchè mera proposizione di diverse valutazioni, non denunziano alcun vizio logico sussistente od alcuna omissione rilevante.

Va quindi certamente respinto il ricorso di Beni Stabili.

Ricorso incidentale del Comune di Roma.

Il motivo denunzia violazione degli artt. 2043 e 2055 c.c. nella parte in cui la sentenza ebbe a gravare il Comune a titolo di rivalsa non solo delle somme versate per risarcimento da occupazione acquisitiva ma anche di quelle erogate per indennità di occupazione legittima, dato che l’occupazione d’urgenza venne disposta nel solo interesse della Cooperativa.

Il Collegio ritiene in premessa di richiamare ancora una volta il costante indirizzo di questa Corte in tema di illecito da occupazione acquisitiva quale delineato dalle S.U, con le sentenze n. 24397 del 2007 e n. 6769 del 2009, non senza ricordare che il delegato alle sole operazioni materiali di realizzazione (ipotesi che nella specie si è affermato essere dimostrata) non risponde del ristoro da occupazione acquisitiva le volte in cui la sua opera si sia conclusa nel corso della occupazione legittima (S.U. 24885 del 2008). E da tal premessa discende la inconsistenza di alcuna doglianza relativa al regime di responsabilità verso il creditore, che, se ha visto dai giudici del merito dichiarare la Cooperativa Delfino solidalmente intranea al rapporto di debito verso il “terzo” Beni Stabili (con statuizione erronea ma non impugnata dalla Cooperativa nè in appello nè in questa sede, nella quale non ha svolto difese), nondimeno, specularmente quanto esattamente, ha visto l’affermazione per la quale la Cooperativa stessa è stata ritenuta munita di credito di regresso verso il Comune. E di tal affermazione il Comune non ha alcuna ragione di dolersi. Inammissibile è poi il profilo del ricorso incidentale con cui il comune si duole della mancata condanna della cooperativa a rimborsargli quanto meno la quota parte di risarcimento corrispondente all’indennità di espropriazione: da un canto risalta il difetto di autosufficienza, non avendo l’ente riferito (nè tanto meno trascritto) le pattuizioni al riguardo contenute nella concessione-contratto conclusa con la cooperativa,sulla quale doveva fondarsi la rivalsa; dall’altro canto la sentenza impugnata ne aveva già respinto l’appello incidentale contenente analoga richiesta,proprio per non avere prodotto detta convenzione, per cui la censura risulta non puntuale e non pertinente rispetto alla ratio decidendi della decisione rimasta incontestata.

Quanto infine allo scarno profilo dedicato alla prescrizione, esso è del tutto privo di autosufficienza non contenendo alcun riferimento in fatto,e non venendo poi corredato dal quesito di diritto prescritto dall’art. 366 cod. proc. civ. (il quesito finale infatti ignora tale profilo).

Il ricorso del Comune di Roma è pertanto inammissibile.

Venendo da ultimo al regime delle spese si osserva che, se l’inammissibilità del ricorso del Comune attinge il solo rapporto tra l’Ente e la intimata Delfino, che non ha svolto difese, nel rapporto impugnatorio di legittimità tra Beni Stabili e Comune di Roma, la infondatezza delle censure esposte dalla prima ne impone la condanna alla refusione delle spese a beneficio del secondo (determinate in dispositivo).

P.Q.M.

LA CORTE DI CASSAZIONE Riuniti i ricorsi, rigetta il ricorso principale e dichiara inammissibile l’incidentale del Comune; condanna Beni Stabili alla refusione delle spese di legittimità in favore del Comune, che determina in Euro 5.200,00 (di cui Euro 200,00 per esborsi) oltre spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 19 dicembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 29 dicembre 2011

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