Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 30080 del 19/11/2019

Cassazione civile sez. II, 19/11/2019, (ud. 02/04/2019, dep. 19/11/2019), n.30080

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

Dott. SABATO Raffaele – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 1511-2017 proposto da:

R.O.P., elettivamente domiciliato in ROMA, viale

Angelico n. 36/B, presso lo studio dell’avvocato Massimo Scardigli,

che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato Fabio Massimo

Orlando;

– ricorrente –

contro

B.P.F., elettivamente domiciliato in ROMA, via XX

Settembre n. 3, presso lo studio degli avvocati Antonio e Giuseppe

Rapazzo, che lo rappresentano e difendono;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. ruolo 6808/2015 della Corte di appello di

Roma, depositata il 9 dicembre 2015;

udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 2

aprile 2019 dal Consigliere relatore Dott.ssa Milena Falaschi;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. Fulvio Troncone, che ha concluso per l’accoglimento

del primo motivo, assorbito il secondo, rigettati i restanti motivi;

uditi gli Avv.ti Massimo Scardigli e Fabio Massimo Orlando, per parte

ricorrente, e Fabrizio Cipollaro (con delega dell’Avv.to Antonio

Rapazzo), per parte resistente.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza n. 19426/2010, il Tribunale di Roma, in parziale accoglimento della domanda di pagamento di prestazioni professionali proposta dall’avv. R.O.P. nei confronti di B.P.F. in relazione a n. 35 procedimenti, condannava quest’ultimo al pagamento di Euro 47.155,00 per le prestazioni svolte dall’attore in relazione alla sola pratica ” B.P.F. c/ Bo.Da.”. Esponeva il Tribunale, poi, che il compenso non era dovuto dal B. per l’attività svolta dall’ O. nè in relazione alle tre pratiche ” B.P.F. c/ Monte Argentario”, mancando agli atti idonea documentazione atta a individuare il valore delle controversie, nè in relazione agli altri 31 procedimenti, per i quali l’attore non aveva dato prova del conferimento dell’incarico da parte del B..

L’ O. interponeva appello avverso la sentenza di primo grado e la Corte di appello di Roma, nella resistenza del B., respingeva il gravame, confermando la decisione del primo giudice.

In particolare, la Corte di appello – dopo aver dichiarato inammissibile ex art. 345 c.p.c., come novellato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, convertito con modificazioni in L. n. 134 del 2012, la produzione di due documenti, depositati per la prima volta nel giudizio di appello (atti giudiziari datati 26.02.2009 e 17.05.2009 a firma della difesa del B. in procedimenti intentati dall’avv. Guida di Guida contro il B. per ottenere il pagamento di onorari), trovando applicazione immediata l’art. 345 riformato per il principio tempus regit actum dichiarava inammissibili i motivi di gravame uno, due, tre, cinque, sei, sette, otto, nove, dieci, undici e dodici per violazione dell’art. 342 c.p.c., in quanto le censure ivi formulate e relative al difetto di prova del conferimento dell’incarico (mezzo uno, cinque, sei, sette, otto, nove), alla “proteiforme” attività di assistenza (mezzo due), al valore della causa di opposizione a precetto (mezzo tre), alla rimborsabilità delle spese vive (mezzo dieci), alla mancata ammissione delle prove (mezzo undici), alla mancata liquidazione degli interessi (mezzo dodici), non si confrontavano con la decisione del primo giudice, ma si limitavano a riproporre gli argomenti difensivi utilizzati in primo grado, peraltro non richiesto dall’appellante alcun compenso per l’attività svolta in qualità di coordinatore dell’attività altrui.

Nel merito, riteneva indimostrato il conferimento dell’incarico per la gestione diretta di affare che aveva quale parte la società Nova Lavinium, di cui il B. era amministratore delegato, proprio in quanto la sua qualità di coordinatore escludeva “il compimento diretto delle attività di cui l’ O.” chiedeva il compenso.

Avverso detta sentenza l’ O. propone ricorso per cassazione fondato su sei motivi, cui resiste il B. con controricorso.

In prossimità dell’udienza pubblica parte ricorrente e parte controricorrente hanno curato il deposito di memoria illustrativa.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

Con il primo e il secondo motivo – da esaminare congiuntamente per la evidente unitarietà argomentativa – il ricorrente lamenta, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e la falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c., del D.L. n. 83 del 2012, art. 54, come convertito dalla L. n. 134 del 2012, dell’art. 5 c.p.c. e dell’art. 11 preleggi, per avere la Corte di merito errato a dichiarare inammissibile la produzione di due documenti da parte dell’ O. con l’atto di citazione in appello, senza valutarne l’indispensabilità. A detta del ricorrente, infatti, la Corte di merito non avrebbe potuto applicare l’art. 345 c.p.c., come modificato dalla novella del 2012, ad un processo in grado di appello istaurato nel novembre del 2011. Peraltro, anche a voler considerare applicabile l’art. 345 c.p.c. come modificato dalla novella del 2012, la Corte avrebbe dovuto dichiarare la produzione dei due documenti ammissibile in quanto, trattandosi di documenti inerenti a procedimenti in cui l’ O. era terzo, sarebbe stata del tutto plausibile la conoscenza solo a seguito della conclusione del procedimento di primo grado.

I motivi sono infondati, anche se si impone la correzione della motivazione della sentenza impugnata ex art. 384 c.p.c., u.c..

Si premette che la potestas che l’art. 384 c.p.c., u.c., devolve a questa Corte può esser legittimamente esperita – e nel caso de quo senz’altro la si esperisce – pur nell’evenienza in cui l’error che inficia la motivazione di una statuizione di merito il cui dispositivo sia nondimeno conforme a diritto, sia “in procedendo” – è il caso di specie e non già “in iudicando” (cfr. Cass. 23 aprile 2001, n. 5962, secondo cui il potere di correzione della motivazione a norma dell’art. 384 c.p.c., comma 2, è esercitabile anche in presenza di “errores in procedendo”, i quali, ove si risolvano in violazione o falsa applicazione di norme processuali, presentano, dal punto di vista logico, la stessa struttura del vizio di violazione e falsa applicazione di legge al quale in generale fa riferimento l’art. 384 c.p.c., comma 1; cfr. Cass. 14 marzo 2001 n. 3671; Cass. Sez. Un. 2 febbraio 2017 n. 2731, secondo cui la mancanza di motivazione su questione di diritto e non di fatto deve ritenersi irrilevante, ai fini della cassazione della sentenza, qualora il giudice del merito sia comunque pervenuto ad un’esatta soluzione del problema giuridico sottoposto al suo esame; in tal caso, la Corte di cassazione, in ragione della funzione nomofilattica ad essa affidata dall’ordinamento, nonchè dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo, di cui all’art. 111 Cost., comma 2, ha il potere, in una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 384 c.p.c., di correggere la motivazione anche a fronte di un “error in procedendo”, quale la motivazione omessa, mediante l’enunciazione delle ragioni che giustificano in diritto la decisione assunta, anche quando si tratti dell’implicito rigetto della domanda perchè erroneamente ritenuta assorbita, sempre che si tratti di questione che non richieda ulteriori accertamenti in fatto).

Su tale scorta si rappresenta che la sentenza, nel disporre la inammissibilità della nuova produzione in appello ex art. 345 c.p.c., come novellato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv. con modificaz. in L. n. 134 del 2012, ha ritenuto immediatamente applicabile la modifica legislativa, pur in assenza di una espressa disciplina transitoria, ed ha dichiarato inammissibili taluni motivi di gravame, perchè non si confrontavano con la decisione impugnata, e respinto nel merito il gravame ritenendo indimostrato il conferimento dell’incarico da parte del B., proprio per la qualità di coordinatore pacificamente conferita al ricorrente, che escludeva – in difetto di specifica prova – la circostanza del rilascio di un mandato anche per le singole attività di cui l’ O. stesso era coordinatore.

In assenza di una espressa disciplina transitoria, sarebbe impossibile applicare lo ius superveniens ai procedimenti pendenti: occorre, allora, fare riferimento al D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 70, alla stregua del cui comma 1 “Il presente decreto entra in vigore il giorno stesso della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana e sarà presentato alle Camere per la conversione in legge”. Orbene, il decreto legge risulta pubblicato sulla G.U. 26.06.2012 n. 147. Tuttavia, l’appello è disciplinato, quanto ai documenti nuovi producibili, dalla legge temporalmente in vigore all’epoca della proposizione dell’impugnazione, in base al generale principio processuale tempus regit actum. Da ciò consegue che non essendo stata la sentenza conclusiva del giudizio di primo grado pubblicata dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della L. 7 agosto 2012, n. 134, di conversione del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, vale a dire dal giorno 11 settembre 2012 – per essere stata pubblicata il 1 ottobre 2010 – trova applicazione l’art. 345 c.p.c., comma 3, nella originaria formulazione (cfr., con riferimento ad una fattispecie analoga, Cass. 18 dicembre 2014 n. 26654).

Il giudice di appello avrebbe, dunque, dovuto accertare la indispensabilità del documento, per di più alla luce di Cass. Sez. Un. 4 maggio 2017 n. 10790, verifica che pacificamente non risulta essere stata effettuata.

Tuttavia trattandosi all’evidenza di error in procedendo anche il giudice di legittimità potrebbe effettuare una valutazione sull’indispensabilità della prova.

Infatti per condivisibile orientamento di questa Corte “il giudizio di indispensabilità della prova nuova in appello, previsto dall’art. 345 c.p.c., comma 3, (fino alla riforma apportata dalla L. n. 134 del 2012, qui inapplicabile “ratione temporis”) con riferimento al rito di cognizione ordinaria e dall’art. 437 c.p.c., comma 2, per il processo del lavoro, non attiene al merito della decisione, ma al rito, atteso che la corrispondente questione rileva ai fini dell’accertamento della preclusione processuale eventualmente formatasi in ordine all’ammissibilità di una richiesta istruttoria di parte; ne consegue che, quando venga dedotta, in sede di legittimità, l’erroneità dell’ammissione o della dichiarazione di inammissibilità di una prova documentale in appello, la Corte di cassazione, chiamata ad accertare un “error in procedendo” è giudice anche del fatto, ed è quindi tenuta a stabilire essa stessa se si trattasse di prova indispensabile” (Cass. 17 giugno 2009 n. 14098; Cass. 24 febbraio 2011 n. 4478).

“Ciò comporta che, nel caso di censurato diniego dell’ammissione, il ricorrente deve specificamente indicare e allegare i documenti, per consentire alla corte di valutarne l’indispensabilità. Se è vero, infatti, che la Corte di Cassazione, allorquando sia denunciato un error in procedendo, quale indubbiamente il vizio di ultra o extrapetizione, è anche giudice del fatto ed ha il potere – dovere di esaminare direttamente gli atti di causa, tuttavia, per il sorgere di tale potere dovere è necessario, non essendo il predetto vizio rilevabile ex officio, che la parte ricorrente indichi gli elementi individuanti e caratterizzanti il “fatto processuale” di cui richiede il riesame e, quindi, che il corrispondente motivo sia ammissibile e contenga, per il principio di autosufficienza del ricorso, tutte le precisazioni e i riferimenti necessari a individuare la dedotta violazione processuale” (Cass. 23 gennaio 2004 n. 1170).

Nel caso di specie il ricorrente, nel dolersi del fatto che la Corte territoriale abbia escluso l’ammissibilità dell’acquisizione di due atti giudiziari a firma del ricorrente per la difesa del controricorrente in procedimenti intentati dall’Avv. Guida di Guida nei confronti del B., e senza tenere in alcun conto della indispensabilità dell’atto, oltre a non avere adempiuto a quest’onere di specificità, non dimostra in modo alcuno che si tratti di un’attività diversa e ultronea rispetto al coordinamento di tutte le cause in cui era coinvolto il B., come sopra esposto, provenendo peraltro gli atti dalla stessa parte che richiede il compenso, per cui nessuna prova vi è del necessario rapporto di mandato che dovrebbe essere sotteso a siffatta attività.

Conclusivamente, pur se risulta pacifico e coglie un effettivo errore di pronuncia della corte territoriale, i motivi, tuttavia, non possono trovare accoglimento perchè la questione su cui il primo giudice non si è pronunciato, ossia la indispensabilità del documento prodotto in appello, va risolta in senso sfavorevole all’odierno ricorrente (cfr. Cass. 25 gennaio 2016 n. 1277).

Con il terzo e il sesto motivo – anch’essi da esaminare congiuntamente per la evidente unitarietà argomentativa – il ricorrente denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e n. 4, la violazione e la falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c. e art. 132 c.p.c., n. 4, dell’art. 118 disp. att. c.p.c., nonchè dell’art. 111 Cost., per avere la Corte di merito errato a dichiarare l’inammissibilità di alcuni dei motivi di appello proposti dall’ O. per difetto di specificità. A detta del ricorrente, la Corte di appello avrebbe motivato sull’asserita mancanza di specificità in maniera astratta e generica, senza tener conto delle copiose argomentazioni presenti nell’atto di citazione in appello.

Il motivo è inammissibile.

L’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un “error in procedendo”, presuppone comunque l’ammissibilità del motivo di censura, onde il ricorrente non è dispensato dall’onere di specificare (a pena di inammissibilità) il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata, indicando anche specificamente i fatti processuali alla base dell’errore denunciato, e tale specificazione deve essere contenuta nello stesso ricorso per cassazione.

Pertanto, ove il ricorrente censuri la statuizione di inammissibilità, per difetto di specificità, di un motivo di appello, ha l’onere di specificare, nel ricorso, le ragioni per cui ritiene erronea tale statuizione del giudice di appello e sufficientemente specifico, invece, il motivo di gravame sottoposto a quel giudice, e non può limitarsi a rinviare all’atto di appello, ma deve riportarne il contenuto nella misura necessaria ad evidenziarne la pretesa specificità (Cass. 29 settembre 2017 n. 22880, non massimata).

Nella specie, pertanto, non essendo stati riprodotti nel ricorso i motivi di appello dichiarati inammissibili dalla Corte di merito, il ricorrente non permette a questa Corte di valutarne la specificità e la pertinenza.

Con il quarto motivo, il ricorrente lamenta, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1709 e 2233 c.c., della L. n. 794 del 1942, artt. 24 e 25, nonchè del D.M. n. 127 del 2004, art. 1, capitolo III, per avere la Corte di merito errato ad escludere l’onerosità delle prestazioni professionali rese dall’ O., in virtù dell’asserito legame di tipo amicale esistente tra quest’ultimo e il B., di cui peraltro non vi sarebbe alcuna prova. A detta del ricorrente, una volta provato l’avvenuto conferimento dell’incarico all’ O. per lo svolgimento dell’attività di coordinamento di tutte le pratiche del B., la Corte di merito non avrebbe potuto escluderne l’onerosità, non essendovi alcuna prova della dedotta gratuità del mandato nè escludere la debenza del compenso solo in quanto l’attività di coordinamento rappresenterebbe una voce non prevista dalle tariffe. Il motivo è privo di pregio, poichè il ricorrente non coglie la ratio della sentenza impugnata.

La Corte di merito non ha escluso il compenso per l’attività di coordinamento svolta dall’ O. per le pratiche del B., poichè adempiuta in virtù di un legame di tipo amicale, bensì perchè per tale attività non vi era stata alcuna domanda di compenso da parte del ricorrente e siffatta argomentazione non ha formato oggetto di alcuna critica (v. pag. 18 della sentenza impugnata, punto 4.3.1).

Con il quinto motivo il ricorrente denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2697,2702,2705 e 2706 c.c.. A detta del ricorrente, vi sarebbe un’incongruenza tra l’atto di citazione in appello, alquanto dettagliato e le esigue motivazioni rese in sentenza che denoterebbe il fatto che la Corte di merito non avrebbe nemmeno visionato le contestazioni mosse alla sentenza di primo grado e i documenti (quali la lettera del 5.9.2004).

Il motivo è inammissibile.

Il motivo censura solo in apparenza la violazione e la falsa applicazione di legge, mirando a lamentare, in realtà, l’omesso esame da parte del giudice di merito delle contestazioni, mosse dall’ O. con l’atto di citazione in appello, e dei documenti prodotti, per giungere alle conclusioni auspicate dall’appellante.

Orbene, com’è noto, la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (applicabile, ai sensi del rit. art. 54, comma 3, alle sentenze pubblicate dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione del decreto, cioè alle sentenze pubblicate a decorrere dal 12.9.12 e, quindi, anche alla sentenza della cui impugnazione si discute) rende denunciabile per cassazione il vizio di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”. Secondo le sentenze n. 8053 e n. 8054 del 7.4.14, emesse dalle S.U. di questa S.C., la suddetta modifica legislativa deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione.

Nella specie, il ricorrente si limita genericamente a censurare l’omesso esame di “contestazioni” e di “documenti” senza nemmeno indicare quali siano le contestazioni e i documenti il cui esame sarebbe stato asseritamente omesso dalla Corte di merito (in quanto la suddetta lettere è stata esaminata dal giudice di merito).

A tali principi si è conformata la sentenza impugnata, che è dunque immune dalle censure sollevate.

In conclusione il ricorso va rigettato.

Ne consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese sostenute dal controricorrente nel presente grado di giudizio, liquidate come da dispositivo.

Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater dell’art. 13 del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

La Corte, rigetta il ricorso;

condanna il ricorrente alla rifusione in favore del controricorrente delle spese di legittimità che liquida in complessivi Euro 10.000,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfettarie nella misure del 15% e agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della seconda sezione civile della Corte di Cassazione, il 2 aprile 2019.

Depositato in Cancelleria il 19 novembre 2019

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