Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 30067 del 29/12/2011

Cassazione civile sez. I, 29/12/2011, (ud. 02/12/2011, dep. 29/12/2011), n.30067

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARNEVALE Corrado – Presidente –

Dott. BERRUTI Giuseppe Maria – Consigliere –

Dott. MACIOCE Luigi – Consigliere –

Dott. RAGONESI Vittorio – rel. Consigliere –

Dott. BISOGNI Giacinto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

SAN PAOLO IMI S.P.A. (c.f. (OMISSIS)), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

ORAZIO 12, presso l’avvocato TORTORICI GIOVANNI, che lo rappresenta e

difende, giusta procura a margine del ricorso principale;

– ricorrente –

contro

FALLIMENTO RUGGIERO GIUSEPPE E CASTELLANO MARIO S.N.C.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 5876/2011 della CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE di

ROMA, depositata il 11/03/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

02/12/2011 dal Consigliere Dott. VITTORIO RAGONESI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SORRENTINO Federico che ha concluso per l’inammissibilità

dell’istanza e rigetto.

La Corte si ritira in camera di consiglio per deliberare all’esito

della requisitoria del P.G..

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso depositato il 19-2-98, il Banco di Napoli s.p.a., in proprio e nella qualità di mandatario e procuratore della S.G.A. s.p.a., proponeva opposizione avverso il decreto di approvazione dello stato passivo del fallimento Ruggiero Giuseppe e Castellano Mario s.n.c. (fallimento dichiarato con sentenza del Tribunale di Napoli del (OMISSIS)), esponendo: che la S.G.A. s.p.a., con atto del 7-1-97, era diventata cessionaria del credito vantato dal Banco di Napoli nei confronti della società fallita e dei soci collettivisti in virtù del decreto ingiuntivo n. 6786/92, emesso dal Presidente del Tribunale di Napoli l’8-7-92, notificato il 20/22-7-92, dichiarato provvisoriamente esecutivo il 22-4-92, con formula esecutiva apposta il 23-5-95; che essa, pertanto, era creditrice della complessiva somma di L. 401.682.830, di cui L. 180.646.920 per capitale, L. 200.494.818 per interessi dal 20-6-91 al 27-5-97 e L. 21.998.282 per spese legali, con iscrizione di ipoteca giudiziale contro la società debitrice; che aveva chiesto l’ammissione al passivo del fallimento, in via ipotecaria sulla massa sociale e in via chirografaria sulla massa dei soci; che il Giudice Delegato aveva rigettato la domanda di ammissione al passivo “risultando opposto il decreto ingiuntivo posto a fondamento della pretesa e privo di efficacia per la procedura “; che nelle more del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo tutti gli opponenti avevano rinunciato alla prosecuzione de giudizio, con atto del 28-11-95, e che la mancanza del provvedimento formale di estinzione non privava la rinuncia dei suoi effetti.

Tutto ciò premesso, la ricorrente chiedeva l’ammissione al passivo del suo credito così come richiesto.

Il Fallimento si costituiva chiedendo il rigetto del ricorso.

Con sentenza del 24/31-10-2001, il Tribunale di Napoli, nel rilevare che l’opponente non aveva provato la tempestività dell’opposizione mediante produzione della raccomandata con la quale la Curatela le aveva comunicato l’emissione del provvedimento di approvazione dello stato passivo da parte del G.D., dichiarava inammissibile l’opposizione, condannando l’opponente al pagamento delle spese di giudizio.

La S.G.A. s.p.a. proponeva appello avverso tale sentenza, deducendo che, contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale, l’opposizione era stata tempestivamente proposta e depositando, a riprova del proprio assunto, la comunicazione della Curatela, ricevuta il 7-2-98.

Nel merito, l’appellante insisteva nel sostenere che, per effetto dell’atto di rinuncia notificato il 28-1 1-95 dai soci della Ruggiero e Castellano s.n.c. al Banco di Napoli, munito di data certa attestata dal timbro postale, si era verificata l’estinzione di diritto del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, con la conseguenza che il provvedimento monitorio posto a base della domanda di ammissione allo stato passivo aveva acquistato natura di cosa giudicata. L’appellante chiedeva, pertanto, l’ammissione a passivo del proprio credito, previa eventuale sospensione del giudizio, ex art. 295 c.p.c., fino all’esito di quello di opposizione a decreto ingiuntivo, dalla cui definizione non poteva prescindere, a suo dire, la decisione circa l’esistenza e validità del credito ipotecario della ricorrente.

Nel costituirsi, la Curatela contestava la fondatezza del gravame e ne chiedeva il rigetto.

La Corte d’appello di Napoli, con sentenza 2818/04, in parziale riforma della decisione di prime cure, rigettava nel merito l’opposizione allo stato passivo.

Avverso tale sentenza proponeva ricorro per cassazione la San Paolo IMI spa sulla base di due motivi cui resisteva con controricorso il fallimento della SGA spa.

L’udienza di discussione veniva tenuta in data 16.2.11 e, a seguito della decisione assunta in camera di consiglio, veniva emessa fa sentenza n. 5876/11.

Quest’ultima recava in epigrafe i nomi delle parti del presente giudizio e, cioè,quello della ricorrente San Paolo Imi spa e del resistente fallimento Ruggiero Giuseppe e Castellano Mario snc nonchè dei soci R.G. e C.M., ma la sua motivazione ed il suo dispositivo erano quelli di una diversa causa riguardante altri soggetti.

A seguito di ciò il Presidente della 1 sezione civile di questa Corte disponeva la rifissazione della udienza di discussione del ricorso in oggetto innanzi al medesimo collegio innanzi al quale la causa era stata discussa all’udienza del 16.2.11.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il Collegio rileva preliminarmente che la sentenza n. 5876/11 deve ritenersi insanabilmente nulla. La stessa infatti, ancorchè pronunciata nei confronti delle parti del presente processo, esprime nella sua motivazione e nel dispositivo una decisione che riguarda altri soggetti ed una diversa causa.

Ciò fa sì che in realtà nessuna decisione risulta emessa per regolare la presente controversia e ciò comporta, come detto, la insanabile nullità dell’arresto in questione equiparabile all’inesistenza.

La nullità in questione, in quanto non coperta dal giudicato formale, può essere fatta valere, anche al di fuori dell’impugnazione nello stesso processo, con un’autonoma azione di accertamento, non soggetta a termini di prescrizione o decadenza, ovvero in via di eccezione, ed altresì in sede di opposizione all’esecuzione (Cass 21139/05; Cass 9661/93).

Peraltro questa Corte ha già rilevato che ” se, in linea generale, è vero che, dopo il deposito in cancelleria, non appare possìbile nè l’integrazione, nè la modificabilità della decisione da parte del giudice che l’ha pronunciata, così trovando conferma il principio secondo cui, sempre in linea di carattere generale, la sentenza, una volta pubblicata, risulta idonea a chiudere il procedimento davanti al giudice adito (se definitiva) o, comunque, a consumare il potere-dovere di quest’ultimo di pronunciare sulla domanda oggetto della decisione, è però altrettanto vero che tale principio vale nei limiti dell’impossibilità di completare il provvedimento, o, comunque, di modificarlo ma non già a proposito della sua “integrale” rinnovazione, ne senso esattamente che, se l’inesistenza non ammette sanatorie, sopravvive al giudicato e rende impossibile ricollegare agli atti che ne sono inficiati un qualsiasi effetto giuridico” (Cass. 21139/05). Conseguentemente una simile mancanza di effetti non può non valere anche per il giudice cui è apparentemente da attribuire la sentenza inesistente, il quale, quindi, rilevato che si tratta di un atto appunto inesistente, può integralmente rinnovarlo (e non sanarlo), emanando così un atto valido. (Cass. 9661/93; Cass. 21139/05).

Sotto tale profilo va ulteriormente osservato che se avverso una sentenza inesistente, non sia evidentemente possibile l’introduzione degli ordinari mezzi di impugnazione (appello e ricorso per Cassazione), l’ammettere, di conseguenza, l’esperimento della sola (autonoma) azione di nullità equivalga, però, a precludere, facendo appunto difetto il mezzo processuale del gravame, attraverso cui viene devoluta al relativo giudice sia la quaestio nullitatis sia la statuizione “di merito”, la possibilità stessa che intervenga, oltre la dichiarazione di nullità limitata alla rimozione della decisione invalida, anche una nuova, “valida” pronuncia sostitutiva di quella nulla (Cass. 21139/05). Ciò appare non conforme al principio di ragionevole durata del processo stabilito dall’art. 111 Cost., perchè la sola possibilità di emettere una pronuncia di nullità con autonomo giudizio comporterebbe l’inevitabile perdita di tutta l’attività processuale svolta nel processo che si è concluso con la sentenza inesistente, con pregiudizio per le parti che subirebbero le conseguenze di un vizio di forma non addebitatole ad esse e con aggravio per il sistema giudiziario qualora,a seguito di ciò, dovesse instaurarsi un nuovo giudizio od una nuova fase processuale.

Pertanto, il Collegio odierno, rilevata la radicale ed insanabile nullità della sentenza recorite il n. 5876/11, ritiene di procedere, siccome ancora investito della potestà di decidere, alla nuova deliberazione sul ricorso proposto dalla San Paolo Imi spa e alla redazione di nuova sentenza, alla stregua dell’art. 276, art. 132 c.p.c., comma 2, e art. 119 disp. att. c.p.c., cui conseguirà la successiva pubblicazione, ex art. 133 c.p.c..

Con il primo articolato motivo di ricorso la banca ricorrente deduce l’inadeguatezza della motivazione della sentenza impugnata, laddove ha ritenuto non avvenuta l’estinzione del giudizio per effetto della rinuncia stragiudiziale alla opposizione a decreto ingiuntivo.

Con il secondo motivo si duole della omessa pronuncia sulla domanda di ammissione del proprio credito al passivo in via privilegiata.

Il primo motivo è articolato sulla base di tre censure che contestano le tre rationes decidendi poste a fondamento della sentenza.

Con la prima di esse la Corte d’appello ha rilevato che la curatela fallimentare aveva, sin dalla costituzione in giudizio, contestato la genuinità dell’atto di rinuncia negando l’autenticità della sottoscrizione del C. ed ha ritenuto che la scrittura in presenza di tale contestazione fosse inutilizzabile come prova nei confronti di questi, a meno che non fosse stata dimostrata l’effettiva provenienza della scrittura da parte di chi l’aveva prodotta; circostanza non verificatasi. La stessa appare del tutto corretta in punto di diritto alla luce della costante giurisprudenza di questa Corte che ha ritenuto che le scritture private provenienti da terzi estranei alla lite possono essere liberamente contestate dalle parti, non applicandosi alle stesse nè la disciplina sostanziale di cui all’art. 2702 cod. civ., nè quella processuale di cui all’art. 214 cod. proc. civ., atteso che esse costituiscono prove atipiche il cui valore probatorio è meramente indiziario, e che possono, quindi, contribuire a fondare il convincimento del giudice unitamente agli altri dati probatori acquisiti al processo. (Cass. sez. un 15169/10; Cass. 12066/98).

In base a tale principio la Corte d’appello ha ritenuto che la banca opponente allo stato passivo non avesse fornito nel corso del giudizio alcuna prova atta a dimostrare l’effettiva provenienza dell’atto di rinuncia da parte del C., onde ha disconosciuto ogni valore probatorio ai documento in questione.

La banca ricorrente non censura invero le argomentazione della sentenza sul punto ma si limita ad affermare che l’atto in questione potrebbe semmai costituire prova della rinuncia del fallimento del C. in proprio ma non da parte del fallimento della società e di quello dell’altro socio e che sul punto vi sarebbe stata una omessa motivazione. L’assunto è del tutto privo di fondamento.

La sentenza impugnata espressamente ha specificato che l’atto di rinuncia al decreto ingiuntivo era stato firmato da C. M. e R.G. in proprio e quali soci della Ruggiero e Castellano snc e che il fallimento aveva contestato la sola firma del C. ed ha concluso (v. pag. 9 della sentenza di appello) che la scrittura privata non aveva alcun valore probatorio ” quanto meno nei confronti del fallimento del C. in proprio”.

Il motivo appare quindi inammissibile poichè non coglie la effettiva ratio decidendi della sentenza.

La seconda argomentazione su cui è fondata la decisione consiste nell’affermare che, sebbene la rinuncia al giudizio notificata alla controparte non ne richieda l’accettazione, tuttavia quest’ultima è necessaria quando la controparte ha interesse al giudizio e, nel caso di specie, non essendo stati prodotti gli atti del giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo, non era stato possibile verificare tale circostanza. La banca ricorrente contesta con la seconda censura del primo motivo tale affermazione assumendo che nessun’altra parte era in giudizio oltre le attuali e che ciò era provato dalla sentenza del Tribunale di Torre Annunziata relativa la giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo depositata in atti.

La doglianza è inammissibile.

A fronte della specifica menzione in sentenza del fatto che non erano stati prodotti in giudizio gli atti di quello di opposizione al decreto ingiuntivo, la stessa infatti deduce un errore di percezione da parte del giudice di merito che non si sarebbe accorto e non avrebbe tenuto conto della presenza in atti della sentenza emessa nel giudizio in questione. Tale censura lamenta in sostanza un vizio di carattere revocatorio che avrebbe dovuto essere impugnato non già con il ricorso ordinano ex art. 360 c.p.c., bensì con quello di revocazione di cui all’art. 395 cod. proc. civ., comma 1, n. 4, che deve proporsi allorquando venga fatto valere un errore di percezione, o una mera svista materiale, che abbia indotto il giudice a supporre l’esistenza (o l’inesistenza) di un fatto decisivo, che risulti, invece, in modo incontestabile escluso (o accertato) in base agli atti e ai documenti di causa, sempre che tale fatto non abbia costituito oggetto di un punto controverso su cui il giudice si sia pronunciato. L’errore in questione presuppone, quindi, il contrasto fra due diverse rappresentazioni dello stesso fatto, delle quali una emerge dalla sentenza, l’altra dagli atti e documenti processuali, semprechè la realtà desumibile dalla sentenza sia frutto di supposizione e non di giudizio (ex plurimis, da ultimo v. Cass. 22171/10).

Tale seconda ratio decidendi appare di per sè idonea a costituire valido fondamento della decisione sul punto poichè accertato in via definitiva, per effetto della inammissibilità della seconda esaminata doglianza del primo motivo, che l’estinzione non poteva considerarsi verificata per la mancata dimostrazione della inesistenza di parti aventi un interesse contrario alla rinuncia al giudizio,ogni ulteriore doglianza sul punto relativo all’estinzione della causa di opposizione a decreto ingiuntivo sarebbe comunque superflua e priva di rilevanza poichè non potrebbe comunque mutare l’esito della decisione.

Da ciò discende l’inammissibilità, per carenza d’interesse, della terza doglianza contenuta nel primo motivo di ricorso con cui si censura la ulteriore ratio della sentenza basata sull’argomento che, sebbene la rinuncia sia stata notificata prima della dichiarazione di fallimento, a stessa era stata poi depositata nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo dopo la detta dichiarazione onde era comunque inopponibile alla massa.

Il motivo è conclusivamente inammissibile.

Il secondo motivo con cui si contesta in ogni caso l’omesso accertamento del credito fatto valere con l’istanza di ammissione al passivo è infondato.

A tale proposito la banca ricorrente fa valere in primo luogo la sentenza conclusiva del giudizio di opposizione allo stato passivo, ma come già osservato dalla corte d’appello essendo stata la detta sentenza pronunciata dopo la dichiarazione di fallimento, la stessa era in opponibile alla massa.

In secondo luogo deduce a fondamento della domanda la dichiarazione stragiudiziale di rinuncia all’azione, ma per essa vale quanto detto in ordine al primo motivo di ricorso.

In terzo luogo deduce l’esistenza di elementi dimostrativi della esistenza del credito posti a base della dichiarazione di fallimento, ma non dice quali questi elementi fossero nè che gli stessi erano stati depositati nel giudizio di opposizione allo stato passivo, poichè in detto giudizio non vi è alcun obbligo per il giudice delegato di acquisire gli atti del fascicolo per la dichiarazione di fallimento.

Il motivo è dunque manifestamente infondato.

Il ricorso va in conclusione respinto.

La banca ricorrente va di conseguenza condannata al pagamento delle spese processuali liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte, nuovamente deliberando,Rigetta il ricorso e condanna la banca ricorrente al pagamento delle spese di giudizio liquidate in Euro 3000.00 per onorari oltre Euro 200,00 per esborsi oltre spese generali accessori di legge.

(VD. SENT. N. 5876/2011).

Così deciso in Roma, il 2 dicembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 29 dicembre 2011

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