Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 30066 del 21/11/2018

Cassazione civile sez. trib., 21/11/2018, (ud. 27/06/2018, dep. 21/11/2018), n.30066

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – rel. Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello Maria – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 26968-2011 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

Z.I., elettivamente domiciliata in ROMA VIA TIRSO 26,

presso lo studio dell’avvocato PIETRO BORIA, che la rappresenta e

difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 58/2011 della COMM. TRIB. REG. SEZ. DIST. di

FOGGIA, depositata il 21 marzo 2011;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

27 giugno 2018 dal Consigliere Dott. FRANCESCO FEDERICI.

Fatto

RILEVATO

che:

L’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza n. 58/27/11, depositata il 21 marzo 2011 dalla Commissione Tributaria Regionale della Puglia, Sez. Staccata di Foggia;

ha riferito che a Z.I. era stato notificato avviso di accertamento ((OMISSIS)) relativo all’anno d’imposta 2004, con il quale, rideterminandosi un maggior reddito imponibile, erano richieste maggiori imposte ai fini Irpef, addizionale regionale e comunale, oltre che comminate le sanzioni.

L’accertamento era stato eseguito con metodo sintetico del D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 38, sulla base del rilevato conseguimento di incrementi patrimoniali generati da quattro compravendite immobiliari del complessivo valore di Euro 800.000,00 a fronte dei modesti redditi dichiarati.

La contribuente, che invece sosteneva che le compravendite dissimulavano donazioni e pertanto erano negozi inidonei a dimostrare un maggior reddito, adiva la Commissione Tributaria Provinciale di Foggia, che con sentenza n. 88/02/2010 rigettava il ricorso. La Commissione Tributaria Regionale della Puglia, con la sentenza ora impugnata, accoglieva invece l’appello annullando l’accertamento.

Con un unico motivo l’Agenzia si duole della pronuncia del giudice regionale per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 26, del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, commi 4, 5 e 6, degli artt. 2697 e 2727 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè per insufficiente, erronea e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per avere erroneamente ritenuto fornita dalla contribuente la prova contraria del maggior imponibile contestato.

Si è costituita la contribuente, contestando l’avverso motivo e chiedendo il rigetto del ricorso.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

Con l’unico motivo l’Agenzia si duole della pronuncia del giudice regionale, che ha accolto il ricorso introduttivo della contribuente, ritenendo che gli atti di compravendita, su cui l’Ufficio aveva fondato l’accertamento sintetico, non fossero espressione di imponibile non dichiarato, dissimulando altrettanti atti di donazione. Nelle lunghe argomentazioni della difesa si denuncia la violazione di legge e il vizio motivazionale della sentenza, per l’erronea applicazione delle norme invocate e per l’insufficienza e contraddittorietà della motivazione. In sintesi l’Agenzia sostiene che gli elementi prodotti dalla Z. non fossero idonei a fornire la prova contraria dell’accertamento induttivo collegato, secondo la prospettazione dell’Ufficio accertatore, alla spesa sostenuta per l’acquisto delle proprietà immobiliari, a fronte degli scarsi redditi dichiarati. A tal fine evidenzia per un verso l’inidoneità degli elementi allegati dalla contribuente, per altro verso la non pertinenza delle norme invocate.

Ciò premesso, il D.P.R. n. 600 del 1973, l’art. 38, comma 4, così recita: “l’Ufficio…. può sempre determinare sinteticamente il reddito complessivo del contribuente sulla base delle spese di qualsiasi genere sostenute nel corso del periodo d’imposta, salva la prova che il relativo finanziamento è avvenuto con redditi diversi da quelli posseduti nello stesso periodo d’imposta, o con redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta o, comunque, legalmente esclusi dalla formazione della base imponibile.”.

Sulla configurabilità della prova contraria la giurisprudenza di questa Corte è intervenuta ripetutamente, perimetrandone l’area. Innanzitutto per chiarire il significato da attribuire alle fonti reddituali cui il contribuente può ricorrere per contraddire l’accertamento fiscale, ed in particolare, oltre che su quelli percepiti in un periodo d’imposta diverso, quelli esenti e quelli soggetti a ritenuta alla fonte. A tal fine infatti, con il rigore interpretativo necessario ad evitare aperture indefinite alla prova (a fronte della circostanza che la rilevazione di una capacità di spesa incoerente con i redditi dichiarati è indice già circoscritto di redditi occultati), si è affermato che qualora l’ufficio determini sinteticamente il reddito complessivo netto in relazione alla spesa per incrementi patrimoniali, la prova documentale contraria ammessa per il contribuente dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 6, – ratione temporis vigente – non riguarda la disponibilità in sè di redditi esenti o di redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta, ma anche l’entità di tali redditi e la durata del loro possesso, che costituiscono circostanze sintomatiche del fatto che la spesa contestata sia stata sostenuta proprio con redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta (cfr. sent. n. 25104/2014; 6813/2009; 14885/2015; 22944/2015; 1332/2016; 1510/2017).

Tuttavia questa Corte ha altrettanto significativamente interpretato la norma senza limitarsi al dato letterale dell’art. 38 cit., rilevando che la prova contraria possa trovare ingresso mediante indicatori che, a monte, escludano la stessa disponibilità di reddito non dichiarato nonostante l’incremento patrimoniale conseguito. In particolare si è affermato che per l’ipotesi di accertamento del reddito con metodo sintetico è ammessa la prova contraria da parte del contribuente, che può consistere anche nella dimostrazione che i beni o gli importi contestati quali indici di capacità contributiva non siano effettivamente entrati nella sua disponibilità, in quanto derivanti da un atto simulato, che non ne implica la corrispondente e reale disponibilità economica (cfr. Cass., sent. n. 21442/2014). A tal fine l’atto dissimulato che ordinariamente può invocarsi è quello di liberalità, di donazione o comunque a causa gratuita. Questo orientamento, peraltro condivisibile perchè concilia comunque il riconoscimento di forme di accertamento presuntivo del reddito con il principio, immanente, della capacità contributiva prescritto dall’art. 53 Cost., trova già ingresso nella giurisprudenza meno recente. Si affermava infatti che la sottoscrizione di un atto pubblico, quale l’atto di compravendita, contenente la dichiarazione di pagamento di una somma di denaro da parte del contribuente, può costituire elemento sulla cui base determinare induttivamente il reddito in forza di presunzioni semplici, applicabili dall’ufficio nell’ipotesi di accertamento sintetico, risalendo dal fatto noto e quello ignoto, senza che possa ravvisarsi la violazione del principio costituzionale della capacità contributiva, di cui all’art. 53 della Cost.. In tale caso infatti è sempre consentita, sebbene con onere a carico del contribuente, la prova contraria in ordine al fatto che manca del tutto una disponibilità patrimoniale, in ragione della natura simulata dell’atto stipulato, sicchè esso ha natura solo apparentemente onerosa mentre il negozio dissimulato ha causa gratuita. Da ciò infatti consegue la sola mera apparenza della ulteriore capacità contributiva evincibile dal negozio simulato (Cass., sent. n. 8665/2002; 9455/2004; 5991/2006).

Ciò posto, occorre sempre chiarire con quale prova il contribuente dovrà in concreto dimostrare la natura gratuita del negozio dissimulato. Non è certo sufficiente la sola esibizione di documentazione bancaria, che se dalla giurisprudenza di legittimità trova pieno ingresso ai fini della dimostrazione del possesso di altri redditi esenti o assoggettati a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta (cfr. Cass., ord. 12026/2018; 7258/2017), e ciò per l’idoneità alla prova della natura e della provenienza della provvista utilizzata per l’acquisto, nel caso di specie può costituire al più uno degli indizi da allegare, insufficiente però quando sia il solo. Infatti, se si invoca la gratuità del negozio, l’assenza di riscontri della provvista nella documentazione bancaria non impedisce di ritenere che essa sia stata diversamente ed occultamente acquisita, a tal fine correttamente deducendosi che “in materia di simulazione negoziale, specie con riguardo al pagamento del prezzo, la prova negativa costituita dalla documentazione bancaria è di per sè stessa inidonea a dimostrare la diversa causa negoziale sottostante al tipo formalizzato, atteso che le risultanze degli estratti conto non hanno alcuna attinenza certa e causalmente efficiente rispetto all’adempimento dell’obbligazione del prezzo, nel negozio, simulato come oneroso che si assume celarne uno gratuito, atteso che la provvista necessaria all’adempimento del prezzo può provenire dalle tante altre fonti, e può avere come sua destinazione tanti altri canali, non esauribili – nè quelle ne questi – in quelli bancari.” (cfr. sent. 8665/2002 cit.).

Neppure è di per sè sufficiente ricorrere al principio della presunzione di liberalità degli atti di compravendita tra coniugi o tra parenti in linea retta (o tali considerati ai fini delle imposte di successione), su cui pure le parti del presente giudizio si sono diffuse. A parte che trattasi di presunzione relativa, a seguito dell’intervento della Corte Costituzionale con sentenza n. 41 del 1999, nel caso di specie gli atti di compravendita de quo sono intervenuti tra suocera e nuora o tra cognati, categorie di affini certo non comprese nella previsione normativa.

Resta invece incontestabile che, nella ipotesi in cui il contribuente invochi la natura liberale dell’incremento patrimoniale, allo stesso spetterà allegare quelle prove, o quell’insieme di indizi, che all’organo giudicante spetterà sottoporre al suo vaglio e che, nella seconda ipotesi, lo obbligheranno al rispetto delle regole sulla prova presuntiva.

A tal fine, quanto alle concrete modalità di utilizzo e valorizzazione delle prove indiziarie, deve premettersi che compete alla Corte di cassazione, nell’esercizio della funzione nomofilattica, il controllo della corretta applicazione dei principi contenuti nell’art. 2729 c.c. alla fattispecie concreta, poichè se è devoluto al giudice di merito la valutazione della ricorrenza dei requisiti enucleabili dagli artt. 2727 e 2729 c.c., per valorizzare gli elementi di fatto quale fonte di presunzione, tale giudizio è soggetto al controllo di legittimità se risulti che, nel violare i criteri giuridici in tema di formazione della prova critica, il giudice non abbia fatto buon uso del materiale indiziario disponibile, negando o attribuendo valore a singoli elementi, senza una valutazione di sintesi (cfr. Cass., ord. n. 10973/2017, Cass., sent. n. 1715/2007). Peraltro la giurisprudenza di legittimità ha tracciato il corretto procedimento logico che il giudice di merito deve seguire nella valutazione degli indizi, in particolare affermando che la gravità, precisione e concordanza richiesti dalla legge vanno ricavati dal loro complessivo esame, in un giudizio globale e non atomistico di essi (ciascuno dei quali può essere insufficiente), ancorchè preceduto dalla considerazione di ognuno per individuare quelli significativi, perchè è necessaria la loro collocazione in un contesto articolato, nel quale un indizio rafforza e ad un tempo trae vigore dall’altro in vicendevole completamento (tra le più recenti cfr. Cass., sent. n. 12002/2017; Cass., ord. n. 5374/2017).

Ciò premesso, nel caso di specie il giudice regionale, a fronte della pretesa natura liberale degli atti di trasferimento degli immobili, simulatamente ceduti a titolo oneroso, dissimulando però con essi delle donazioni, e dunque a fronte della allegazione di elementi indiziari da cui evincere un fatto negativo – l’assenza del passaggio di corrispettivi – e la causa liberale degli atti di trasferimento – la donazione -, ha vagliato i suddetti elementi riconoscendo infine la prospettazione difensiva della contribuente ed assegnando dignità di prova contraria agli indizi allegati dalla Z.. A tal fine ha elencato gli atti di trasferimento degli immobili e ha valorizzato: 1) che gli atti di trasferimento siano intervenuti tutti a favore della contribuente da parte della di lei suocera M.C. e del di lei cognato, F.G., figlio della M. e fratello del coniuge della Z.; 2) che l’assegno di Euro 200.000,00 con cui erano state pagate due unità immobiliari, a distanza di un anno, non risultava ancora riscosso; 3) che la Z. conferiva già nel 2006 al cognato (uno dei due alienanti) procura alla vendita della quota del 50% degli immobili acquistati dalla suocera, nonchè dal cognato medesimo e dal coniuge, con ampio mandato per la vendita anche a sè stesso e al prezzo più consono; 4) che era in corso un giudizio di separazione tra il cognato e la propria consorte, cui si riconducevano le ragioni per cui era stato ritenuto opportuno in famiglia che il cognato e la di lui madre si liberassero degli immobili; 5) che nei confronti della suocera, del cognato e di suo marito risultava pendente un giudizio civile per il riconoscimento della simulazione relativa agli atti di compravendita.

Ebbene, a fronte di questo quadro indiziario il giudice regionale ha ritenuto raggiunta la prova che gli atti di compravendita celavano altrettanti atti di liberalità, sicchè quei medesimi atti non costituivano, ai sensi dell’art. 38 cit., indice di maggiori redditi e di maggiore capacità contributiva della Z..

La motivazione del giudice regionale è coerente rispetto ai criteri di valutazione delle prove presuntive, secondo i requisiti enucleabili dagli artt. 2727 e 2729 c.c..

Accertato il rispetto dei principi di acquisizione della prova, resta l’accertamento di fatto riservato al giudice di merito e inibito al giudice di legittimità.

L’Agenzia vorrebbe evidenziare la contraddittorietà della motivazione, laddove nella sentenza si riferisce (a pag. 6) di ulteriori redditi nella disponibilità della Z.. L’osservazione, pur suggestiva, è priva di pregio, perchè l’individuazione di ulteriori disponibilità della contribuente non era finalizzata a contraddire la natura liberale degli atti di trasferimento, ma semplicemente a sottolineare che, a prescindere dalla prova raggiunta, la contribuente in ogni caso non era un soggetto sprovvisto di capacità contributiva (per fonti comunque non assoggettabili ad imposta, come la contrazione di un mutuo o la concessione di un finanziamento), idonee ad affrontare anche investimenti immobiliari. Si tratta pertanto di una motivazione rafforzativa ancorchè inutile rispetto al quadro probatorio già acquisito.

Deve ritenersi in conclusione infondato il motivo di ricorso.

Considerato che il ricorso va rigettato. Ai fini della liquidazione delle spese la complessità della vicenda giustifica la compensazione delle spese di causa.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Compensa le spese del giudizio.

Così deciso in Roma, il 27 giugno 2018.

Depositato in Cancelleria il 21 novembre 2018

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