Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 30031 del 19/11/2019

Cassazione civile sez. I, 19/11/2019, (ud. 24/09/2019, dep. 19/11/2019), n.30031

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –

Dott. DI STEFANO Pierluigi – Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 30947/2018 R.G. proposto da:

F.S., rappresentato e difeso giusta delega in atti

dall’avv. Licia Giovanna Gianfaldone del foro di Milano (indirizzo

PEC licia.gianfaldone.milano.pecavvocati.it);

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO in persona del Ministro pro tempore,

rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato con

domicilio eletto in Roma, via Dei Portoghesi, n. 12, presso

l’Avvocatura Generale dello Stato (PEC

ags.rm.mailcert.avvocaturastato.it);

– intimato –

Avverso la sentenza della Corte d’ Appello di Milano n. 4192/2018

depositata il 20/09/2018, non notificata;

Udita la relazione della causa svolta nell’adunanza camerale del

24/09/2019 dal consigliere Dott. Roberto Succio.

Fatto

RILEVATO

che:

– con la sentenza di cui sopra la Corte d’appello ha respinto l’appello del ricorrente, confermando la pronuncia di prime cure;

– avverso la sentenza di seconde cure propone ricorso per Cassazione D.S. con atto affidato a quattro motivi; il Ministero dell’Interno è rimasto intimato.

Diritto

CONSIDERATO

che:

– con il primo motivo di ricorso si censura la sentenza impugnata per omessa motivazione sull’attendibilità delle dichiarazioni rese dal ricorrente; il mezzo può esaminarsi, in quanto strettamente connesso, congiuntamente con il secondo motivo di ricorso, che denuncia ex art. 360, comma 1, n. 5 l’omessa valutazione di fatti emersi nel gradi del merito, consistenti nella qualità di obiettore di coscienza del richiedente non riconosciuta in Ucraina come esimente dal richiamo alle armi nel caso di guerra;

– rileva preliminarmente questa Corte che, a seguito alla riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica della violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6, individuabile nelle ipotesi – che si convertono in violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e danno luogo a nullità della sentenza – di “mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale”, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od incomprensibile”. Al di fuori di tali ipotesi, il motivo di cui al numero 5 dell’art. 360 c.p.c. può essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia (Cass. S.U. 8053/2014; Cass. 23940/2017);

– ciò premesso, si osserva che la Corte territoriale effettivamente nulla dice in sentenza in ordine alle ragioni per le quali essa Corte ha ritenuto irrilevante la situazione di obiettore di coscienza dedotta e documentata dal ricorrente, ed espressamente esaminata – come risulta in sentenza – dal primo giudice, le cui conclusioni sono riportate in sentenza dalla Corte senza nessun minimo cenno alle ragioni in forza delle quali il giudice dell’appello ha dimostrato di averle, anche a fronte dei motivi di impugnazione, condivise e fatte proprie. Difetta quindi in sentenza una vera ed effettiva parte argomentativa e valutativa. Come è noto, secondo questa Corte (Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 22022 del 21/09/2017) deve considerarsi nulla la sentenza di appello motivata “per relationem” alla sentenza di primo grado, qualora la laconicità della motivazione non consenta di appurare che alla condivisione della decisione di prime cure il giudice d’ appello sia pervenuto attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame, previa specifica ed adeguata considerazione delle allegazioni difensive, degli elementi di prova e dei motivi di appello;

– pertanto i primi due motivi di ricorso meritano accoglimento; la sentenza va quindi cassata con rinvio alla Corte meneghina per nuovo esame;

– altrettanto fondato è poi il terzo motivo, con il quale si denuncia violazione di legge in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 dell’art. 1 Convenzione di Ginevra sui rifugiati, dell’art. 10 Cost., comma 3, del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3, 5 e 7, oltre che del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3 per avere la Corte meneghina negato la sussistenza dei requisiti per ogni tipo di protezione internazionale al richiedente in quanto difetterebbe nel presente caso la situazione persecutoria diretta e personale che lo ponga in una situazione di effettivo rischio di danno grave alla persona nel caso di rientro in Ucraina;

– in sintesi, ritiene la Corte territoriale che la situazione di conflitto in quel paese e la condizione di obiettore di coscienza del richiedente non-inverano i requisiti richiesti per la concessione dell’invocata protezione;

– ritiene questo Collegio che il motivo sia all’evidenza fondato, alla luce delle considerazioni che di seguito vanno esplicate;

– va premesso, operando un processo di disamina del tutto pretermesso dal secondo giudice, che l’obiezione di coscienza è “il rifiuto di obbedienza ad una legge o ad un comando dell’autorità perchè considerato in contrasto con i principi e le convinzioni personali radicati nella propria coscienza. L’obiettore di coscienza è dunque un cittadino che, dovendo prestare servizio militare armato, contrappone il proprio rifiuto all’uso delle armi ed attività ad esse collegate” (www.serviziocivile.gov.it). La L. italiana n. 230 del 1998 qualifica l’obiezione di coscienza come esercizio dei diritti di libertà di pensiero, coscienza e religione riconosciute dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e dalla Convenzione internazionale sui diritti civili e politici. L’UNHCR, nelle Linee Guida in materia di protezione internazionale n. 10 (relative al rifugio fondato sul servizio militare) afferma che “l’obiezione di coscienza al servizio militare comporta un’obiezione a tale servizio che “deriva da principi e motivi di coscienza, tra cui convinzioni profonde derivanti da motivi religiosi, morali, etici, umanitari o da altri motivi simili”. Tale obiezione non si limita agli obiettori di coscienza assoluti (pacifisti), ossia coloro che si oppongono a qualsiasi uso della forza armata o alla partecipazione a qualsiasi guerra. L’obiezione di coscienza comprende anche coloro che credono che “l’uso della forza sia giustificato in alcuni casi, ma non in altri, e che pertanto in questi altri casi sia necessario fare obiezione” (obiezione parziale o selettiva al servizio militare.” (pag. 2). Precisa poi ancora l’UNHCR che “21. Le domande di riconoscimento dello status di rifugiato relative al servizio militare possono fondarsi su un’obiezione (i) a un particolare conflitto armato oppure (ii) ai mezzi e ai metodi di guerra (la condotta di una delle parti di un conflitto). La prima obiezione si riferisce all’uso illegale della forza (jus ad bellum), mentre la seconda fa riferimento ai mezzi e ai metodi di guerra, come disciplinato dal diritto internazionale umanitario (jus in bello) oltre che dalla legislazione internazionale in materia di diritti umani e dal diritto penale internazionale”. Nel loro complesso tali obiezioni riguardano l’obbligo a partecipare ad attività del conflitto che il o la richiedente considera in contrasto con le regole fondamentali della condotta umana. Tali obiezioni possono essere manifestate come un’obiezione che si basa sulla propria coscienza e come tale può essere trattata come un caso di “obiezione di coscienza” (pag. 9). In quanto fondata sulla propria coscienza, dunque, detta obiezione, diversamente da quanto ha erroneamente ritenuto la sentenza gravata, si fonda su motivazioni che – sempre secondo le Linee Guida – vanno intese “in modo ampio rispetto all’affiliazione a un particolare movimento politico o all’adesione ad un’ideologia” (p.to 51); inoltre “i casi riguardanti l’obiezione al servizio militare possono essere decisi sulla base del fatto che vi sia un nesso con il motivo dell’opinione politica sancito dalla Convenzione del 1951. In base alle circostanze, una obiezione al servizio militare (…) può essere interpretata attraverso il prisma di un’opinione politica effettiva o presunta. In relazione a quest’ultimo caso, le autorità possono interpretare il fatto che una persona si opponga alla partecipazione a un conflitto o a determinati atti come una manifestazione di disaccordo politico. L’atto di diserzione o di renitenza alla leva può di per sè essere espressione di opinioni politiche o essere percepito come tale” (p.to 52).

Nello specifico del diritto nazionale, come correttamente notato in ricorso, il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 7 nel definire gli atti di persecuzione, ai fini del riconoscimento del rifugio politico, comprende anche “e) azioni giudiziarie o sanzioni penali in conseguenza del rifiuto di prestare servizio militare in un conflitto, quando questo potrebbe comportare la commissione di crimini, reati o atti che rientrano nelle clausole di esclusione di cui all’art. 10, comma 2”.

Tal disposizione corrisponde all’art. 9, par. 2 lett. e) della direttiva 2004/83/CE, che è stata recentemente interpretata dalla Corte di giustizia nella sentenza del 26.2.2015 C-462/13, Shepherd c. Deutschland, secondo cui dette disposizioni “devono essere interpretate nel senso che esse riguardano tutto il personale militare, compreso il personale logistico e di sostegno; che esse comprendono la situazione in cui il servizio militare prestato comporterebbe di per sè, in un determinato conflitto, la commissione di crimini di guerra, includendo le situazioni in cui il richiedente lo status di rifugiato parteciperebbe solo indirettamente alla commissione di detti crimini in quanto, esercitando le sue funzioni, fornirebbe, con ragionevole plausibilità, un sostegno indispensabile alla preparazione o all’esecuzione degli stessi; che esse non riguardano esclusivamente le situazioni in cui è accertato che sono stati già commessi crimini di guerra o le situazioni che potrebbero rientrare nella sfera di competenza della Corte penale internazionale, ma anche quelle in cui il richiedente lo status di rifugiato può dimostrare che esiste un’alta probabilità che siffatti crimini siano commessi”. Orbene, il caso di specie rientra nella fattispecie delineata dalla Corte di giustizia, in quanto il conflitto in cui il ricorrente rischia concretamente di essere arruolato – e per il quale è stato ricercato ai fini dell’arruolamento, come è incontroverso in atti – è già caratterizzato da svariati crimini di guerra e contro l’umanità, tali da legittimare sia il rifiuto di prestare il servizio militare, sia il riconoscimento della protezione internazionale in conseguenza di esso. Nel suo ultimo Rapporto 2015-2016, Amnesty International riferisce che entrambe le parti in conflitto in Ucraina “hanno commesso crimini di guerra, tra cui tortura e altri maltrattamenti dei prigionieri”, riportando una serie di episodi, sia perpetrati dai separatisti del Donbass che dall’esercito ucraino o dalle forze paramilitari che lo coadiuvano, come il gruppo di estrema destra Pravyi Sektor. Una ricerca condotta dall’International Partnership for Human Rights dall’ottobre 2014 all’ottobre 2015, pubblicata a fine 2015, conferma che entrambe le parti hanno perpetrato crimini di guerra e crimini contro l’umanità, presentando il Rapporto alla Corte penale internazionale, ai sensi dell’art. 15 dello Statuto di Roma (per l’intero Rapporto: http://iphronline.org/new-report-fighting-impunity-in-eastern-ukraine-20151007.html). Nel marzo 2015 Human Rights Watch ha pubblicato un Rapporto sull’uso delle munizioni a grappolo (cluster) in Ucraina, da parte di entrambi i contendenti, affermando che costituiscono un crimine di guerra e che “nessuna delle due parti dovrebbe usare queste armi ampiamente vietate; colpiscono una vasta area, mettendo in pericolo i civili nelle vicinanze, e le munizioni inesplose rappresentano a lungo un rischio per i civili.” Le temibili bombe cluster, infatti, sono vietate dalla Convenzione di Oslo del 2008, ratificata dall’Italia con L. n. 95 del 2011. Un altro Rapporto di Amnesty international del maggio 2015, Breaking bodies torture and summary killings in eastern Ukraine, riporta testimonianze di torture, maltrattamenti di sospettati di militanza nell’una o nell’altra parte in confitto, esecuzioni sommarie, posti in essere da entrambe le parti in conflitto (vedasi https://www.amnesty.org/en/documents/eur50/). L’associazione Lettera 43 già nel maggio 2014 riportava la notizia di fosse comuni nel Donbass, non è chiaro ad opera di quale parte. Un recente Rapporto dell’ONU sulla situazione in Ucraina nel periodo agosto/novembre 2015 segnala violazioni dei diritti umani sia da parte dei separatisti del Donbas che delle forze militari ucraine (“7. Gli sforzi del governo ucraino per salvaguardare l’integrità territoriale dell’Ucraina e ristabilire la legge e l’ordine nelle zone di conflitto hanno continuato ad essere accompagnate da accuse di sparizioni forzate, arbitrarie e detenzione in incommunicado, così come torture e maltrattamenti di persone sospettate di attentati contro l’integrità territoriale o di terrorismo o ritenute sostenitrici della Repubblica di Donetsk e della Repubblica di Luhansk. Elementi del servizio di sicurezza dell’Ucraina sembrano godere di un alto grado di impunità, con rare indagini sulle accuse che li riguardano” (nel testo originale: “7. Efforts of the Government of Ukraine to safeguard the territorial integrity of Ukraine and restore law and order in the conflict zone continued to be accompanied by allegations of enforced disappearances, arbitrary and incommunicado detention as well as torture and illtreatment of people suspected of trespassing against territorial integrity or terrorism or believed to be supporters of the Donetsk peoplès republic and Luhansk peoplès republic. Elements of the Security Service of Ukraine appear to enjoy a high degree of impunity, with rare investigations into allegations involving them”). Da tutto ciò deriva, quindi, la persistente violazione dei diritti umani e la commissione di crimini di guerra in Ucraina, che legittimano la decisione del ricorrente di sottrarsi al fondato timore di essere arruolato e inviato nelle zone di guerra. Legittimo è, infatti, il rifiuto di partecipare alle operazioni militari se questo possa comportare anche il solo rischio di commissione di crimini di guerra o di gravi violazioni dei diritti umani, D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 7, lett. e), e la Corte di giustizia ha precisato, nella citata causa C-472/13, che l’art. 9, par. 2 lett. e) della Direttiva “non riguarda soltanto la situazione in cui il richiedente sarebbe personalmente indotto a commettere siffatti crimini” (p.to 36) ma anche chi “sarebbe assegnato ad un’unità logistica o di sostegno” (p.to 37);

a fronte di tal contesto va poi valutata specificamente anche la condizione di obiettore di coscienza del ricorrente, già accennata. La legislazione ucraina contempla l’obiezione di coscienza in caso di conflitto ma per i soli motivi religiosi e per gli appartenenti alle religioni registrate in Ucraina. L’Home Office inglese, nel Country Information and Guidance. Ukraine: Military Service riporta che “2.5.2. La legge prevede l’obiezione di coscienza e il servizio alternativo per motivi religiosi per i membri di organizzazioni religiose registrate in Ucraina. L’obiezione di coscienza non è consentita per altri motivi” (nel testo originale “2.5.2. The law provides for conscientious objection and alternative service on religious grounds for members of religious organizations registered in Ukraine. Conscientious objection is not available on any other grounds”). Nel Rapporto UNHCR del settembre 2015, Considerazioni in materia di protezione internazionale relative agli sviluppi in Ucraina – Aggiornamento III, si afferma che “36. Per i membri di organizzazioni religiose registrate in Ucraina, la normativa ucraina in materia di coscrizione regolare prevede l’obiezione di coscienza e il servizio alternativo per motivi religiosi, soggetto a possibili limitazioni in periodi di emergenza civile o militare. Non vi è tuttavia alcuna chiara disposizione relativa alle modalità del servizio alternativo per le persone chiamate alla leva nel corso della mobilitazione di emergenza, con il rischio di arruolamento contrario al credo religioso di una persona. Secondo le fonti, l’evocazione di motivi religiosi da parte degli obiettori di coscienza in occasione delle ondate di mobilitazione di emergenza nel contesto del conflitto in corso viene spesso ignorata dagli uffici di coscrizione”. Lo stesso UNHCR, che nell’Aggiornamento del settembre 2015 (quanto alla situazione nel Paese), espressamente esclude che l’Ucraina possa essere considerata “Paese terzo sicuro”, sia in riferimento all’origine dei richiedenti asilo che come paese nel quale possano essere rinviati (cfr. doc. 34, punti 52/55). In esso viene descritta una situazione estremamente grave non solo nelle Regioni del Donbas ma anche nel resto del Paese con riguardo agli sfollati interni, che ammontano a poco meno di 1,5 milioni, spesso gravemente discriminati nell’esercizio dei diritti sociali di base;

– dunque, tornando al punto, nemmeno l’appartenenza religiosa garantisce l’esclusione dal servizio militare in Ucraina;

– quanto poi alla punizione per la renitenza alla leva o la diserzione, si evidenzia che l’UNHCR, nel rilevarne l’aumento nel 2015 per svariati fattori “tra i quali l’obiezione a prendere parte ad una guerra civile in cui sono stati segnalati crimini di guerra contro i prigionieri commessi da entrambe le parti e dove è probabile che vengano uccisi dei connazionali”, testimonia che “il Governo ha intensificato i procedimenti penali nei confronti di coloro che sono sospettati di renitenza alla leva e alla mobilitazione, e vi sono segnalazioni riguardanti l’uso di misure coercitive in alcune aree. Vi sono altresì segnalazioni riguardanti la fuga di uomini dalle ANCG attraverso la Federazione russa o cercando di evitare i checkpoint ufficiali alla frontiera per paura di essere mobilitati.” (p. 34). Venendo poi alle previsioni dell’ordinamento del paese di eventuale rimpatrio, osserva la Corte come la renitenza alla leva sia punita dagli artt. 335,336 e 337 c.p. Ucraino (il testo in www.refworld.org/docid/4c4573142.html) con una pena da 2 a 5 anni ma, come si è visto, la diserzione può oggi comportare la fucilazione e comunque pene oggettivamente sproporzionate ed eccessive che, nel caso di specie, esporrebbero il ricorrente al fondato rischio di gravissimi danni. In particolare, il codice penale ucraino, all’art. 408, prevede quanto alla diserzione una pena che va da 2 a 5 anni di reclusione. Le aggravanti dell’uso di armi e del commettere il fatto insieme ad altri portano la pena da 5 a 10 anni di reclusione. Se i fatti sopra previsti sono commessi sotto il regime della legge marziale o nel corso di una battaglia, la pena va da 5 a 12 anni di reclusione. Per la renitenza alla leva, poi, l’art. 409 c.p. ucraino prevede ancora: “l’azione di sottrarsi al servizio militare attraverso l’auto-infortunio, la simulazione, la produzione di documenti falsi o altro artificio è punibile con una pena fino a 2 anni di servizio in un battaglione disciplinare o la reclusione per un periodo equivalente.” In un articolo del 6 febbraio 2016, reperibile su https://www.rt.com/news/331557-ukraine-stealth-military-draft/ si legge che, da quando due anni fa è iniziato il conflitto in Donbass, ben 26.800 uomini ucraini sono sottoposti ad azione giudiziaria per aver evitato il servizio militare. Quanto al testo di dette disposizioni, se ne riporta l’articolato come reperito in lingua inglese: “Article 408. Desertion 1. Desertion, that is the absence from a military unit or piace of duty without leave for the purpose of avoiding the military service, or failure to report for duty upon appointment or reassignment, after a detached service, vacation or treatment in a medical facility for the same purpose, – shall be punishable by imprisonment for a term of two to five years. 2. Desertion with weapons or of a group of persons upon their prior conspiracy, – shall be punishable by imprisonment for a term of five to ten years. 3. Any such act as provided for by paragraph 1 or 2 of this Article, if committed in state of martial law or in a battle, -shall be punishable by imprisonment for a term of five to twelve years. Article 409. Evasion of military service by way of self-maiming or otherwise 1. Evasion of military service by a military serviceman by way of self-maiming or malingering, or forgery of documents, or any other deceit, – shall be punishable by custody in a penal battalion for a term up to two years, or imprisonment for the same term. 2. Refusal to comply with the duties of military service, – shall be punishable by imprisonment for a term of two to five years. 3. Any such acts as provided for by paragraph 1 or 2, if committed in state of martial law or in a battle, – shall be punishable by imprisonment for a term of five to ten years.);

– nel caso che ci occupa, il ricorrente è in età da leva obbligatoria e non appartiene a nessuna delle categorie escluse dal servizio nè alle minoranze religiose per cui è prevista ed effettivamente garantita l’obiezione di coscienza in caso di conflitto;

– sussiste quindi la ragionevole e concreta possibilità, evidenziata anche dal ricevimento della c.d. “cartolina” o per meglio dire della ricerca operata a suo carico dell’esercito, della quale vi è prova in atti, ai fini della notifica dell’invito a presentarsi per le formalità preliminari al reclutamento, che in caso di rientro in Ucraina il ricorrente venga inviato a prestare il proprio servizio militare e che, tenuto conto di tutte le circostanze sopra esposte, sia plausibile che egli possa essere coinvolto, seppur anche solo indirettamente, anche nella commissione di crimini di guerra di cui l’esercito ucraino si è macchiato e continua tuttora a macchiarsi nei confronti dei cosiddetti separatisti, di prigionieri e della popolazione civile;

– in tal drammatico contesto, il rifiuto a prestare il servizio militare sarebbe il solo mezzo per il ricorrente per evitare la partecipazione a tale conflitto e il suo rifiuto verrebbe punito, in base al già citato art. 409 c.p. ucraino quantomeno con la reclusione da 1 a 5 anni;

– quanto al diritto nazionale qui applicabile, la Corte osserva anche come in base al disposto del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 7, comma 2, lett. e) (art. 9, paragrafo 2, lett. e) della direttiva 2004/83) la suddetta sanzione penale costituisca evidentemente atto di persecuzione: e ciò a prescindere dal fatto che la durata della pena non sia in sè sproporzionata;

– per le sopra esposte considerazioni appare quindi fondato il diritto del ricorrente al riconoscimento dello status di rifugiato in virtù dell’art. 9, comma 2, lett. e) delle direttive 2004/83/CE e 2011/95/UE integralmente riprodotti dalla Legge Italiana di attuazione, D.Lgs. n. 251 del 2007 all’art. 7, lett. e), per cui gli atti di persecuzione rilevanti ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato possono, tra l’altro, assumere la forma di “azioni giudiziarie o sanzioni penali in conseguenza al rifiuto di prestare servizio militare in un conflitto, quando questo comporterebbe la commissione di crimini, reati o atti che rientrano nelle clausole di esclusione di cui all’art. 1, comma 2”;

– ora e comunque, poi, come ha recentemente chiarito la Corte di Giustizia con la sentenza 26 febbraio 2015 nella causa C-472/13, ai fini dell’applicabilità dell’art. 9, comma 2, lett. e) della direttiva 2004/83/CE non è necessario che nel conflitto in cui il richiedente asilo rifiuti di prestare il servizio militare sia stata accertata la commissione di crimini di guerra in modo sistematico o riguardi situazioni di competenza della Corte Penale Internazionale, ma che in tale conflitto, con un giudizio di ragionevole plausibilità, possa ritenersi verosimile la commissione di crimini di guerra. Afferma la Corte che: “la valutazione dei fatti spettante alla autorità nazionali, sotto il controllo del Giudice, per qualificare la situazione di servizio controversa, deve basarsi su un insieme di indizi tale da stabilire, tenuto conto di tutte le circostanze di cui trattasi, in particolare di quelle relative agli elementi pertinenti riguardanti il paese di origine al momento dell’adozione della decisione della domanda, lo status individuale e la situazione personale del richiedente, che la situazione del servizio rende plausibile la commissione dei crimini di guerra asseriti”;

– venendo alle considerazioni di sintesi, quindi, il motivo della persecuzione può essere ravvisato nell’appartenenza del ricorrente al gruppo sociale dei renitenti alla leva in quanto obiettori di coscienza: sulla possibilità di considerare i renitenti alla leva come gruppo sociale si vedano i punti da 56 a 58 delle Linee guida in materia di protezione internazionale n. 10 dell’UNHCR;

– invero, la renitenza alla leva del ricorrente è anche espressione di un’opinione politica contraria alle scelte del governo ucraino e anche tale motivo di persecuzione è ravvisabile nel caso di specie;

– riguardo alla situazione in Ucraina, oltre alle numerose le fonti già richiamate, ve ne sono altre, che parlano (per giunta) di un intensificarsi della crisi, tra le quali il già richiamato Rapporto dell’ONU sulla situazione in Ucraina nel periodo agosto/novembre 2015, il Rapporto OSCE del 20 febbraio 2016, che testimonia di numerose violazioni del cessate il fuoco, ed il Rapporto 2016 di Human Rights Watch che ribadisce le gravi violazioni e i crimini di guerra commessi da ambo le parti in conflitto;

– è noto in particolare che gli accordi di Minsk non risultano rispettati, tanto che l’OCSE ha denunciato nella giornata del 12 aprile

2015 scorso ben 1.166 esplosioni (sito OCSE e http://iljournal.today/esteri/in-ucraina-e-ancora-in-corso-la-tregua/) e che in data 7 settembre 2019 si è concluso tra le parti uno scambio di prigionieri, che costituisce notoriamente e chiaramente atto tipico degli scenari di conflitto armato (https://www.repubblica.it/esteri/2019/09/07/news/russia ucraina priqionieri kiev mosca scambio marinai-235418772);

appare plausibile, quindi, alla luce di tutte le considerazioni sopra riportate, la commissione di crimini di guerra in caso di prestazione da parte del ricorrente del servizio richiesto;

– ricorrano quindi tutti i presupposti di legge per il riconoscimento dello status di rifugiato a favore del ricorrente, diversamente da quanto erroneamente ritenuto dal giudice dell’appello; è infatti chiaramente fondato il timore di costui di essere arruolato, ed inviato al fronte nella guerra in corso in Ucraina, nonostante la sua opposizione all’uso delle armi, rischiando pene gravi e sproporzionate in caso di espresso rifiuto all’arruolamento, per evitare il quale è fuggito dall’Ucraina;

– la sentenza va quindi cassata con rinvio alla Corte territoriale per nuovo esame, nel rispetto dei principi sopra indicati.

P.Q.M.

accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Milano in diversa composizione, che statuirà anche quanto alle spese del presente giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 24 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 19 novembre 2019

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