Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 30026 del 29/12/2011

Cassazione civile sez. I, 29/12/2011, (ud. 11/10/2011, dep. 29/12/2011), n.30026

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VITRONE Ugo – Presidente –

Dott. FORTE Fabrizio – Consigliere –

Dott. DOGLIOTTI Massimo – Consigliere –

Dott. RAGONESI Vittorio – Consigliere –

Dott. SCALDAFERRI Andrea – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

R.A. (c.f. (OMISSIS)), elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA MONTE ZEBIO 32, presso l’avvocato TAMBURRO

LUCIANO, che lo rappresenta e difende, giusta procura a margine del

ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore,

domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA

GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di PERUGIA, depositato il

15/07/2008;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

11/10/2011 dal Consigliere Dott. ANDREA SCALDAFERRI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

VELARDI Maurizio che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

IN FATTO E IN DIRITTO

1. R.A. con ricorso alla Corte d’appello di Perugia proponeva, ai sensi della L. n. 89 del 2001, domanda di equa riparazione per violazione dell’art. 6 della C.E.D.U. a causa della irragionevole durata del giudizio civile per accertamento di rapporto di lavoro subordinato, instaurato dinanzi al Giudice del Lavoro di Roma nel febbraio 2002, definito in primo grado con sentenza di accoglimento emessa (con lettura del dispositivo) nel novembre 2004, la cui motivazione era stata depositata nel gennaio 2007. 2.

La Corte d’appello, ritenuta ragionevole nella specie una durata complessiva di quattro anni (in considerazione della complessità dell’istruttoria, con l’esame di numerosi testimoni e l’espletamento di una c.t.u.), liquidava in favore del ricorrente, a titolo di danno non patrimoniale per la ulteriore durata irragionevole di circa un anno del giudizio presupposto, la somma di Euro 1.500,00 oltre interessi legali e metà delle spese del procedimento, disattendendo la richiesta di indennizzo del danno patrimoniale.

3. Avverso tale decreto, depositato il 15 luglio 2008, R. A. ha proposto ricorso a questa Corte, basato su nove motivi.

Resiste il Ministero dell’economia e finanze con controricorso.

4. Il collegio ha disposto farsi luogo a motivazione semplificata.

5. Con i primi tre motivi, si censura la determinazione in circa quattro anni della durata ragionevole del procedimento presupposto.

Viene denunciata, con il primo ed il secondo, la violazione e/o falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2 (per la omessa considerazione del ritardo di ventisei mesi nel deposito della motivazione – da ascrivere esclusivamente al comportamento dell’organo giudicante e non alla complessità della istruttoria – e della natura giuslavoristica della controversia), con il terzo il vizio di motivazione.

5.1 Tali doglianze sono prive di fondamento. La determinazione della durata ragionevole del giudizio presupposto, onde verificare la sussistenza della violazione del diritto azionato, costituisce oggetto di una valutazione che il giudice di merito deve compiere caso per caso tenendo presenti gli elementi indicati dalla L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2 anche alla luce dei criteri di determinazione normalmente applicati dalla Corte europea e da questa Corte. Criteri alla luce dei quali deve ritenersi che la durata ragionevole di tali procedimenti non debba normalmente superare i tre anni, e che da tale parametro tendenziale è consentito discostarsi, purchè in misura ragionevole, in relazione alla complessità del caso (cfr. ex multis Cass. n. 2207/2010; n. 24399/2009). E, in effetti, nel caso in esame la Corte territoriale, richiamati tali criteri, ha ritenuto ragionevole uno scostamento di circa un anno in più rispetto alla durata standard tenendo conto che la normale esigenza di una rapida definizione delle cause di lavoro doveva nella specie contemperarsi con la complessità dell’accertamento richiesto, che aveva comportato una complessa istruttoria e cospicui interventi difensivi. Una motivazione siffatta si sottrae alle critiche del ricorrente, non solo sotto il profilo della conformità ai criteri di determinazione sopra ricordati, ma anche sotto il profilo della congruità e logicità, considerando anche che il giudice di merito ha rettamente compiuto una valutazione sintetica e complessiva della durata della causa nel suo intero svolgimento (cfr. ex multis Cass. n. 661/2011; n. 23506/2008).

6. Con il quarto motivo si censura la liquidazione dell’indennizzo in Euro 1500,00 per anno di ritardo rispetto alla durata ragionevole, deducendo la violazione e/o falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, art. 6, par. 1 e art. 41 C.E.D.U., sull’assunto che la natura della controversia e l’entità della posta in gioco imponesse la concessione di un bonus ulteriore rispetto al range di Euro 1000,00 – 1500,00. Osserva il Collegio come tale maggiorazione – peraltro non risultante neppure richiesta in sede di merito dal ricorrente- non vada riconosciuta automaticamente in ogni caso di controversia di lavoro o previdenziale, bensì costituisca oggetto di una facoltà del giudice di merito, della quale egli può avvalersi nel caso in cui ritenga che il pregiudizio per la durata irragionevole del giudizio sia stato maggiore di quello che si verifica nella generalità dei casi. E, nella specie, la Corte territoriale, pur avendo liquidato somma corrispondente all’importo più alto tra quelli normalmente liquidati dalle Corti, non ha ritenuto di avvalersi della suddetta facoltà di maggiorazione, apprezzando legittimamente la notevole incidenza sull’ansia per la decisione attribuibile nella specie al fatto che il ricorrente abbia ottenuto in tempi contenuti (due anni e sette mesi) una decisione favorevole che, sulla base del dispositivo letto in udienza, gli ha consentito di azionare tempestivamente in via esecutiva il credito riconosciutogli in via capitale di circa Euro 350.000, salvi interessi e rivalutazione non specificamente calcolati in dispositivo (per ottenere i quali ha dovuto attendere il deposito della motivazione). Una valutazione di merito, questa, che, sottratta in quanto tale al controllo in questa sede di legittimità, si mostra conforme ai criteri elaborati in sede europea, sì che il rigetto della censura di violazione di legge si impone.

7. Privi di fondamento sono anche i motivi dal quinto all’ottavo, con i quali il ricorrente censura il rigetto della richiesta di indennizzo per danno patrimoniale.

7.1 In particolare, con il quinto ed il sesto denuncia vizio motivazionale e violazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, art. 6, par. 1, artt. 13 e 41 C.E.D.U. (sotto il profilo della violazione del diritto di proprietà) in ordine al mancato riconoscimento del danno da lucro cessante per l’impossibilità – dalla Corte disconosciuta – di agire esecutivamente per la rivalutazione e gli interessi sulla sola base del dispositivo, con conseguente ritardo nella percezione di tali somme. Va tuttavia osservato che la possibilità, o non, di porre in esecuzione la sentenza di condanna sulla base del solo dispositivo anche per rivalutazione e interessi sulla somma dovuta non appare comunque elemento decisivo ai fini della individuazione nella specie di un pregiudizio patrimoniale da lucro cessante quale conseguenza del ritardo nel deposito della motivazione della sentenza, avendo questa stabilito (cfr. pag. 2 ricorso) la decorrenza di rivalutazione ed interessi sulla somma dovuta “dalla maturazione al saldo”, e non risultando illustrata nel motivo (tantomeno nella sintesi riassuntiva) la ragione per la quale, nonostante tale statuizione, il ricorrente abbia subito il prospettato danno da svalutazione monetaria per il mancato godimento delle somme non eseguibili nelle more del deposito della motivazione.

7.2 Quanto alla violazione dell’art.112 c.p.c, denunciata nel settimo motivo, dalla motivazione del provvedimento impugnato si evince come la Corte territoriale abbia escluso la sussistenza di un nesso causale tra il ritardo nella definizione del giudizio, da un lato, e dall’altro la vendita della casa del ricorrente a processo appena iniziato “e tutte le altre pretese voci di danno: i canoni di locazione, gli oneri accessori…le spese per i finanziamenti per l’acquisto di autovetture ecc.”. La Corte, cioè, non ha, fraintendendo la causa petendi, omesso di esaminare la prospettazione in ricorso di danni per il pagamento di canoni di locazione di altre abitazioni e di interessi per finanziamenti per l’acquisto di altre autovetture (dopo la vendita, sempre poco dopo l’inizio del processo, della propria auto da parte del ricorrente) , ma ha ritenuto che tali spese, in quanto rese necessarie dalla vendita di casa e macchina pacificamente dovuta alle difficoltà economiche nelle quali il ricorrente stesso si è trovato dopo il licenziamento, non fossero in collegamento causale con la durata del processo, bensì con la vendita stessa. Non vi è dunque alcuna omissione di pronuncia.

7.3 Nè merita accoglimento la denuncia, di cui all’ottavo motivo, della violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. in relazione all’art. 2729 cod. civ., per avere la Corte escluso un nesso causale tra la mancata quantificazione immediata di rivalutazione ed interessi sulla somma dovuta e il mancato esercizio da parte del ricorrente della prelazione per l’acquisto della casa condotta in locazione. La Corte, invero, ha escluso la sussistenza di alcuna prova (anche indiretta) che il ricorrente intendesse esercitare la prelazione e che non l’avesse fatto per la indisponibilità delle somme anzidette, rilevando peraltro come egli, al momento in cui doveva essere esercitata la prelazione, avesse già avuto il riconoscimento della sorte di circa 350.000 euro. Qui la critica del ricorrente non individua una errata ricognizione delle norme citate, bensì prospetta genericamente una pretesa “pluralità di elementi gravi, precisi e concordanti” che sarebbero stati ignorati dalla Corte, in tal modo in effetti sollecitando una diversa valutazione di merito non consentita in questa sede.

8. Analoghe considerazioni valgono per il nono motivo, con il quale il ricorrente denuncia la violazione della L. n. 89 del 2001, art. 2 in relazione all’art. 2059 cod. civ., per avere la Corte di merito esaminato solo, quanto al danno non patrimoniale, il profilo dell’ansia o patema d’animo per il ritardo nella definizione del giudizio presupposto, così omettendo di valutare il danno sotto ulteriori profili dedotti, come il danno alla vita di relazione, alla salute, alla dignità personale, alla serenità, all’immagine anche professionale etc. Va al riguardo osservato come, a parte il danno alla salute che non risulta specificamente dedotto nè tantomeno dimostrato, gli altri pregiudizi indicati siano componenti del danno non patrimoniale considerato nel provvedimento impugnato, e non integrino – per il solo fatto che tale danno sia di regola riconosciuto quale conseguenza della durata irragionevole del giudizio – ulteriori danni autonomamente risarcibili. Il rigetto del ricorso si impone dunque, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio di legittimità, che si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio di legittimità, in Euro 2.500,00 per onorari, oltre le spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della prima sezione civile della Corte Suprema di cassazione, il 11 ottobre 2011.

Depositato in Cancelleria il 29 dicembre 2011

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