Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 30019 del 19/11/2019

Cassazione civile sez. I, 19/11/2019, (ud. 24/09/2019, dep. 19/11/2019), n.30019

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –

Dott. DI STEFANO Pierluigi – Consigliere –

Dott. CATALLOZZI Paolo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 30013/2018 R.G. proposto da:

E.K., rappresentato e difeso dall’avv. Marco Giorgetti, con

domicilio eletto presso il suo studio, sito in Ancona, corso

Mazzini, 100;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore;

– intimato –

avverso la sentenza della Corte di appello di Ancona, n. 1287/2018,

depositata il 9 luglio 2018;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 24 settembre

2019 dal Consigliere Dott. Paolo Catallozzi.

Fatto

RILEVATO

CHE:

– E.K. propone ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello di Ancona, depositata il 9 luglio 2018, di reiezione dell’appello dal medesimo proposto avverso l’ordinanza del giudice di primo grado che aveva respinto il suo ricorso avverso la decisione della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di (OMISSIS), sezione di Ancona;

– dall’esame della sentenza impugnata emerge che il ricorrente aveva chiesto il riconoscimento sia dello status di rifugiato, sia della protezione sussidiaria, sia della protezione umanitaria, allegando di aver lasciato il suo paese di origine (Nigeria) a causa delle aggressioni e delle minacce di morte di poste in essere nei suoi confronti da parte di esponenti di una confraternita a seguito del suo rifiuto di adesione alla stessa, culminate con l’omicidio dei suoi genitori;

– il giudice di appello ha disatteso il gravame interposto evidenziando che non sussistevano le condizioni per il riconoscimento dei diritti vantati;

– il ricorso è affidato a sei motivi;

– in relazione ad esso non spiega alcuna attività difensiva il Ministero dell’Interno.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

– con il primo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, la “violazione e falsa applicazione della legge”, nonchè il “vizio di motivazione”, per aver la sentenza impugnata ritenuto non credibili le sue dichiarazioni sulla base di una motivazione apparente;

– nella parte in cui lamenta la violazione di legge il motivo è inammissibile per la totale mancanza dell’esplicazione della censura e dell’indicazione del parametro normativo che si assume violato, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 4;

– inammissibile è, altresì, il vizio motivazionale, prospettato in relazione all’insufficiente motivazione della sentenza, avuto riguardo sia censurabilità della motivazione in sede di legittimità solo nel caso di una sua totale assenza, contraddittorietà o inintelligibilità (cfr. Cass., sez. un., 7 aprile 2014, n. 8053), sia alla mancata specifica indicazione del fatto controverso non esaminato;

sul punto, può, comunque, evidenziarsi che Corte di appello, richiamando le conclusioni del giudice di primo grado, ha evidenziato che la narrazione della ricorrente non appariva sufficientemente credibili e lineare ed era priva di effettivi riscontri e che gli episodi narrati apparivano riferibili a racconti stereotipati e generici, tali da impedire anche un vaglio sommario che preliminare di fondatezza;

– in particolare, ha osservato che “appare inverosimile che gli autori dell’uccisione dei propri genitori avessero un potere tale da consentire loro di impedire la ricorrente di rivolgersi alla polizia locale onde ottenere una qualche forma di protezione”, ritenendo verosimile, invece, “che il caso di rientri ipotesi contrasti tra privati o altrimenti nel normale alveo dell’emigrazione economica”;

– una siffatta motivazione rende percepibile il fondamento della decisione in ordine alla non attendibilità delle dichiarazioni del ricorrente, perchè recante argomentazioni obiettivamente idonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento;

– con il secondo motivo deduce, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, la violazione del D.Lgs. n. 19 novembre 2007, n. 251, artt. 3, 5 e 7 e D.Lgs. n. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 27, comma 1 bis, nonchè “il vizio di motivazione”, per aver il giudice di appello omesso di avvalersi dei suoi poteri istruttori, anche ufficiosi, al fine di acquisire le informazioni in ordine alla effettività della tutela nel paese di origine con riguardo alle persecuzioni perpetrate dalle numerose sette confraternite che ivi imperversavano;

– quanto alla censura per violazione di legge, il motivo è infondato;

– in materia di protezione internazionale, il richiedente è tenuto ad allegare i fatti costitutivi del diritto alla protezione richiesta, e, ove non impossibilitato, a fornirne la prova, trovando deroga il principio dispositivo, soltanto a fronte di un’esaustiva allegazione, attraverso l’esercizio del dovere di cooperazione istruttoria e di quello di tenere per veri i fatti che lo stesso richiedente non è in grado di provare, soltanto qualora egli, oltre ad essersi attivato tempestivamente alla proposizione della domanda e ad aver compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziarla, superi positivamente il vaglio di credibilità soggettiva condotto alla stregua dei criteri indicati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5 (cfr. Cass., ord., 12 giugno 2019, n. 15794);

– tale impostazione, riferita alla protezione internazionale nel suo complesso, si attaglia come tale tanto alla domanda volta al conseguimento dello status di rifugiato, quanto a quella diretta ad ottenere la protezione sussidiaria in ciascuna delle tre ipotesi contemplate dall’art. 14 cit. D.Lgs.;

– ne consegue che, anche in relazione alla protezione sussidiaria, ritenuti non credibili i fatti allegati a sostegno della domanda, non è necessario far luogo a un approfondimento istruttorio ulteriore, attivando il dovere di cooperazione istruttoria officiosa incombente sul giudice, dal momento che tale dovere non scatta laddove sia stato proprio il richiedente a declinare, con una versione dei fatti inaffidabile o inattendibile, la volontà di cooperare, quantomeno in relazione all’allegazione affidabile degli stessi (così, Cass., ord., 20 dicembre 2018, n. 33096);

– la Corte di appello, nel ritenere non necessario attivare la cooperazione istruttoria in presenza di dichiarazioni ritenute non credibili, ha fatto corretta applicazione dei richiamati principi di diritto;

– inammissibile è, invece, il prospettato vizio di motivazione, in assenza di una specifica indicazione dell’oggetto della censura;

– in ragione delle argomentazioni esposte con riferimento alla violazione di legge illustrata con il secondo motivo di ricorso va dichiarato infondato anche il terzo motivo, con cui il ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione delle medesime disposizioni di legge in relazione alla mancata attivazione della cooperazione istruttoria in ordine all’allegato pericolo di tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo Paese di origine;

– con il quarto motivo il ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, nonchè per vizio di motivazione, in relazione all’omessa attivazione della cooperazione istruttoria benchè riscontri fattuali della situazione nel paese di origine fossero desumibili da segnalazioni operate da rapporti internazionali e siti accreditati;

– il motivo è inammissibile per difetto di specificità, non avendo la parte riprodotto tali documenti, nè essendo invincibile il contenuto degli stessi dall’esame della sentenza;

– del pari inammissibile il vizio motivazionale per omessa indicazione del fatto controverso;

– con il quinto motivo il ricorrente critica la sentenza della Corte di appello per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), perchè non avrebbe attentamente valutato, quanto meno ai fini della concessione della protezione sussidiaria, l’oggettiva situazione dei diritti umani in Nigeria, paese in cui imperversa il terrorismo della persecuzione religiosa;

– il motivo è inammissibile, in quanto si risolve in una contestazione della valutazione delle risultanze probatorie operata dal giudice di appello, il quale ha escluso che la situazione ivi riscontrata sia “assimilabile ad altri paesi caratterizzati da ben diverse realtà”, ritenendo inverosimile che richiedente possa essere sottoposto a torture o trattamenti inumani in caso di rientro Nigeria;

– una siffatta censura non può trovare ingresso in questa sede in quanto la Corte di cassazione non è mai giudice del fatto in senso sostanziale e non può riesaminare e valutare autonomamente il merito della causa (cfr. Cass. 28 novembre 2014, n. 25332; Cass., ord., 22 settembre 2014, n. 19959);

– con l’ultimo motivo di ricorso il ricorrente fa valere il vizio di motivazione, in relazione agli artt. 3 e 19 Cost., per aver la sentenza impugnata omesso di prendere in considerazione la circostanza relativa alla sua professione della fede cristiana e della sua esposizione alla persecuzione in ragione di tale suo credo religioso;

– il motivo è infondato;

– dall’esame della sentenza si evince che il giudice di appello ha dato atto della circostanza allegata dal richiedente in ordine alla religione professata e alle aggressioni subite a seguito del suo rifiuto a far parte di una confraternita protestante altro credo religioso;

– ha, dunque, preso in considerazione tale circostanza, ritenendo, tuttavia, la stessa, all’esito della valutazione complessiva del materiale istruttorio, del tutta priva di riscontro;

– il ricorso, pertanto, non può essere accolto;

– nulla va disposto in ordine al governo delle spese del giudizio, in assenza di attività difensiva della parte vittoriosa;

– non sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 bis, stante l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, sempre che non risulti revocato dal giudice competente l’ammissione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto che non sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis stante l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, sempre che non risulti revocato dal giudice competente l’ammissione.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 24 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 19 novembre 2019

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