Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 30017 del 19/11/2019

Cassazione civile sez. I, 19/11/2019, (ud. 24/09/2019, dep. 19/11/2019), n.30017

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –

Dott. DI STEFANO Pierluigi – Consigliere –

Dott. CATALLOZZI Paolo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 30007/2018 R.G. proposto da:

A.H., rappresentato e difeso dall’avv. Antonella Macaluso,

con domicilio eletto presso il suo studio, sito in Caltanissetta,

via Sardegna, 17;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore;

– intimato –

avverso la sentenza della Corte di appello di Caltanissetta, n.

407/2018, depositata il 2 luglio 2018;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 24 settembre

2019 dal Consigliere Dott. Paolo Catallozzi.

Fatto

RILEVATO

CHE:

– A.H. propone ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello di Caltanissetta, depositata il 2 luglio 2018, di reiezione dell’appello dal medesimo proposto avverso l’ordinanza del giudice di primo grado che aveva respinto il suo ricorso avverso la decisione della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Siracusa;

– dall’esame della sentenza impugnata emerge che il ricorrente aveva chiesto il riconoscimento dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria o della protezione umanitaria, allegando il timore di un pregiudizio per la sua incolumità, in ragione del fatto di essere stato testimone dell’omicidio commesso dal sindaco della sua città e di essere arrestato dalla polizia per un crimine non commesso, perchè falsamente accusato dal sindaco medesimo;

– il giudice di appello ha disatteso il gravame interposto evidenziando che non sussistevano delle condizioni per il riconoscimento della protezione internazionale richiesta;

– il ricorso è affidato a tre motivi;

– in relazione ad esso non spiega alcuna attività difensiva il Ministero dell’Interno.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

– con il primo motivo del ricorso il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1, Convenzione di Ginevra, e D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 205, art. 2, comma 1, lett. e), 5, 7 e 8, per aver il giudice di appello escluso la ricorrenza dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato, benchè sussistesse, nei suoi confronti, una forma di persecuzione per motivi di opinione politica;

– evidenzia, in proposito, che dalle dichiarazioni rese in sede di audizione innanzi alla Commissione era emerso che aveva lasciato il proprio paese perchè perseguitato dal sindaco, “uomo ricco, prepotente e potente”;

– il motivo è inammissibile, in quanto muove dall’assunto della sussistenza di una forma di persecuzione, nei confronti del ricorrente, per motivi di opinione politica, laddove la sentenza di appello ha espressamente escluso che ricorresse una siffatta circostanza;

– orbene, il vizio di violazione o falsa applicazione di legge non può che essere formulato se non assumendo l’accertamento di fatto, così come operato dal giudice del merito, in guisa di termine obbligato, indefettibile e non modificabile del sillogismo tipico del paradigma dell’operazione giuridica di sussunzione, là dove, diversamente (ossia ponendo in discussione detto accertamento), si verrebbe a trasmodare nella revisione della quaestio facti e, dunque, ad esercitarsi poteri di cognizione esclusivamente riservati al giudice del merito (cfr. Cass., ord., 13 marzo 2018, n. 6035; Cass., 23 settembre 2016, n. 18715);

– sotto altro aspetto, il motivo si risolve, in parte, nella censura della valutazione degli elementi probatori operata dal giudice di appello, in ordine alla idoneità degli stessi a dimostrare la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento in capo ricorrente dello status di rifugiato;

– una siffatta censura non può trovare ingresso in questa sede in quanto la Corte di cassazione non è mai giudice del fatto in senso sostanziale e non può riesaminare e valutare autonomamente il merito della causa (cfr. Cass. 28 novembre 2014, n. 25332; Cass., ord., 22 settembre 2014, n. 19959);

– con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14 nonchè l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, per aver il giudice di appello escluso la sussistenza delle condizioni richieste per il riconoscimento della protezione sussidiaria, non considerando che la regione di provenienza era caratterizzata da un situazioni di violenza indiscriminata, oltre che di assoluta instabilità, tali da esporlo al rischio di subire trattamenti inumani e degradanti;

– il motivo è inammissibile;

– la Corte di appello ha espressamente escluso che la regione di provenienza del ricorrente ((OMISSIS)) fosse caratterizzata da condizioni tali da riconoscere la protezione sussidiaria, evidenziando che i documenti ufficiali internazionali riferivano l’esistenza di tensioni alla sola parte meridionale del territorio del (OMISSIS) e che tali tensioni, benchè preoccupanti, non presentavano caratteri tali da generare una situazione di violenza indiscriminata idonea a creare “una minaccia grave individuale alla vita o alla persona di un civile”, come, invece, richiesto dal richiamato D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14 al fine del riconoscimento delle protezione sussidiaria;

– anche in questo caso, dunque, la censura muove da un erroneo presupposto di fatto – espressamente disconosciuto dalla sentenza impugnata – e si risolve, per il resto, nella sostanziale contestazione della valutazione delle risultanze probatorie effettuate dal giudice di merito, inammissibile in questa sede;

– del pari inammissibile è la doglianza afferente il prospettato vizio motivazionale, avuto riguardo alla mancata puntuale indicazione della circostanza di fatto che la Corte di appello avrebbe omesso di esaminare;

– con l’ultimo motivo di appello il ricorrente critica la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 2, art. 5, comma 6 e art. 19, comma 1, nonchè per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, nella parte in cui non ha riconosciuto il diritto all’ottenimento di un permesso di soggiorno per motivi umanitari;

– evidenzia, sul punto, da un lato, che aveva intrapreso in Italia un effettivo percorso di integrazione sociale e, dall’altro, che il suo paese versava in una situazione di generale insicurezza ed era sede di ripetute violazioni dei diritti umani;

– il motivo è infondato;

– orbene, deve rammentarsi che il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari presuppone l’esistenza di situazioni non tipizzate di vulnerabilità dello straniero, risultanti da obblighi internazionali o costituzionali, conseguenti al rischio del richiedente di essere immesso, in esito al rimpatrio, in un contesto sociale, politico ed ambientale idoneo a costituire una significativa ed effettiva compromissione dei suoi diritti fondamentali (così, Cass., ord., 22 febbraio 2019, n. 5358);

– la condizione di “vulnerabilità” del richiedente deve essere verificata caso per caso, all’esito di una valutazione individuale della sua vita privata in Italia, comparata con la situazione personale vissuta prima della partenza ed alla quale si troverebbe esposto in caso di rimpatrio (cfr. Cass. 15 maggio 2019, n. 13079; Cass., ord., 3 aprile 2019, n. 9304);

– con particolare riferimento al parametro dell’inserimento sociale e lavorativo dello straniero in Italia, questo può assumere rilevanza non quale fattore esclusivo, bensì quale circostanza che può concorrere a determinare una situazione di vulnerabilità personale da tutelare mediante il riconoscimento di un titolo di soggiorno (cfr. Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455);

– infatti, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza;

– orbene, il giudice di appello, nell’escludere la sussistenza di siffatta condizione di vulnerabilità in ragione della inidoneità del contratto di lavoro concluso dal ricorrente ad integrare un significativo radicamento e integrazione nel tessuto sociale nazionale, attesa la sua breve durata (circa tre mesi), dell’esame della situazione oggettiva del paese di origine e delle “insondabili” condizioni personali che avevano determinato la ragione della partenza, ha fatto corretta applicazione dei suesposti principi di diritto;

– il ricorso, pertanto, non può essere accolto;

– nulla va disposto in ordine al governo delle spese del giudizio, in assenza di attività difensiva della parte vittoriosa;

– non sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-bis, stante l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, sempre che non risulti revocato dal giudice competente l’ammissione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto che non sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis stante l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, sempre che non risulti revocato dal giudice competente l’ammissione.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 24 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 19 novembre 2019

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