Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29988 del 20/11/2018

Cassazione civile sez. I, 20/11/2018, (ud. 03/10/2018, dep. 20/11/2018), n.29988

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TIRELLI Francesco – Presidente –

Dott. BISOGNI Giacinto – Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – rel. Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 29053/2014 proposto da:

P.M., già titolare della ditta Pulizie J.,

elettivamente domiciliata in Roma, Viale Parioli n. 117, presso lo

studio dell’avvocato Comerci Sebastiano, rappresentata e difesa

dagli avvocati Angiolini Vittorio, Nisi Loris Maria, giusta procura

in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

R.R.M., elettivamente domiciliato in Roma, Via Sistina n.

121, presso lo studio dell’avvocato Panuccio Alberto, che lo

rappresenta e difende, giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

contro

D.A., elettivamente domiciliato in Roma, Via Cosseria n.

2, presso lo studio del Dott. Placidi Alfredo, rappresentato e

difeso dall’avvocato Daloiso Raffaele, giusta procura a margine del

controricorso;

– controricorrente –

contro

Comune di Reggio Calabria, in persona del Sindaco pro tempore,

elettivamente domiciliato in Roma, Via dei Gracchi n. 130, presso lo

studio dell’avvocato Neri Elisa, rappresentato e difeso

dall’avvocato Neri Giuseppe, giusta procura a margine del

controricorso;

– controricorrente –

contro

F.G., F.V., G.F.,

L.A.P., M.F., N.R.O.A.,

Pe.Ma.Co., R.P.M.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 379/2013 della CORTE D’APPELLO di REGGIO

CALABRIA, depositata il 14/10/2013;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

03/10/2018 dal Cons. Dott. LAMORGESE ANTONIO PIETRO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1.- La Corte d’appello di Reggio Calabria, con sentenza del 14 ottobre 2013, ha rigettato il gravame di P.M., titolare dell’impresa “Pulizie J.”, avverso l’impugnata sentenza che aveva rigettato la sua domanda di condanna del Comune di Reggio Calabria al pagamento del corrispettivo del servizio di pulizia effettuato negli uffici giudiziari dal 31 gennaio o 31 marzo 1991 al mese di marzo 1994, essendo scaduto il contratto stipulato il 12 maggio 1988 per la durata di un anno con decorrenza dal 3 ottobre 1988 (prorogato il 5 ottobre 1989 e poi con Delib. Giunta 31 dicembre 1990, confermativa del servizio fino al 31 gennaio o 31 marzo 1991) ed essendo quindi la pretesa sfornita di valido titolo contrattuale per iscritto; la Corte ha confermato l’inammissibilità della domanda di arricchimento senza causa per mancanza del requisito di sussidiarietà, essendo esperibile azione nei confronti dei singoli funzionari, a norma del D.L. 6 marzo 1989, n. 66, art. 23, conv. in L. n. 144 del 1989 e l’infondatezza della domanda nei confronti dei funzionari o sindaci chiamati in causa ( L.A., G.F., R.G., F.I., D.A., M.F.) per mancata prova del ruolo di costoro nella vicenda e del loro consenso alle prestazioni rese dall’impresa nel periodo successivo alla scadenza del contratto (prorogato); ha confermato il rigetto della domanda surrogatoria proposta nei confronti del Comune di Reggio Calabria, difettando a monte il presupposto della responsabilità dei funzionari e amministratori citati in giudizio a norma dell’art. 23 citato; ha dichiarato inammissibili per difetto di interesse le domande di indebito proposte dagli amministratori costituiti verso il Comune.

2.- Avverso questa sentenza P.M. ha proposto ricorso per cassazione; hanno resistito R.R.M. e D.A., i quali hanno presentato memorie, e il Comune di Reggio Calabria. La ricorrente ha presentato una memoria oltre il termine di cui all’art. 380 bis 1 c.p.c., di cui non si deve tenere conto.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.- Con il primo motivo la ricorrente ha denunciato violazione e falsa applicazione di norme di diritto, nullità del procedimento e omesso esame di fatti decisivi, per avere escluso la configurabilità della proroga tacita del rapporto contrattuale, in mancanza di un divieto legale all’epoca vigente, introdotto solo successivamente dalla L. 24 dicembre 1993, n. 537, art. 6, comma 2, modificato dalla L. 23 dicembre 1994, n. 724, art. 44.

1.1.- Il motivo è infondato.

La disciplina dettata dal citato art. 6, comma 2, in tema di divieto, a pena di nullità, di rinnovo tacito dei contratti delle p.a. per la fornitura di beni e servizi, è applicabile anche ai contratti stipulati antecedentemente all’entrata in vigore della normativa stessa (Cons. di Stato, sez. 6, n. 2434/2001; sez. 5, n. 1508/1998). Il suddetto divieto, infatti, era connaturato al sistema che prevedeva (e prevede) la forma scritta ad substantiam dei contratti con la p.a., in base al quale la volontà di obbligarsi della P.A. non può dedursi, per implicito, da singoli atti, dovendo, viceversa, manifestarsi nelle forme, necessariamente rigide, richieste dalla legge, e ciò anche in caso di rinnovo o proroga dell’originaria convenzione negoziale, con la conseguenza che l’istituto della rinnovazione tacita del contratto non è compatibile con le regole dettate in tema di forma degli atti negoziali degli enti pubblici (Cass. n. 22994/2015, 9246/2000). Su questo sistema ha inciso il D.L. 2 marzo 1989, n. 66, art. 23, conv. in L. 24 aprile 1989, n. 144, che ha introdotto una procedura rigorosa che subordina l’effettuazione di qualsiasi spesa alla deliberazione autorizzativa adottata nelle forme di legge, divenuta o dichiarata esecutiva, e all’impegno contabile registrato nel pertinente capitolo di bilancio di previsione, ed ha previsto una responsabilità personale e diretta del funzionario o dell’amministratore verso il privato fornitore per gli impegni assunti al di fuori o in violazione della procedura stessa. La suddetta disposizione trova applicazione “alle prestazioni e ai servizi resi in favore di amministrazioni provinciali, comuni e comunità montane successivamente alla sua entrata in vigore” (Cass. n. 15688/2008), quindi anche a quelle cui si riferisce la pretesa creditoria avanzata dalla Pr. con riferimento al periodo da gennaio o marzo 1991 a marzo 1994.

2.- Con il secondo motivo è denunciata nullità del procedimento e omesso esame di fatti decisivi, per avere erroneamente ritenuto che il contratto non fosse prorogabile, mentre doveva applicarsi il principio secondo cui la proroga tacita è consentita se prevista da apposita clausola negoziale, come nella specie, in cui una clausola la prevedeva fino a un massimo di cinque anni.

2.1.- Il motivo è infondato.

L’orientamento cui si riferisce il ricorrente è quello secondo cui della L. n. 537 del 1993, art. 6, vieta in modo diretto ed assoluto solo l’effetto del rinnovo che comporta una nuova negoziazione, ossia un rinnovato esercizio dell’autonomia negoziale, ma non impedisce l’inserimento nel contratto di clausole che prevedano la prorogabilità del contratto, al solo fine di spostare in avanti il termine di scadenza del rapporto (Cons. di Stato, sez. 5, n. 9302/2003). Tuttavia, nella specie, una tal clausola prevedente una proroga tacita e automatica non è stata inserita nel contratto, essendo prevista piuttosto la rinnovazione condizionata, però, all’esercizio di un atto di autonomia negoziale (“…sarà rinnovabile…”), non riconoscibile nella delibera del 31 dicembre 1990 che ha prorogato il contratto solo fino al 31 gennaio o 31 marzo 1991, non incidendo quindi sul credito azionato in giudizio dalla P. che è relativo al periodo successivo.

3.- Con il terzo motivo è denunciata omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione e nullità della sentenza impugnata, per avere dato rilievo al fatto che l’atto di sottomissione non era stato prodotto in giudizio, senza però ammettere l’ordine di esibizione richiesto dall’attrice e senza valorizzare elementi documentali che dimostravano che il Comune era consapevole dell’avvenuta proroga del contratto alla scadenza.

Con il quarto motivo è denunciata nullità della sentenza impugnata, violazione e falsa applicazione dell’art. 1366 c.c. e vizi motivazionali, per avere ritenuto insussistente la proroga del contratto sulla base di argomenti formali che trascuravano il canone della buona fede, intesa sia come obbligo dell’amministrazione di comportarsi correttamente, sia come legittimo affidamento dell’impresa nella prosecuzione del rapporto contrattuale.

3.1.- Entrambi i motivi, da esaminare congiuntamente, ripropongono la tesi della proroga o rinnovazione tacita del contratto alla scadenza, sulla base di argomenti di contorno – attinenti, tra l’altro, a un dato non rilevante in tema di forma scritta ad substantiam, qual è il comportamento delle parti – che non inficiano la ratio decidendi della sentenza impugnata.

4.- Con il quinto motivo è denunciata violazione e falsa applicazione degli artt. 2041 e 2042 c.c., D.L. n. 66 del 1989, art. 23,D.L. 12 gennaio 1991, n. 6, art. 12 bis, commi 2 e 3 e vizio motivazionale, per avere ritenuto inammissibile la domanda di arricchimento senza causa per mancanza del requisito di sussidiarietà, in ragione del fatto che sarebbe esperibile l’azione diretta nei confronti dei funzionari e degli amministratori che avevano disposto l’effettuazione del servizio (in mancanza della delibera autorizzativa nelle forme previste dalla legge e dell’apposito impegno contabile), senza però considerare nè che detta azione non era esperibile nei confronti di R.G. e F.I., già deceduti, non essendo l’azione esperibile nei confronti dei loro eredi, nè che il citato art. 23 non era applicabile alle forniture di beni e servizi precedenti alla sua entrata in vigore.

4.1.- Il motivo è da rigettare.

Inammissibile è il primo profilo in cui è articolato il motivo, avendo ad oggetto una questione nuova di cui la sentenza impugnata non parla, senza ulteriori precisazioni in ordine a se e quando essa sia stata prospettata nel giudizio di merito; inoltre, la questione è priva di decisività, non avendo i giudici di merito accertato la responsabilità di R. e F. per le prestazioni rese dall’impresa.

La ricorrente, oltre a ribadire l’infondata tesi dell’asserita inapplicabilità del citato art. 23 alle forniture di beni e servizi precedenti all’entrata in vigore del D.L. n. 66 del 1989, imputa anche alla Corte di merito di avere trascurato il D.L. 12 gennaio 1991, n. 6, art. 12 bis, commi 2 e 3, conv. in L. 15 marzo 1991, n. 80, che per le prestazioni in corso consentiva il riconoscimento dei debiti fuori bilancio, effetto che sarebbe da riconoscere alla delibera del 31 dicembre 1990, la quale corrisponderebbe alla “deliberazione autorizzativa nelle forme previste dalla legge” di cui dell’art. 23, comma 3.

Anche questo ulteriore profilo è infondato. Premesso che il riconoscimento “a posteriori” dei debiti fuori bilancio “può avvenire solo espressamente, con apposita deliberazione dell’organo competente, e non può essere desunto anche dal mero comportamento tenuto dagli organi rappresentativi, insufficiente ad esprimere un apprezzamento di carattere generale in ordine alla conciliabilità dei relativi oneri con gli indirizzi di fondo della gestione economico-finanziaria dell’ente e con le scelte amministrative compiute” (v. Cass. n. 24860/2015, con riferimento al D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, art. 194), nella specie è decisiva la considerazione che l’indicata delibera del dicembre 1990 autorizzava l’impresa della P. a proseguire nel rapporto solo fino al 31 marzo 1991, mentre il credito azionato in giudizio riguarda il periodo successivo, quindi ad essa non può attribuirsi alcun rilievo sanante.

5.- Il sesto motivo, con il quale è denunciato vizio motivazionale, in ordine alla quantificazione del corrispettivo in favore dell’impresa per le prestazioni effettuate, è inammissibile, non contenendo alcuna censura rivolta a statuizioni o affermazioni contenute nella sentenza impugnata.

6.- Con il settimo e ottavo motivo è denunciato vizio motivazionale, in ordine alla posizione degli amministratori evocati in giudizio direttamente e, ad avviso della ricorrente, ingiustificatamente assolti: L.A. era stato sindaco da marzo 1990 a luglio 1992, cioè nel periodo in cui fu adottata la menzionata delibera del 31 dicembre 1990, con la quale il Comune aveva espresso l’intenzione di procedere ad un nuovo appalto mediante gara, poi non espletata, ciò dimostrando che egli era responsabile delle prestazioni eseguite dopo il 31 marzo 1991; D.A., commissario prefettizio da agosto 1992 a marzo 1993, doveva ritenersi che fosse a conoscenza delle prestazioni non autorizzate eseguite dall’impresa; R.G., sindaco da marzo a novembre 1993, era stato destinatario di una nota dell’Ufficio tecnico del Comune di Reggio Calabria del 10 luglio 1993 che esponeva dettagliatamente la posizione dell’impresa della P.; M.F., assessore ai lavori pubblici dal 1993 al 2001, aveva sottoscritto una nota del 14 gennaio 1994, con la quale aveva chiesto all’impresa di eseguire la pulizia dei locali in nuovi uffici; R. e M., nonchè F.I., sindaco dal 1993 al 2001, dovevano considerarsi responsabili anche per non avere indetto la gara per l’affidamento (o la regolarizzazione) del servizio reso dalla P..

6.1.- Entrambi i motivi sono infondati.

Si è detto che il legislatore, con il D.L. n. 66 del 1993, art. 23, inciso sulla disciplina del rapporto tra gli enti locali ivi indicati e i loro funzionari o amministratori nonchè tra costoro e i privati contraenti, delineando una sorta di frattura ope legis del rapporto organico tra l’amministrazione e detti soggetti ed escludendo la riferibilità alla prima delle iniziative adottate dai secondi al di fuori dello schema procedimentale previsto: ciò rende l’azione di ingiustificato arricchimento, che per definizione è sussidiaria (art. 2042 c.c.), inammissibile nel caso in cui il danneggiato, per farsi indennizzare il pregiudizio subito, possa esercitare un’altra azione contro l’arricchito (o anche persona diversa), “secondo una valutazione in astratto e prescindendo quindi dal suo esito” (Cass. n. 11038/2018, n. 5396/2014; S.U. n. 28042/2008).

Nella specie, l’impresa poteva reclamare il corrispettivo nei confronti degli amministratori o funzionari responsabili dell’acquisizione del bene o del servizio, nonostante il difetto di deliberazione o contabilizzazione dell’impegno di spesa (Cass. n. 18567/2015, n. 1391 e 5396/2014 cit., n. 24478/2013, n. 10636/2012), ma detta azione ha avuto in concreto esito infruttuoso, essendo stata rivolta nei confronti di soggetti giudicati non responsabili delle prestazioni rese dall’impresa. Questa valutazione è criticata dalla ricorrente con argomenti diretti a dimostrare che i soggetti chiamati in causa avrebbero comunque “consentito” o “reso possibili” le prestazioni, secondo la terminologia usata dal citato art. 23, comma 4, in virtù della qualifica rivestita durante il periodo da gennaio 1991 a marzo 1994 (commissario prefettizio il D., assessore ai lavori pubblici il M., sindaci gli altri).

La Corte di merito ha accertato però che nessuno dei funzionari e amministratori chiamati in giudizio abbia tenuto comportamenti cui ricondurre causalmente le prestazioni rese dall’impresa, stante la mancata prova del contrario da parte dell’attrice, non essendo sufficiente il fatto di avere rivestito (talora per pochi mesi) un ruolo di responsabilità all’interno del Comune, quando non sia seguito in concreto alcun idoneo atto impegnativo nei confronti dei terzi. Questa interpretazione della norma – la quale ha introdotto una forma di responsabilità pur sempre correlata a comportamenti causalmente rilevanti e produttivi di effetti nella sfera dei terzi – è conforme a diritto e ad essa la Corte è pervenuta all’esito di un apprezzamento di fatto che è censurabile in sede di legittimità nei ristretti confini del nuovo art. 360 c.p.c., n. 5, nella specie non valicati.

7.- Il nono motivo è inammissibile, avendo ad oggetto le domande di indebito proposte dagli amministratori chiamati in causa contro il Comune di Reggio Calabria, che la sentenza impugnata ha dichiarato assorbite dal rigetto delle domande dell’attrice contro il Comune.

8.- Con il decimo motivo è denunciata la liquidazione delle spese (pari a Euro 5370,00 per ciascuna controparte costituita) in misura sproporzionata e ingiustificata, a norma del D.M. n. 140 del 2012, che, all’art. 1, comma 4, prevede per gli incarichi svolti da più avvocati un unico compenso aumentato fino al doppio.

8.1.- Premesso che l’indicata disposizione del D.M. 140 del 2012, riguarda gli incarichi collegiali nei quali una parte è difesa in giudizio da più difensori e non il caso in cui più parti siano difese da difensori diversi, il motivo è inammissibile per difetto di specificità, perchè non consente di comprendere in che modo la sentenza impugnata sarebbe incorsa nella violazione denuncita, avendo la Corte d’appello dichiarato di avere tenuto conto della natura del procedimento e di tutti gli altri criteri di cui all’art. 4 del D.M. citato.

9.- In conclusione, il ricorso è rigettato. Le spese sono compensate, in considerazione della complessità e parziale novità delle questioni esaminate.

E’ dovuto il raddoppio del contributo a carico della ricorrente come per legge.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; compensa le spese. E’ dovuto il raddoppio del contributo.

Così deciso in Roma, il 3 ottobre 2018.

Depositato in Cancelleria il 20 novembre 2018

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