Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29986 del 19/11/2019

Cassazione civile sez. trib., 19/11/2019, (ud. 27/06/2019, dep. 19/11/2019), n.29986

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANZON Enrico – Presidente –

Dott. NONNO Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – rel. Consigliere –

Dott. ANTEZZA Fabio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 13824/2014 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI, in persona del Direttore pro

tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello

Stato, con domicilio eletto in Roma, via Dei Portoghesi, n. 12,

presso l’Avvocatura Generale dello Stato;

– ricorrente –

Contro

CAMOMILLA s.p.a., in persona del suo legale rappresentante pro

tempore rappresentata e difesa giusta delega in atti dall’avvocato

Maria Antonelli presso la quale è elettivamente domiciliata in

Roma, piazza Gondar n. 22;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della

Lombardia n. 174/07/13 depositata il 19/11/2013, non notificata;

Udita la relazione della causa svolta nell’adunanza camerale del

27/06/2019 dal consigliere Roberto Succio.

Fatto

RILEVATO

che:

– con la sentenza di cui sopra il giudice di seconde cure ha accolto l’appello della contribuente conseguentemente annullando gli atti impugnati, avvisi di accertamento per Iva all’importazione e dazi doganali e atto di contestazione delle relative sanzioni riferiti a operazioni doganali poste in essere nel corso del 2009;

– avverso la sentenza di seconde cure propone ricorso per cassazione l’Amministrazione doganale con atto affidato a due motivi; la società contribuente resiste con controricorso, presenta ricorso incidentale affidato a due motivi e ha presentato memoria ex art. 378 c.p.c. illustrativa delle proprie difese.

Diritto

CONSIDERATO

che:

– il primo motivo di ricorso denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 32 par. 1 lett. c) del CDC, degli artt. 157 par. 2 del DAC; degli artt. 160 e 143 DAC nonchè dell’art. 2729 e dei principi sull’onere della prova, in relazione tutti all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la CTR erroneamente ritenuto sussistente non un potere di controllo del licenziante sul licenziatario, ma un mero potere di controllo sulla qualità dei prodotti;

– il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 43 del 1973, art. 303, commi 1 e 2 e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 70, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la CTR accolto l’appello del contribuente relativamente alle sanzioni, come conseguenza dell’annullamento dell’avviso di rettifica;

– i motivi possono esaminarsi congiuntamente, stante la loro connessione logica;

– rileva preliminarmente la Corte che la ricorrente non ha contestato la ricostruzione dei fatti offerta in sentenza; quel che ha contestato è l’identificazione delle nozioni giuridiche (soprattutto di quelle di “condizioni di vendita” e di “legame” fra le parti), che delineano la portata precettiva delle disposizioni unionali applicate; poichè l’inquadramento dei fatti accertati dal giudice di merito nello schema legale corrispondente si risolve nell’applicazione di norme giuridiche e può per conseguenza formare oggetto di verifica e riscontro in sede di legittimità sia per quel che concerne la descrizione del modello tipico della fattispecie legale, sia per quanto riguarda la rilevanza qualificante degli elementi di fatto così come accertati, sia, infine, con riferimento alla individuazione delle implicazioni, sul piano degli effetti, conseguenti alla sussistenza della fattispecie concreta nel paradigma normativo (in termini, Cass., ord. 5 dicembre 2017, n. 29111);

– l’Agenzia ha quindi criticato la sussunzione dei fatti come accertati nelle disposizioni di riferimento, in quanto sostiene che la fattispecie concreta è stata giudicata sotto una norma che a essa non si addice; sicchè correttamente ha denunciato la violazione e falsa applicazione delle norme di seguito indicate;

– in diritto, va premesso che l’art. 29 del codice doganale comunitario (istituito dal Reg. (CEE) n. 2913/92 del Consiglio del 12 ottobre 1992) stabilisce che il valore in dogana delle merci importate è, di regola, il valore di transazione, ossia il prezzo effettivamente pagato o da pagare per le merci quando siano vendute per l’esportazione a destinazione del territorio doganale dell’Unione, fatte salve, però, le rettifiche da effettuare conformemente all’art. 32 di tale codice (cfr. Corte Giust. 21 gennaio 2016, Stretinskis; Corte giust. 12 dicembre 2013, Christodoulou). Esso deve comunque riflettere il valore economico reale della merce importata e, quindi, considerarne tutti i fattori economicamente rilevanti (in termini, da ultimo, Corte giust. 20 dicembre 2017, Hamamatsu). Il menzionato art. 29, nell’individuare gli elementi che devono essere aggiunti al prezzo effettivamente pagato per determinare il valore in dogana, attribuisce rilevanza, tra gli altri, alla lett. c), ai “corrispettivi e i diritti di licenza relativi alle merci da valutare, che il compratore è tenuto a pagare, direttamente o indirettamente, come condizione della vendita delle merci da valutare, nella misura in cui detti corrispettivi e diritti di licenza non sono stati inclusi nel prezzo effettivamente pagato o da pagare”. Il Reg. (CEE) n. 2454/93, art. 157, par. 1, (che fissa talune disposizioni d’applicazione del regolamento che istituisce il codice doganale comunitario), chiarisce che per “corrispettivi e diritti di licenza”, ai fini dell’art. 32, par. 1, lett. c), del codice doganale comunitario, deve intendersi, in particolare, quanto versato per l’utilizzo di diritti inerenti (anche) alla vendita per l’esportazione della merce importata in oggetto, in particolare marchi commerciali o di fabbrica e modelli depositati, e all’impiego e alla rivendita di dette merci importate, in particolare diritti d’autore e procedimenti di produzione incorporati in modo inscindibile in tali merci. Il medesimo articolo, successivo par. 2, precisa che al prezzo effettivamente pagato o da pagare devono essere aggiunti i corrispettivi o diritti di licenza soltanto nel caso in cui tale pagamento, da un lato, si riferisca alle merci oggetto della valutazione e, dall’altro, costituisca una condizione di vendita di tali merci. Così ricostruito il quadro normativo deve concludersi, in coerenza con quanto affermato nella sentenza della Corte di Giustizia del 9 marzo 2017, GE Healthcare, che la rettifica prevista dall’art. 32, par. 1, lett. c), del codice doganale comunitario si applica quando ricorrono le seguenti tre condizioni cumulative: in primo luogo, che i corrispettivi o i diritti di licenza non siano stati inclusi nel prezzo effettivamente pagato o da pagare; in secondo luogo, che essi si riferiscano alle merci da valutare; e, in terzo luogo, che l’acquirente sia tenuto a versare tali corrispettivi o diritti di licenza come condizione della vendita delle merci da valutare. Da ciò consegue che i corrispettivi o i diritti di licenza assumono rilevanza quale base imponibile e vanno considerati come “relativi alle merci da valutare” anche se non determinati al momento della conclusione del contratto di licenza o dell’insorgenza dell’obbligazione doganale. Con particolare riferimento alla terza condizione, ossia che l’acquirente sia tenuto a versare tali corrispettivi o diritti di licenza come condizione della vendita delle merci da valutare, la richiamata pronuncia della Corte di Giustizia ha affermato che la nozione “condizione di vendita” sta ad indicare la situazione in cui, nell’ambito dei rapporti contrattuali tra il venditore – o la persona ad esso legata – e l’acquirente, l’assolvimento del corrispettivo o del diritto di licenza rivesta un’importanza tale per il venditore che, in difetto, quest’ultimo non sarebbe disposto a vendere, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare. Ha, quindi, aggiunto, che qualora, come nel caso in esame, il beneficiario delle royalties sia soggetto diversi dal venditore, occorre “verificare se la persona legata al venditore eserciti un controllo, sul medesimo o sull’acquirente, tale da poter garantire che l’importazione delle merci, assoggettate al suo diritto di licenza, sia subordinata al versamento, a suo favore, del corrispettivo o del diritto di licenza ad esse afferente”. Può, dunque, ritenersi che i corrispettivi e i diritti di licenza (cd. royalties) dovuti dall’importatore in relazione alle merci importate costituisce una “condizione della vendita”, ai fini della rilevanza degli stessi quale componente del valore in dogana di cui all’art. 32 del codice doganale comunitario e, conseguentemente, dell’applicazione del potere di rettifica dell’ufficio, non solo quando l’operazione è subordinata espressamente, nelle clausole dell’accordo di licenza, all’assolvimento di tali pagamenti, ma anche quando tale rapporto di subordinazione si evince dal tenore delle clausole contrattuali che vincolano i diversi soggetti che possono intervenire nell’operazione medesima, quando, come nel caso in esame, il venditore è soggetto diverso dall’avente diritto alla percezione delle royalties. Con riferimento alla nozione di controllo utilizzata nella richiamata pronuncia della Corte di Giustizia, si rileva che il Reg. (CEE) n. 2454/93, allegato 23, stabilisce, con riferimento all’art. 143, par. 1, lett. e), che “si considera che una persona ne controlli un’altra quando la prima sia in grado di esercitare, di diritto o di fatto, un potere di costrizione o di orientamento sulla seconda”. Il controllo è dunque inteso in un’accezione ampia: da un lato, sul piano della fattispecie, perchè è assunto per la sua rilevanza anche di fatto; dall’altro, su quello degli effetti, perchè ci si contenta dell’effetto di “orientamento” del soggetto controllato. Quest’accezione ampia e necessariamente casistica, d’altronde, ben si coordina con la nozione economica del valore doganale, la quale si traduce nel rilievo, anch’esso di fatto, degli elementi che definiscono il valore economico del bene. Utili indicatori possono essere tratti dall’esemplificazione presente nel Commento n. 11 del Comitato del codice doganale (Sezione del valore in dogana) contenuto nel documento (OMISSIS), nella versione italiana del 2007, sull’applicazione dell’art. 32, par. 1, lett. c), del codice doganale (ormai parte dell’acquis communautaire con valore di soft law, come riconosciuto anche dalla richiamata pronuncia della Corte di Giustizia secondo cui le conclusioni del comitato doganale “sebbene non giuridicamente cogenti, costituiscono tuttavia strumenti importanti per garantire un’uniforme applicazione del codice doganale da parte delle autorità doganali degli Stati membri e possono, quindi, essere di per sè considerate strumenti validi per l’interpretazione di detto codice”). Ebbene, il documento in questione annovera, tra gli elementi utili per determinare la presenza di un controllo, tra gli altri, i seguenti: il licenziante sceglie il produttore e lo impone all’acquirente; il licenziante esercita, direttamente o indirettamente, un controllo di fatto sulla produzione (per quanto attiene ai centri di produzione e/o ai metodi di produzione); il licenziante esercita, direttamente o indirettamente, un controllo di fatto sulla logistica e sulla consegna delle merci all’acquirente; il licenziante decide a chi il produttore può vendere le merci o impone delle restrizioni per quanto concerne i potenziali acquirenti; il licenziante fissa le condizioni del prezzo al quale il produttore/venditore vende le proprie merci o il prezzo al quale l’importatore/l’acquirente rivende le merci; il licenziante sceglie i metodi di produzione da utilizzare/fornisce dei modelli ecc.; il licenziante sceglie/limita i fornitori dei materiali/componenti; il licenziante limita le quantità che il produttore può produrre; il licenziante non autorizza l’acquirente a comprare direttamente dal produttore, ma attraverso il titolare del marchio (licenziante) che potrebbe agire anche come agente di acquisto dell’importatore; il produttore non è autorizzato a produrre prodotti concorrenti (privi di licenza) in assenza del consenso del licenziante; le merci fabbricate sono specifiche del licenziante (cioè nella loro concezione/nel loro design e con riguardo al marchio di fabbrica); le caratteristiche delle merci e la tecnologia utilizzata sono definite dal licenziante (in termini Cass. Sez. 5 Num. 8473 del 06/04/2018 e Cass. Sez. 5 Num. 14547 del 06/06/2018;

– nel caso che ci occupa, come si evince dalle pattuizioni contrattuale trascritte in ricorso, ai par. 5) e 13) ma anche al par. 4), si prevede non un ordinario controllo sulla qualità dei prodotti, ma un vero e proprio – come annotato in ricorso – “potere di veto” alla produzione; inoltre la scelta del produttore da parte della contribuente è condizionata all’approvazione da parte di Sanrio Global Consumer Products e ancora la ridetta licenziante ha il potere di controllare scritture e registri contabili della contribuente, anche in sede di accesso agli stabilimenti di produzione;

– quindi, sono presenti più di uno dei sopra indicati elementi che consentono di ritenere esistente la relazione di controllo, diversamente da quanto ritenuto dalla CTR che erroneamente e parzialmente interpretando le relazioni contrattuali di cui si è detto ha ritenuto esistente solo un potere di controllo della qualità, non un controllo sul produttore;

– in definitiva, quindi, nel caso in esame va applicato il Reg. n. 2454/93, art. 157, par. 2 e pertanto il motivo in parola va accolto in quanto la sentenza impugnata si pone al riguardo in contrasto con tale norma, così come ricostruita nella sua portata;

– alla luce della decisione sul primo motivo di ricorso principale, il secondo è assorbito;

– con il primo motivo di ricorso incidentale si censura la sentenza impugnata per violazione del D.Lgs. n. 212 del 2000, art. 7, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per non avere la CTR, erroneamente, implicitamente rigettato l’eccezione pregiudiziale relativa all’omessa indicazione del responsabile del procedimento;

– il motivo è infondato;

– come è noto, l’indicazione del responsabile del procedimento in forza di giurisprudenza oramai costante di questa Corte (Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 27856 del 31/10/2018) è causa di invalidità unicamente per le cartelle di pagamento – non per gli avvisi di rettifica dell’accertamento – se riferita a ruoli consegnati agli agenti della riscossione in data successiva al 1 giugno 2008; in quel caso infatti il D.L. n. 248 del 2007, art. 36, comma 4 – ter, – convertito dalla L. n. 31 del 2008 – ha espressamente previsto tale sanzione solo in relazione alle cartelle, per l’appunto, quali atti della riscossione e non per atti appartenenti alla fase di cognizione, nella quale si collocano i provvedimenti qui impugnati; unicamente quindi agli attì di cui al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25 e riferite ai ruoli consegnati a decorrere dalla predetta data trova applicazione la riferita causa di invalidità;

– il secondo motivo di ricorso incidentale censura la sentenza impugnata per violazione del D.Lgs. n. 212 del 2000, art. 7 e del D.Lgs. n. 374 del 2000, art. 11, comma 5, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per assoluto difetto di motivazione dei provvedimenti impugnati in merito alle osservazioni al PVC presentate dalla società contribuente;

– il motivo è parimenti infondato;

– in primo luogo questa Corte ha stabilito, enunciando un principio applicabile anche ai tributi doganali, per i quali il procedimento di accertamento conosce a favore del contribuente una serie di modalità ulteriori e speciali di partecipazione a detta fase, sufficienti a garantirne le tutele, che (Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 8378 del 31/03/2017) in tema di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, è valido l’avviso di accertamento che non menzioni le osservazioni del contribuente ai sensi della L. n. 212 del 2000, ex art. 12, comma 7, atteso che, da un lato, la nullità consegue solo alle irregolarità per le quali sia espressamente prevista dalla legge oppure da cui derivi una lesione di specifici diritti o garanzie tale da impedire la produzione di ogni effetto e, dall’altro lato, l’Amministrazione ha l’obbligo di valutare tali osservazioni, ma non di esplicitare detta valutazione nell’atto impositivo;

– secondariamente, come si evince dagli atti e dalla sentenza impugnata, il contribuente si è ampiamente e valorosamente difeso nei gradi del merito; con ciò si è fornita in rebus dimostrazione del fatto che questi ha ben compreso le ragioni poste dall’Erario alla base della propria pretesa di maggiori dazi; conseguentemente la motivazione dei provvedimenti impugnati ha in concreto assolto alla propria funzione, che è esattamente quella di rendere comprensibili con chiarezza le ragioni della pretesa tributaria al contribuente perchè questi possa valutarne la fondatezza ed esser quindi in grado di articolarne l’impugnazione di fronte al giudice, cosa che è puntualmente accaduta, con conseguente deduzione e illustrazione di eccezioni e difese;

– pertanto, il ricorso incidentale è rigettato;

– la sentenza va dunque cassata limitatamente ai motivi accolti, con rinvio alla CTR anche per le spese;

– va dichiarata la sussistenza, quanto al ricorso incidentale, dei presupposti processuali per il c.d. “raddoppio” del contributo unificato, se dovuto.

P.Q.M.

accoglie il primo motivo di ricorso principale, dichiara assorbito il secondo motivo di ricorso principale; rigetta il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia in diversa composizione che statuirà anche quanto alle spese del presente giudizio.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari quello dovuto per il ricorso incidentale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 27 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 19 novembre 2019

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