Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29975 del 20/11/2018

Cassazione civile sez. VI, 20/11/2018, (ud. 09/10/2018, dep. 20/11/2018), n.29975

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – rel. Presidente –

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Consigliere –

Dott. SAMBITO Maria Giovanna C. – Consigliere –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 12180-2018 proposto da:

A.D., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR

presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e

difesa dall’avvocato SIMONA GIANNANGELI;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO (OMISSIS), in persona del Ministro pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e

difende ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 221/2018 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,

del 24/01/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 09/10/2018 dal Consigliere Relatore Dott. MASSIMO

FALABELLA:

dato atto che il Collegio ha autorizzato la redazione del

provvedimento in forma semplificata.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – Il Tribunale di L’Aquila respingeva il ricorso proposto da A.D., cittadina nigeriana, con cui era stato richiesto l’annullamento del provvedimento della Commissione per il riconoscimento della protezione internazionale di Ancona: tale provvedimento aveva negato che alla richiedente fosse riferibile lo status di rifugiata; aveva inoltre escluso che alla medesima A. potesse essere accordata la protezione sussidiaria o quella per motivi umanitari.

2. – Il gravame proposto avanti alla Corte di appello di L’Aquila veniva respinto con sentenza del 6 febbraio 2018.

3. – Contro la pronuncia della Corte distrettuale abruzzese A.D. ha proposto un ricorso per cassazione fondato su di un unico motivo. Resiste con controricorso il Ministero dell’interno.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – L’istante lamenta violazione o falsa applicazione di norme di diritto; in particolare denuncia la violazione di legge per la mancata applicazione degli artt. 1 e 2 della Convenzione di Ginevra e per il mancato riconoscimento della protezione sussidiaria ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, oltre che per la mancata applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3; contesta, altresì, la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6. Rileva che la Corte di appello non aveva apprezzato “l’onestà e la coerenza” delle proprie dichiarazioni e che dal proprio racconto si desumeva chiaramente che ella, in Nigeria, aveva corso un reale pericolo di vita, in quanto “esposta a pratiche di magia nera da parte del marito”, dal quale aveva avuto anche una figlia, che era stata costretta a lasciare; inoltre ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria non poteva essere trascurato che nel Paese di provenienza era presente una situazione di conflitto armato esteso, ormai, anche al Sud del Paese e tale da determinare per la popolazione residente una minaccia grave ed un rischio effettivo. Con riguardo alla protezione umanitaria, osservava, poi, che la disposizione di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, andava interpretata in senso estensivo fino a ricomprendervi le esigenze di tutela derivanti da particolari condizioni di vulnerabilità dei richiedenti, quali ad esempio la grave instabilità politica, gli episodi di violenza diffusa, l’insufficiente rispetto dei diritti umani: nella fattispecie, l’istante doveva considerarsi soggetto vulnerabile in considerazione della fede cristiana che professava, della condizione di espatriata e del suo essere donna. Deduce infine che a norma del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, non possa disporsi alcuna espulsione o respingimento verso uno Stato in cui lo straniero sia passibile di persecuzione per motivi di razza, sesso, lingua, cittadinanza, religione, opinioni politiche, di condizioni personali e sociali, ovvero in cui lo stesso possa rischiare di essere rinviato verso altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione.

2. – Il motivo è infondato.

La Corte di appello ha escluso che alla ricorrente potesse essere accordata la protezione internazionale in quanto la vicenda da essa riferita – incentrata sulla situazione conflittuale che era insorta col proprio compagno, scoperto a praticare la magia nera – aveva rilievo su un piano strettamente privato e, nella sostanza, non poteva ritenersi espressiva di una qualche forma di persecuzione. Va qui ricordato che il diritto di asilo è interamente attuato e regolato attraverso la previsione delle situazioni finali previste nei tre istituti costituiti dallo status di rifugiato, dalla protezione sussidiaria e dal diritto al rilascio di un permesso umanitario, ad opera della esaustiva normativa di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, adottato in attuazione della Dir. 2004/83/CE del Consiglio del 29 aprile 2004, e di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, (Cass. 26 giugno 2012, n. 10686). Giusta il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, comma 1, lett. e), per “rifugiato” deve poi intendersi il cittadino straniero il quale, per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica, si trova fuori dal territorio del Paese di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di tale Paese, oppure apolide che si trova fuori dal territorio nel quale aveva precedentemente la dimora abituale per le stesse ragioni succitate e non può o, a causa di siffatto timore, non vuole farvi ritorno. L’affermata esclusione della accessibilità dell’istante alla misura della protezione internazionale non merita dunque censura, giacchè si fonda su di una situazione non ricompresa nella previsione del cit. art. 2, comma 1, lett. e).

La pronuncia della Corte di merito appare immune da vizi anche nella parte in cui ha negato ricorressero le condizioni per la concessione della protezione sussidiaria. A fronte dell’invocato disposto del D.Lgs. n. 251 cit., art. 14, comma 1, lett. c) – secondo cui deve considerarsi “danno grave”, nell’accezione di cui all’art. 2, comma 1, lett. g), la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale – il giudice distrettuale ha infatti ben evidenziato, sulla base della documentazione acquisita al processo, che nella zona di provenienza dell’attuale ricorrente si registrasse solo la presenza di una criminalità comune aggressiva, non diversa da quella presente in moltissimi paesi. Pertanto, se pure con riferimento all’ipotesi indicata nell’art. 14 cit., lettera c), la situazione di violenza indiscriminata e di conflitto armato nel Paese di ritorno può giustificare la mancanza di un diretto coinvolgimento individuale del richiedente nella situazione di pericolo (Cass. 20 marzo 2014, n. 6503), è innegabile che l’accertamento di fatto del giudice del merito, che sfugge al sindacato di legittimità, abbia escluso, con particolare riguardo all’area interessata a un futuro rimpatrio, la sussistenza della detta situazione.

Quanto, infine, alla protezione umanitaria, la sentenza impugnata ha rilevato non essere state in concreto rappresentate, al di là dei timori manifestati, peculiari condizioni di vulnerabilità riferibili all’attuale ricorrente. La pronuncia del giudice del gravame, nella parte che qui interessa, non è stata efficacemente censurata, dal momento che la ricorrente non spiega quali particolari condizioni di esposizione al pericolo, diverse da quelle in precedenza esaminate, e ritenute insussistenti, avesse prospettato nella precorsa fase di merito; una tale indicazione, oltretutto, avrebbe dovuto associarsi alla denuncia del vizio di omesso esame di un fatto decisivo ex art. 360 c.p.c., n.5: vizio che, invece, non è stato dedotto. Come è del tutto evidente, poi, la ricorrente non può pretendere che si proceda, in questa sede, a una verifica della sussistenza delle situazioni da essa allegate col ricorso per cassazione: infatti, ciò equivarrebbe a investire la Corte di legittimità di uno scrutinio vertente su (nuovi) profili di fatto.

Tale rilievo, che incide sulla stessa ammissibilità della censura, esime da ogni ulteriore considerazione quanto alla rilevanza che possano oggi assumere, nella materia che interessa, le disposizioni introdotte col D.L. n. 113 del 2018. Pur potendosi infatti dibattere dell’immediata applicabilità delle modifiche introdotte col detto decreto, nel caso in esame viene in questione un profilo, quello della genericità delle deduzioni del ricorrente, che preclude in radice l’esame del motivo di censura, e che risulta pertanto assorbente, quale che sia l’ambito della protezione cui l’istante – a seguito del richiamato intervento legislativo – possa oggi ambire (ambito che, peraltro, in caso di operatività immediata della nuova disciplina al presente giudizio, risulterebbe più ristretto rispetto al passato).

3. – Al rigetto segue, secondo soccombenza, la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.

L’ammissione della ricorrente al gratuito patrocinio determina l’insussistenza dei presupposti per il versamento dell’importo previsto del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13 comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, stante la prenotazione a debito dipendente dall’ammissione al predetto beneficio (Cass. 22 marzo 2017, n. 7368).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.050,00, per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della 6a Sezione Civile, il 9 ottobre 2018.

Depositato in Cancelleria il 20 novembre 2018

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