Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29971 del 25/10/2021

Cassazione civile sez. I, 25/10/2021, (ud. 15/09/2021, dep. 25/10/2021), n.29971

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – Presidente –

Dott. FERRO Massimo – Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 29662-2020 proposto da:

O.B., rappresentata e difesa dall’avv. IVANA CALCOPIETRO, e

domiciliata presso la cancelleria della Corte di Cassazione;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore,

domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA

GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– resistente –

nonché contro

COMMISSIONE TERRITORIALE PER IL RICONOSCIMENTO DELLA PROTEZIONE

INTERNAZIONALE DI CROTONE;

– intimata –

avverso la sentenza n. 170/2020 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO,

depositata il 07/02/2020;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

15/09/2021 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con ordinanza del 14.1.2019 il Tribunale di Catanzaro rigettava il ricorso proposto da O.B. avverso il provvedimento con il quale la Commissione territoriale per la protezione internazionale competente aveva rigettato la sua domanda di riconoscimento della protezione, internazionale ed umanitaria.

Interponeva appello avverso la predetta decisione la O. e la Corte di Appello di Catanzaro, con la sentenza impugnata, n. 170/2020, rigettava il gravame.

Propone ricorso per la cassazione di detta decisione O.B., affidandosi a sei motivi.

Il Ministero dell’Interno, intimato, ha depositato atto di costituzione ai fini della partecipazione all’udienza.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, artt. 14 e 17, art. 111 Cost., art. 132 c.p.c. e art. 118 disp. att. c.p.c., nonché l’omesso esame di fatti decisivi, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, perché il giudice di merito avrebbe erroneamente escluso la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria sulla scorta di informazioni sulla condizione esistente in (OMISSIS), Paese di origine della richiedente, tratte da fonti non aggiornate.

Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8,D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, artt. 14 e 17, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, perché le informazioni utilizzate dalla Corte territoriale per l’esame della situazione esistente in (OMISSIS) sarebbero superate da quanto riportato nelle più aggiornate C.O.I. diffuse dall’E.A.S.O. nel 2018 e nel 2019.

Con il terzo motivo, la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, artt. 14 e 17, art. 111 Cost., 132 c.p.c. e art. 118 disp. att. c.p.c., nonché l’omesso esame di fatti decisivi, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, perché il giudice di merito avrebbe erroneamente ritenuto non credibile la storia personale riferita dalla richiedente, senza metterla in relazione con le notizie emergenti dalle C.O.I. aggiornate sulla (OMISSIS) di cui anzidetto e senza esaminare il decisivo profilo del rischio, allegato dalla ricorrente, di subire mutilazioni genitali femminili. Inoltre, nella valutazione della storia personale la Corte di merito non avrebbe tenuto conto di due fatti decisivi, ovverosia: (1) che le due sorelle maggiori della ricorrente avevano già subito a loro volta mutilazioni genitali femminili ed erano decedute in conseguenza di tali pratiche; (2) che la presenza a scuola della ricorrente, nonostante l’età di 23 anni, fosse giustificata dal fatto, che la stessa, come aveva riferito alla Commissione territoriale, si stava pagando gli studi lavorando. Ed infine, la ricorrente lamenta il fatto che il giudice di merito non abbia ritenuto opportuno procedere alla sua audizione, nonostante essa fosse stata richiesta.

Con il quarto motivo, la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 115,116 c.p.c., D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 8, artt. 4 e 5 della Convenzione E.D.U., D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, artt. 2,3,5,7 e 11, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente escluso la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento dello status, nonostante il fatto che la mutilazione genitale femminile rientri a pieno titolo tra le cause legittimanti la concessione di tale forma di protezione.

Con il quinto motivo, la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 115,116 c.p.c., del D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 8, artt. 4 e 5 della Convenzione E.D.U., D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, artt. 2,3,5,6,7 e 14, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente escluso anche il riconoscimento della protezione sussidiaria, nelle forme di cui all’art. 14, lett. a) e b) sopra richiamato.

Con il sesto motivo, la ricorrente lamenta infine la violazione e falsa applicazione degli artt. 2,10 e 111 Cost., artt. 112,115,116 e 132 c.p.c., art. 118 disp. att. c.p.c., del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, artt. 2 ed 8 della Convenzione E.D.U., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, perché la Corte di Appello avrebbe altresì omesso di considerare la particolare condizione di vulnerabilità della richiedente asilo, denegando anche il riconoscimento della tutela umanitaria.

Tutte le censure, suscettibili di esame congiunto, sono fondate.

La ricorrente aveva riferito di essere fuggita dal proprio Paese di origine per sottrarsi al rischio di subire mutilazioni genitali femminili. Aveva inoltre dedotto che le due sorelle maggiori, già sottoposte ad analogo trattamento brutalizzante, erano decedute in seguito ad esso. La decisiva circostanza non è stata esaminata in nessun modo dalla Corte di Appello, che ha proposto una valutazione a dir poco riduttiva della narrazione fornita dalla O..

Sul punto, va evidenziato che questa Corte si è già pronunciata in relazione alla pratica della mutilazione genitale femminile (cd. infibulazione), affermando che “In tema di protezione internazionale, nel caso in cui il ricorrente alleghi l’effettuazione nel Paese d’origine ((OMISSIS)) dell’infibulazione della figlia minorenne, l’esercizio del potere dovere di cooperazione istruttoria non può limitarsi alla verifica dell’obbligatorietà del ricorso a tale pratica a livello legale o religioso, ma deve estendersi fino all’acquisizione di informazioni accurate e aggiornate sul costume sociale cogente nel Paese, acquisendole dagli organismi internazionali che si occupano del monitoraggio della pratica dell’infibulazione, in modo da accertare se sussista un condizionamento collettivo in base al quale essa sia comunque percepita come doverosa” (Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 29836 del 18/11/2019, Rv. 656267). In applicazione del principio, è stata cassata la decisione del giudice di merito, che aveva ritenuto non credibile il racconto del richiedente sulla base di informazioni attinte da un sito internet, senza precisare né la data, né il paese cui si riferiva la fonte, non consentendo in tal modo l’esatta individuazione della fonte di conoscenza né il controllo sul contenuto delle informazioni da essa tratte, in continuità con l’ulteriore principio, di portata generale, secondo cui il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, nel prevedere che “ciascuna domanda è esaminata alla luce di informazioni precise e aggiornate circa la situazione generale esistente nel Paese di origine dei richiedenti asilo e, ove occorra, dei Paesi in cui questi sono transitati” dev’essere interpretato nel senso che l’obbligo di acquisizione di tali informazioni da parte delle Commissioni territoriali e del giudice deve essere osservato in diretto riferimento ai fatti esposti ed ai motivi svolti in seno alla richiesta di protezione internazionale (cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 30105 del 21/11/2018, Rv. 653226 e Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 2355 del 03/02/2020, Rv. 656724).

Più di recente, approfondendo la questione, si è ritenuto che “In tema di protezione umanitaria, ove sia dedotto dal ricorrente il fondato timore di essere oggetto di ritorsioni da parte del gruppo sociale di appartenenza, per essersi opposto alla decisione della propria famiglia di mutilare gli organi genitali femminili di una parente, non vale ad escludere la ricorrenza di una situazione di vulnerabilità la circostanza che, nel Paese di provenienza (nella specie, il (OMISSIS)), sia vigente una legge che sanziona penalmente l’infibulazione, qualora risulti trattarsi di una pratica tradizionale socialmente accettata e condivisa nelle zone tribali, poiché ciò che rileva non è il trattamento normativo ufficiale, ma l’emarginazione sociale dei soggetti che vi si oppongano la quale può costituire elemento identificativo di uno stato di vulnerabilità soggettiva” (Cass. Sez. 6-1, Ordinanza n. 20291 del 15/07/2021, Rv. 661990).

Il Collegio ritiene opportuno dare continuità a detta linea interpretativa, con l’ulteriore precisazione che la pratica della mutilazione genitale femminile, oltre a costituire un fatto di sicura rilevanza ai fini della configurabilità di una specifica condizione di vulnerabilità, tanto della donna che dei suoi stretti congiunti che intendano opporsi a tale pratica, costituisce altresì, per quanto attiene alla posizione del soggetto che rischia personalmente di esservi assoggettato, un trattamento inumano e degradante, idoneo a creare discriminazione della donna e a limitarne in modo irreversibile le prerogative comprese nel nucleo inalienabile dei suoi diritti fondamentali.

Tale conclusione è avvalorata dall’evoluzione, nel tempo, della considerazione della pratica della cd. infibulazione da parte del diritto internazionale, a partire dalla Carta Africana dei Diritti dell’Uomo del 27.6.1981, adottata dall’O.A.U. (Organizzazione dell’Unità Africana), oggi A.U. (Unione Africana), che all’art. 18 comma 3, relativo alla condizione femminile, impone agli Stati di: “provvedere all’eliminazione di qualsiasi discriminazione contro la donna e di assicurare la protezione dei diritti della donna e del bambino quali stipulati nelle dichiarazioni e nelle convenzioni internazionali”.

Il successivo Protocollo per i Diritti delle Donne in Africa cd. “Protocollo di Maputo”- del 25.11.2005, firmato da 42 Paesi aderenti all’Unione Africana, rafforza la protezione ed il ruolo della donna e prevede l’eliminazione delle pratiche tradizionali lesive dell’integrità fisica e psichica della stessa, come le mutilazioni genitali femminili (cfr. art. 1, lett. g ed art. 5, lett. b); concetto, questo, in seguito ribadito dalla Dichiarazione del Cairo per l’eliminazione delle mutilazioni genitali femminili del 23.6.2003.

La pratica, oltre ad essere di per sé lesiva di diversi diritti compresi nel nucleo inalienabile delle prerogative fondamentali dell’individuo, quali quello all’integrità personale, alla libera scelta sessuale – poste le conseguenze, fisiche e psicologiche, che la mutilazione comporta per la successiva vita sessuale ed intima della donna – ed alla salute, con riferimento ai gravi ed inutili rischi che da tale pratica derivano, comporta un trattamento discriminatorio, perché essa costituisce un simbolo di diseguaglianza della donna rispetto all’uomo.

Per tali motivi, con la risoluzione n. 1247 del 22.5.2001 il Consiglio d’Europa ha ricompreso la mutilazione genitale nell’ambito dei trattamenti inumani e degradanti, espressamente condannati dall’art. 3 della Convenzione E.D.U., vietando la relativa operazione anche qualora essa sia praticata da personale professionalmente competente.

Al contempo, il Parlamento Europeo, con la Risoluzione B50686/2000 del 26 febbraio 2001, ha espressamente affermato che le mutilazioni genitali femminili costituiscono “… una forma di violazione dei diritti umani da perseguire sia civilmente che penalmente”. Con le successive Risoluzioni 2008/2071 del 24 marzo 2009, 2009/2681 del 26 novembre 2009 e 2012/2684 del 14.6.2012, lo stesso organo ha condannato le pratiche di mutilazione genitale femminile “… in quanto violazione dei diritti fondamentali dell’uomo e feroce attentato all’integrità psicofisica di donne e bambine e… grave reato agli occhi della società” nonché “… in quanto atto di violenza contro le donne che costituisce una violazione dei loro diritti fondamentali, in particolare il diritto all’integrità personale e alla salute fisica, mentale, sessuale e riproduttiva…”, ed ha sollecitato gli Stati membri a “… rifiutare qualsiasi riferimento a pratiche culturali, tradizionali e religiose o tradizioni come fattore mitigante in caso di violenza contro le donne, includendo i cosiddetti crimini d’onore e le mutilazioni genitali femminili.”.

L’Assemblea Generale dell’O.N. U., dal canto suo, ha prima – con la risoluzione n. 62/133 del 18.12.2007, “Intensification of efforts to eliminate all forms of violence against women” – affermato l’impossibilità per tutti gli Stati membri di utilizzare tradizioni, credenze religiose o costumi come giustificazione per evitare il loro obbligo di eliminare tutte le forme di violenza contro le donne, raccomandando l’adozione di norme atte a combattere il fenomeno, ad assicurare il miglioramento della condizione femminile e ad educare le comunità locali al rispetto dei diritti umani. In seguito, ha adottato – con la Risoluzione n. 67/146 del 20.12.2012, “Intensifying global efforts for the elimination of female genital mutilation” – una moratoria generale delle mutilazioni genitali femminili, condannando le stesse e tutte le pratiche tradizionali dannose per le donne ad esse correlate e sollecitando gli Stati membri ad assicurarne l’abolizione nel minor tempo possibile.

Infine, l’art. 38 della Convenzione di Istanbul, entrata in vigore il 1.8.2014 e ratificata dall’Italia con L. 27 giugno 2013, n. 77 ha imposto agli Stati che la hanno ratificata di adottare “le misure legislative o di altro tipo necessarie per perseguire penalmente i seguenti atti intenzionali: a) l’escissione, l’infibulazione o qualsiasi altra mutilazione della totalità o di una parte delle grandi labbra vaginali, delle piccole labbra o asportazione del clitoride; b) costringere una donna a subire qualsiasi atto indicato al punto a, o fornirle i mezzi a tale fine; c) indurre, costringere o fornire a una ragazza i mezzi per subire qualsiasi atto enunciato al punto a)”.

A livello di diritto interno, la L. 9 gennaio 2006, n. 7, art. 6, comma 1, ha introdotto nell’ordinamento nazionale l’art. 583-bis c.p., che espressamente incrimina la mutilazione genitale femminile, per tale dovendosi intendere “.. la clitoridectomia, l’escissione e l’infibulazione e qualsiasi altra pratica che cagioni effetti dello stesso tipo”, prevedendo una aggravante specifica nel caso in cui la pratica sia rivolta nei confronti di un minore o per finalità di lucro.

Dal complessivo quadro normativo, interno ed internazionale, ed interpretativo, il Collegio ritiene di affermare che, per la donna, il rischio di assoggettamento a pratiche di mutilazioni genitali femminili costituisce elemento rilevante non soltanto per la concessione della tutela umanitaria, ma che per il riconoscimento della protezione internazionale sussidiaria, ai sensi del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14, lett. b), poiché dette pratiche rappresentano, per la persona umana che le subisce o rischia di subirle, un trattamento oggettivamente inumano e degradante.

Ritiene altresì il Collegio che si possa configurare anche uno spazio per l’eventuale concessione dello status di rifugiato alla donna che tema di essere assoggettata a mutilazione genitale femminile, ove sia accertato che il fenomeno venga praticato, nel contesto sociale e culturale del Paese di provenienza, al fine di realizzare un trattamento ingiustamente discriminatorio, diretto o indiretto, della donna, in relazione alla previsione di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 7, lett. a) ed f). In tema di protezione internazionale, infatti, vige il principio per cui gli atti di persecuzione rilevanti ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato possono essere integrati da qualsiasi comportamento discriminatorio realizzato in danno di una determinata categoria di soggetti, ancorché in esecuzione di provvedimento legislativi, amministrativi, di polizia o giudiziari (cfr. Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 13932 del 06/07/2020, Rv. 658240) o comunque con modalità idonee a limitare, direttamente o indirettamente, l’autodeterminazione ed il dissenso dei soggetti discriminati (cfr. Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 25567 del 12/11/2020, Rv. 659674).

Il giudice di merito, dunque, in presenza della deduzione, da parte del richiedente la protezione, internazionale ed umanitaria, di un trattamento in sé discriminatorio, è tenuto, in attuazione del dovere di cooperazione istruttoria previsto dalla legge, a verificare tutti i fatti pertinenti che riguardano il Paese di origine del richiedente al momento dell’adozione della decisione, compresa l’esistenza di disposizioni normative o di pratiche tollerate, o comunque non adeguatamente osteggiate, nell’ambito del contesto sociale e culturale esistente nel predetto Paese di provenienza, al fine di accertare se, effettivamente, una determinata categoria -nel caso di specie, le donne- sia di fatto discriminata nel libero godimento e nell’esercizio dei suoi diritti fondamentali.

La Corte di Appello, dunque, avrebbe dovuto considerare il racconto della O. alla luce di quanto esposto, e verificare se, nelle fonti informative disponibili, fossero contenute notizie in merito alla pratica della mutilazione genitale femminile in (OMISSIS), con particolare riferimento all’area dalla quale la richiedente asilo aveva dichiarato di provenire. La sentenza impugnata non contiene, invece, alcun riferimento specifico alla presenza o meno, nelle C.O.I. aggiornate e disponibili, di informazioni relative allo specifico fenomeno; dal che deriva l’inidoneità dell’impianto motivazionale adottato dalla Corte territoriale, che appare del tutto sganciato dal nucleo essenziale della storia personale riferita dalla O., con il quale non si confronta, e si rivela, di conseguenza, meramente apparente.

L’accoglimento, nei termini indicati, delle censure proposte dalla ricorrente implica la cassazione della sentenza impugnata ed il rinvio della causa alla Corte di Appello di Catanzaro, in differente composizione, anche per le spese del presente giudizio di legittimità.

Il giudice del rinvio dovrà provvedere a riesaminare la storia proposta dalla richiedente asilo, apprezzandone la credibilità e l’idoneità alla luce dei principi esposti in motivazione, e quindi tenendo conto, in particolare, che le mutilazioni genitali femminili costituiscono, ove il racconto della ricorrente sia ritenuto credibile, un trattamento inumano e degradante, idoneo ad incidere in modo irreversibile sul nucleo inalienabile dei diritti della persona umana, certamente rilevante ai fini del riconoscimento della protezione internazionale di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. b), e potenzialmente rilevante anche per il riconoscimento dello status di rifugiato, in relazione al predetto D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 7, lett. a) ed f), laddove sia accertato, in concreto, che nel Paese di provenienza della richiedente la protezione la pratica della mutilazione genitale femminile venga attuata anche in funzione discriminatoria del genere femminile.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte di Appello di Catanzaro, in differente composizione.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 15 settembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 25 ottobre 2021

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