Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29961 del 30/12/2020

Cassazione civile sez. I, 30/12/2020, (ud. 30/11/2020, dep. 30/12/2020), n.29961

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TIRELLI Francesco – Presidente –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 4616-2019 proposto da:

C.A.A., rappresentato e difeso dall’avv. ALESSANDRO

FABBRINI, e domiciliato presso la cancelleria della Corte di

Cassazione;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO;

– intimato –

avverso la sentenza n. 519/2018 della COTE D’APPELLO di TRIESTE,

depositata il 03/10/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

30/11/2020 dal consigliere dott. STEFANO OLIVA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con ordinanza del 20.3.2017 il Tribunale di Trieste rigettava il ricorso proposto da C.A.A. avverso il provvedimento della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale con il quale era stata respinta la sua domanda di riconoscimento della protezione internazionale e umanitaria.

Interponeva appello il C. e la Corte di Appello di Trieste, con la sentenza impugnata, n. 519/2018, rigettava il gravame.

Propone ricorso per la cassazione di detta decisione C.N.A. affidandosi a due motivi.

Il Ministero dell’Interno, intimato, non ha svolto attività difensiva nel presente giudizio di legittimità.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3 e 5 nonchè il vizio di motivazione, perchè la Corte di Appello avrebbe erroneamente denegato al ricorrente il riconoscimento della protezione sussidiaria prevista dal richiamato D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b).

La censura è inammissibile. Il ricorrente aveva narrato di aver svolto la funzione di capo-cantiere nella costruzione di una strada; di aver subito un attacco da parte di alcuni ribelli; di aver chiamato la polizia, la quale era intervenuta; che nello scontro a fuoco con le forze dell’ordine alcuni ribelli erano rimasti uccisi; che dopo l’episodio il cantiere era stato nuovamente attaccato per ritorsione; che nel corso di tale ulteriore assalto alcuni operai erano stati uccisi ed il richiedente era stato minacciato ed aggredito; che per effetto delle lesioni subite egli era rimasto in ospedale in cura per circa due mesi; che infine era uscito dal nosocomio e, avendo ricevuto una ulteriore minaccia, si era risolto a fuggire dal Paese. La storia è stata ritenuta non credibile, tanto dal Tribunale che dalla Corte di Appello, la quale ultima dà conto, nella motivazione della sentenza impugnata (cfr. pag. 7), delle varie contraddizioni tra le diverse versioni fornite dal richiedente, prima nel colloquio svoltosi presso la Commissione territoriale e poi innanzi il Tribunale, in occasione della sua audizione personale disposta dal giudice di merito. In particolare, la Corte friulana dà atto che nella prima versione i terroristi uccisi sarebbero stati due, mentre nella seconda versione tre; che inizialmente il secondo attacco sarebbe avvenuto cinque giorni dopo il primo, mentre nella seconda audizione tale intervallo sarebbe stato indicato in due giorni; che inizialmente il richiedente aveva detto di esser stato ferito nel primo assalto, mentre poi ha collocato il proprio ferimento in occasione del secondo attacco. L’articolato passaggio motivazionale della Corte territoriale non risulta specificamente attinto dal motivo in esame, con il quale il ricorrente si limita a dedurre una situazione di generale pericolo ed insicurezza del Paese di origine, senza, quindi, confrontarsi in modo adeguato con l’effettiva ratio del rigetto della sua domanda di protezione internazionale.

Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione ed errata applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 19 e art. 32, comma 3, perchè la Corte friulana avrebbe erroneamente denegato anche il riconoscimento della protezione umanitaria.

La censura è inammissibile. La Corte triestina dà atto che il richiedente non aveva documentato alcuna idonea forma di integrazione nel tessuto socio-ecomomico italiano e, quindi, alcun profilo di vulnerabilità. In particolare, la sentenza impugnata evidenzia che il C. aveva documentato un impiego a tempo indeterminato in Italia come operaio per n. 24 ore settimanali, pur avendo conseguito in patria un diploma triennale in ingegneria civile (cfr. pagg. 9 e 10 della sentenza impugnata). Comparando le due condizioni, il giudice di merito – con valutazione non utilmente sindacabile in questa sede, perchè risolventesi in un giudizio di fatto – ha ritenuto che il rimpatrio non esponesse il richiedente al rischio di subire una lesione al nucleo ineludibile dei suoi diritti fondamentali. Tale statuizione, da ritenersi coerente con i principi e la declinazione del predetto nucleo ineludibile che sono stati affermati da questa Corte (cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 4455 del 23/02/2018, Rv. 647298; Cass. Sez. U, Sentenza n. 29459 del 13/11/2019, Rv. 656062; Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 17130 del 14/08/2020, Rv. 658471) non è adeguatamente attinta dalla doglianza in esame, con la quale il C. non indica alcuno specifico profilo di vulnerabilità, o elemento concreto, che il giudice di merito non avrebbe considerato o avrebbe considerato in modo non corretto, ma si limita a ribadire che in Pakistan esisterebbe un contesto di generale pericolo ed insicurezza, di per sè non sufficiente a giustificare la concessione della protezione umanitaria. Per poter ottenere tale forma di tutela, infatti, è necessario che il richiedente deduca e dimostri una condizione individuale di debolezza e vulnerabilità tale che, alla luce della condizione del Paese di origine e del livello di integrazione socio-lavorativa conseguito in Italia, si possa ritenere che il suo rimpatrio rischi di esporlo al pericolo di subire una lesione. Nel caso di specie, non soltanto non è stata conseguita tale prova, ma risulta addirittura il contrario, avendo il giudice di merito ritenuto che la permanenza del richiedente in Italia lo esponga ad accettare impieghi sostanzialmente non adeguati al suo elevato grado di scolarizzazione e preparazione professionale.

In definitiva, il ricorso va dichiarato inammissibile.

Nulla per le spese, in difetto di svolgimento di attività difensiva da parte del Ministero intimato nel presente giudizio di legittimità.

Stante il tenore della pronuncia, va dato atto – ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.

P.Q.M.

la Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione prima civile, il 30 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 30 dicembre 2020

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