Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29958 del 13/12/2017


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Civile Sent. Sez. L Num. 29958 Anno 2017
Presidente: BRONZINI GIUSEPPE
Relatore: DE GREGORIO FEDERICO

SENTENZA

sul ricorso 25715-2015 proposto da:
EDIZIONI CONDE’ NAST S.P.A., in persona del legale
rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata
in ROMA,

VIA

VIRGILIO

pro

lo

sudo

dell’avvocato ANDREA MIMI, che la rappresenta
difende unitamente all’avvocato CARLO FOSSATI, giusta
2017

delega in atti;
– ricorrente –

3058

contro

LUPI MICHELE, domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR,
presso la cancelleria della Corte di Cassazione,

Data pubblicazione: 13/12/2017

rappresentato e difeso dagli Avvocati MARIO ANTONIO
FEZZI, MAURIZIO BORALI, giusta delega in atti;
– controricorrente

avverso la sentenza n. 363/2015 della CORTE D’APPELLO
di MILANO, depositata il 29/04/2015 R.G.N. 78/2013;

udienza del 05/07/2017 dal Consigliere Dott. FEDERICO
DE GREGORIO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. ALBERTO CELESTE che ha concluso per il
rigetto del primo motivo, accoglimento del secondo e
terzo motivo del ricorso;
udito l’Avvocato MUSTI ANDREA.

\ N

udita la relazione della causa svolta nella pubblica

uel. H5-07-17 / r.. n. 257 15- 15

SVOLGIMENTO del PROCESSO
La Corte di Appello di Milano con sentenza n. 363/15, pubblicata il 29 aprile 2015, rigettava,
con conseguente condanna alle spese, il gravame interposto da EDIZIONI CONDÈ NAST S.p.a.
nei confronti di LUPI Michele, avverso la pronuncia con la quale il locale giudice del lavoro
aveva riconosciuto la sussistenza della giusta causa delle dimissioni, rassegnate dal suddetto
LUPI con lettera del 9 maggio 2011, condannando la società convenuta a pagare al medesimo
la somma di euro 268.592,00 a titolo di indennità sostitutiva del preavviso, di euro 19.895,00

29.225,00 a titolo di restituzione dell’indebita trattenuta da parte della società, oltre accessori,
rigettando invece la domanda riconvenzionale spiegata dalla resistente parte datoriale,
condannata alle spese di lite.
Ad avviso della Corte territoriale, giustamente il primo giudicante aveva ritenuto pacifici i fatti
di causa, quali la direzione della rivista QG, edita dalla convenuta, da parte dell’attore, titolare
altresì dell’incarico di direttore della omonima testata on-line e della rivista semestrale GQ
Style, tenuto conto tra l’altro del contratto di assunzione in data 31 maggio 2006. Risultava,
inoltre, pacifico che il suddetto ruolo di direttore responsabile era stato sottratto al LUPI come
da scrittura del 19 febbraio 2011, con la quale la società aveva invitato il direttore a lasciare
l’incarico per assumere quello di vice direttore dell’ambito della redazione Vanity Fair, con
l’obiettivo di studiare nuove iniziative. Era anche pacifico, oltre che documentalmente provato,
che nel nuovo contesto di Vanity Fair già vi fossero oltre al direttore responsabile, un
condirettore e un altro vicedirettore.
Non meritavano pregio le doglianze dell’appellante in relazione alla mancata ammissione delle
richieste istruttorie avanzate, non essendo condivisibile la tesi della società, secondo la quale
la maggiore notorietà della rivista Vanity Fair, nonché la maggiore complessità del contesto
aziendale della stessa e del più elevato numero dei dipendenti avrebbero dovuto indurre a
considerare comunque equivalente il nuovo ruolo di vicedirettore. Infatti, Michele LUPI era
stato assunto espressamente per svolgere il ruolo di direttore della testata GQ, ed aveva
quindi diritto a mantenere quel ruolo, non potendo lo jus variandi incidere al punto tale di
modificare il ruolo stesso, mentre al più sarebbe stato possibile l’incarico di direttore di altra
testata. Per contro, il nuovo incarico di vicedirettore comportava in ogni caso un significativo
arretramento gerarchico, laddove l’interessato non avrebbe più risposto direttamente
all’editore, ma ad un direttore, ad un condirettore, in presenza per giunta di un altro
vicedirettore. Giustamente era stato fatto notare come le competenze del direttore
emergevano dall’articolo 6 del C.C.N.L. giornalisti. Anche a voler tener conto delle richieste
istruttorie formulate da parte datoriale, sostanzialmente nessuno dei suddetti compiti di cui al
citato articolo 6 sarebbero rimasti in capo al Lupi nel successivo ruolo di vicedirettore della
Vanity Fair.
D’altro canto, lo stesso articolo 32 del contratto collettivo prevedeva la risoluzione, con il diritto
all’indennità di licenziamento, nel caso in cui l’opera del giornalista venisse utilizzata in altro
1

a titolo di incidenza della predetta indennità sul trattamento di fine rapporto e di euro

ud. 05-07-17 / r.g. n. 25715-15

giornale della stessa azienda con caratteristiche sostanzialmente diverse. Il fatto di andare a
svolgere il ruolo di vicedirettore, ancorché in una rivista di maggior impatto, ma in un contesto
nel quale operavano anche un condirettore e addirittura un altro vicedirettore, impediva
comunque al Lupi di espletare la propria professionalità acquisita come direttore di testata con
le facoltà proprie di questo ruolo.
Quanto, poi, alle dimissioni, secondo la Corte distrettuale, proprio la rimozione dal ruolo di
direttore, ricoperto sin dall’anno 2006, peraltro senza un evidente motivo, per andare a

incidere, a differenza di quanto poteva avvenire nel precedente contesto, sull’indirizzo della
rivista stessa, giustificava pienamente le dimissioni per giusta causa. Né si ravvisavano ostacoli
circa la prospettata “acquiescenza”, in quanto tra la proposta di accordo, avanzata da parte
datoriale il 19 febbraio 2011, e la e-mail di contestazione del LUPI, in data 4 marzo 2011,
erano trascorsi appena 15 giorni circa.
Avverso l’anzidetta pronuncia di appello ha proposto ricorso per cassazione la S.p.A. EDIZIONI
CONDÈ NAST con atto spedito per la notifica il 27 ottobre 2015 affidato a TRE motivi, cui ha
resistito Michele LUPI mediante controricorso, notificato a mezzo posta elettronica certificata il
26 novembre 2015.
Memoria ex articolo 378 c.p.c. risulta depositata dalla sola ricorrente.

MOTIVI della DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso, è stata denunciata la violazione e/o la falsa applicazione
dell’articolo 2103 c.c., unitamente ad erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui
aveva ritenuto la sussistenza di un demansionamento in danno del signor Lupi, in spregio
al costante insegnamento giurisprudenziale in tema di jus variandi e senza tener conto
delle allegazioni offerte in giudizio dalla società. Infatti, l’adibizione di cui all’articolo 2103
doveva ritenersi consentita anche in relazione a mansioni equivalenti alle ultime
effettivamente svolte, peraltro senza alcuna diminuzione della retribuzione, e dal principio
della cosiddetta mobilità orizzontale. L’esercizio dello jus variandi non postulava l’identità
di mansioni corrispondenti, non era configurabile un diritto del lavoratore ad essere adibito
a quelle da ultimo svolte, ancorché considerate maggiormente gratificanti per la
professionalità. La sentenza impugnata si era sostanzialmente limitata a confermare la
possibilità dell’assegnazione presso altra testata, ma sempre con l’incarico di direttore, a
prescindere dalla verifica in concreto della equivalenza o meno delle relative mansioni; ciò
in aperta difformità con tutto quanto dedotto in merito al potere datoriale di modificare,
con il limite della equivalenza, le mansioni del lavoratore. Tanto era stato pretermesso
dalla Corte di Appello, che si era invece limitata a considerare che il ruolo di vicedirettore
avrebbe comportato comunque un significativo arretramento e a richiamare la declaratoria
2

ricoprire altro incarico che non consentiva più di rispondere direttamente all’editore e di poter

L1,1. )5-07- 17 / r. n. 25715-15

contrattuale collettiva in tema di competenze del direttore di testata. In tal modo la Corte
territoriale aveva messo a confronto il vecchio e nuovo ruolo del signor Lupi, ma solo in
astratto e senza avere in alcun modo tenuto conto delle differenti peculiarità degli stessi,
invece evidenziate sin dal primo grado e che avrebbero dovuto condurre ad una
valutazione più complessiva, segnatamente in relazione agli specifici incarichi assegnati
dopo la nomina vicedirettore di Vanity Fair (mediante rinvio ai capitoli 8, 9, 17 e 18 della

ricorso). Tali circostanze avrebbero dovuto formare oggetto di debito approfondimento da
parte del giudice di merito al fine di valutare in concreto l’equivalenza, o meno, delle
nuove mansioni assegnate al LUPI rispetto alle precedenti.
Con il secondo motivo la ricorrente ha lamentato la violazione e la falsa applicazione degli
articoli 2103 e 2119 c.c.; nonché erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui
aveva considerato sussistente una giusta causa di dimissioni in conseguenza
dell’assegnazione al LUPI del nuovo incarico nella redazione di Vanity Fair. La sentenza
impugnata aveva fatto grande confusione tra il concetto di demansionamento e quello di
giusta causa di dimissioni ex articolo 2119.
Un conto era l’asserito demansionamento (per il quale stante l’esigua durata al più era
ammissibile una condanna ad un modico risarcimento del danno alla professionalità), altro
era l’accertamento di una causa di dimissioni talmente grave da non consentire la
prosecuzione, nemmeno provvisoria del rapporto di lavoro, ciò che avrebbe richiesto un
accertamento necessariamente assai rigoroso. Di conseguenza, anche in caso di
accertamento di un demansionamento, a differenza di quanto opinato con l’impugnata
pronuncia, la condotta aziendale non poteva risultare idonea a legittimare le dimissioni
senza preavviso, considerato che il LUPI non era stato di certo assegnato a mansioni,
tanto inferiori a quelle precedentemente svolte, da giustificare un recesso con effetto
immediato.
Con il terzo motivo la Società si è doluta dell’omesso esame di un fatto decisivo per il
giudizio, che aveva formato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 comma 1 0 n. 5
c.p.c.): erroneità dell’impugnata sentenza, laddove non aveva considerato nella
valutazione della sussistenza -o meno- di una giusta causa di dimissioni, del relativo dato
temporale. Infatti, il Lupi era riuscito a reperire una nuova occupazione lavorativa, giusta
la lettera di assunzione del 10 giugno 2011, come direttore di Rolling Stone Magazine nel
giro di poco più di un mese dalle sue dimissioni (in data 19 maggio 2001). Nei precedenti
3

memoria ex articolo 416 c.p.c., riproposti in appello e trascritti nella parte introduttiva del

ua 05-07-17 / r.n. 25715-15

gradi di merito la ricorrente aveva specificamente evidenziato come fosse poco credibile
che una figura professionale come quella del LUPI fosse riuscita a ricollocarsi in così breve
tempo con una retribuzione sostanzialmente equivalente.

Era stato evidenziato tale

dirimente aspetto, unitamente al fatto che solo dopo l’inizio della sua attività presso Vanity
Fair, inizialmente manifestato il proprio benestare al mutamento di mansioni, il LUPI aveva
lamentato la sussistenza di un demansionamento; ciò che avrebbe dovuto far propendere

era attivato nella ricerca di un nuovo posto di lavoro già al momento della comunicazione
del cambio di ruolo a gennaio 2011 e per cui una volta completata fruttuosamente, egli
tentò di costruirsi strumentalmente un modo per lucrare su di un rapporto di lavoro, ormai
giunto al termine. I giudici di appello, per contro, avevano totalmente omesso di
esaminare tali essenziali aspetti.
Le anzidette doglianze vanno respinte in base alle seguenti considerazioni.
Ed invero, dalla lettura dell’impugnata sentenza si evince che la Corte di merito ha tenuto
conto di tutte le acquisite risultanze di fatto, nonché delle ragioni poste a fondamento
dell’interposto gravame, unitamente peraltro alle difese opposte dall’appellato, rilevando
quindi i dati pacifici della vertenza, peraltro confermati da emergenze documentali
(direzione della rivista QG, anche per la testata on line, nonché della rivista semestrale GQ
Style, invito di parte datoriale a lasciare la suddetta direzione per assumere l’incarico di
vice direttore della pubblicazione Vanity Fair, però senza precisi compiti, laddove già
operavano un direttore responsabile, un condirettore ed un altro vicedirettore), sicché tale
vice dirigenza, ancorché relativa a rivista di maggior notorietà e di maggior contesto
aziendale, non poteva comunque equipararsi, alla direzione della testata per la cui
direzione il LUPI era stato espressamente assunto, con conseguente diritto al
mantenimento di un incarico di pari rango. Di conseguenza, i giudici di merito hanno
accertato che il ruolo di vice direttore comportava ad ogni modo un arretramento
gerarchico-professionale, tenuto conto di quanto altresì previsto dagli artt. 6 e 32 del
c.c.n.l. di categoria. Pertanto, risultavano anche superflue le richieste istruttorie avanzate
da parte convenuta, che comunque non potevano modificare il quadro fattuale della
vicenda in esame.
Alla luce, dunque, delle succitate ragionevoli argomentazioni e valutazioni in punto di
fatto, non è ravvisabile alcuna specifica violazione di legge, né alcuna pretermissione di
circostanze rilevanti ai fini della decisione. Men che meno è riscontrabile il vizio
4

il giudice di appello a concludere diversamente, essendo oltremodo chiaro che l’attore si

uel. 05-07- 17 / r.g. n. 25715 – 15

contemplato dall’art. 360, comma I, n. 5 c.p.c. (peraltro secondo il testo introdotto
dall’art. 54, co. 1, lett. b), dl. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in I. 7 agosto 2012, n. 134,
che per espressa previsione dell’art. 54, co. 3, dl. cit., «si applica alle sentenze pubblicate
dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione»
dello stesso decreto, avvenuta il 12 agosto 2012, visto che la pronuncia qui impugnata
risale al 16/29 aprile 2015.
Infatti, l’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., riformulato dall’art. 54 del d.l. 22

giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, ha introdotto nell’ordinamento
un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto
storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti
processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere
decisivo. Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo
comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc civ., il ricorrente deve indicare il
“fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui
esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione
processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di
elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo
qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal
giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie. In
particolare, poi, la riformulazione del cit. art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. deve
essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi,
come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Ne
deriva che è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale, che si tramuta in
violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della
motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere
dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza
assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel
“contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed
obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di
“sufficienza” della motivazione (cfr. nei sensi anzidetti Cass. sez. un. civ. nn. 8053 e 8054
del 07/04/2014. In senso conforme v. altresì: Cass. Sez. 6 – 3 n. 21257 – 08/10/2014,
id. n. 23828 del 20/11/2015, id. n. 25216 del 27/11/2014, nonché III civ. n. 9253 11/04/2017).
5

I.

ud. 05-o7-17 / r.g. i. 25715-15

Per il resto, le doglianze in proposito mosse da parte ricorrente si risolvono in
inammissibili pretese di rivedere, questa sede di legittimità, nel merito quanto accertato e
valutato in punto di fatto da giudici di merito, esclusivamente competenti al riguardo.
Anche la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per
cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della
intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto

svolte dal giudice del merito (peraltro ora nei limiti fissati dall’attuale cit. art. 360 n. 5,
secondo la succitata giurisprudenza), al quale spetta, in via esclusiva, il compito di
individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di
controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del
processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse
sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti,
salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (cfr., tre le varie, Cass. III civ. n. 17477
del 09/08/2007 ed in senso analogo Sez. un. civ. n. 13045 del 27/12/1997).
Del resto, questa Corte (Cass. lav. n. 14496 in data 11/07/2005), ha già avuto modo di
affermare che,

ai fini dell’applicabilità dell’art.

2103 cod.

civ.

sul divieto di

demansionamento, pur non essendo ogni modificazione quantitativa delle mansioni
affidate al lavoratore sufficiente ad integrarlo -dovendo invece farsi riferimento
all’incidenza della riduzione delle mansioni sul livello professionale raggiunto dal
dipendente e sulla sua collocazione nell’ambito aziendale, e, con riguardo al dirigente,
altresì alla rilevanza del ruolo- la valutazione, tuttavia, della idoneità della condotta di
parte datoriale, sotto il profilo del dennansionamento, a costituire giusta causa di
dimissioni del lavoratore ex art. 2119 cod. civ., si risolve comunque in un accertamento di
fatto, rimesso al giudice del merito, quindi incensurabile in sede di legittimità se
congruamente motivato (in senso analogo Cass. lav. n. 8589 del 5/5/2004, che nella
specie confermava, quindi, la decisione di merito, la quale ritenuto la dequalificazione di
un dirigente bancario, che, dopo aver ricoperto le funzioni di direttore centrale capo area e
direttore di sede, aveva avuto attribuite quelle di vicario di altro direttore di area, pur
restando direttore di sede, con riduzione di importanza dei propri compiti e dell’ampiezza
dei propri poteri decisionali, ed aveva pertanto ritenuto determinate da giusta causa le
dimissioni rese dallo stesso.

6

il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, delle argomentazioni

ud. 05-07-17 / r.g. n. 25715-15

V. ancora Cass. lav. n. 12768 del 17/12/1997, secondo cui il giudizio sull’idoneità della
condotta del datore di lavoro a costituire giusta causa delle dimissioni del lavoratore si
risolve in un accertamento di fatto demandato al giudice di merito, come tale insindacabile
in sede di legittimità, se sorretto da congrua motivazione. Conforme id.
n. 2564 del 19/03/1999. Parimenti, secondo Cass. lav. n. 14829 del 18/10/2002, in caso
di dimissioni del lavoratore per giusta causa, la valutazione della gravità

del giudice del merito, censurabile in sede di legittimità unicamente per vizi di
motivazione.
Cfr. pure Cass. lav. n. 83 del 10/01/1986: la modificazione unilaterale delle condizioni di
lavoro ad iniziativa del datore di lavoro, disposta in via definitiva ed in contrasto con il
disposto dell’art. 2103 cod. civ., deve riguardarsi come un fatto che giustifica ai sensi
dell’art. 2119 cod. civ. il recesso dal contratto del lavoratore, conferendogli il diritto di
esigere, come nell’ipotesi del licenziamento ad nutum, la corresponsione dell’indennità di
preavviso. Qualora, poi, il lavoratore non si avvalga della facoltà di recesso e continui a
prestare la propria opera, acquetandosi al mutamento delle mansioni, questo suo
comportamento, protraendosi nel tempo, assume il significato di un’accettazione non
equivoca delle nuove condizioni di lavoro la cui efficacia obbligatoria, fondata pur sempre
su base negoziale, esclude che egli possa in seguito allegare la stessa giusta causa di
dimissioni. V. in senso analogo Cass. n. 1550 – 11/06/1963 e n. n. 3652 del 16/06/198.2
Ed in proposito Cass. lav. n. 2485 del 15/06/1977 aveva precisato che il principio
dell’immediatezza, condizionante la validità e la tempestività delle dimissioni del
lavoratore per giusta causa, deve essere inteso in senso relativo e può essere, nei casi
concreti, compatibile con un intervallo di tempo reso necessario per lo apprezzamento del
comportamento della controparte, sempre che esso non costituisca tacita acquiescenza
alle modificazioni delle condizioni di lavoro, disposte unilateralmente dal datore di lavoro).
Pertanto, vanno disattesi gli anzidetti due primi motivi di ricorso, mentre il terzo appare
del tutto inconferente, essendo riferito ad una circostanza di fatto (successivo impiego del
LUPI, come direttore di altra testata, in data 10 giugno 2011), di epoca comunque
posteriore alle dimissioni rassegnate con missiva del 9 maggio 2011, di modo che vale
come mera supposizione la prospettata possibilità che il recesso sia stato
pretestuosamente comunicato a titolo di giusta causa, allorquando l’interessato si fosse
già procurato altra attività di lavoro (circostanza, peraltro, considerata dalla Corte di ,
7

dell’inadempimento del datore di lavoro ai suoi obblighi contrattuali è rimessa al sindacato

uJ. o5-1)7-17 /

n. 2 57113-

Appello tra i rilevi sollevati dalla società appellante, come si evince dalla lettura della
sentenza impugnata a pag. 4: «…

la nuova occupazione lavorativa era stata assai

tempestivamente reperita … risultando pertanto la giusta causa delle dimissioni solo un
pretesto. …»). Ne deriva che alla stregua delle complessive argomentazioni svolte con la
pronuncia di appello, sufficientemente adeguate e tra loro coerenti, le critiche mosse con il
terzo motivo di ricorso non integrano gli estremi del vizio contemplato dal vigente art. 360

di tale norma, laddove come si è visto non rileva di per sé la mera insufficienza di
motivazione, se non per inosservanza del minimo costituzionale, nella specie però di certo
non ravvisabile.
Pertanto, il ricorso va respinto con conseguente condanna della soccombente al
pagamento delle relative spese, tenuto altresì come per legge al versamento dell’ulteriore
contributo unificato, atteso l’esito completamente negativo della sua impugnazione,
risalente al 26 / 30 ottobre 2015.
P.Q.M.
la Corte RIGETTA il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese,
che liquida in euro #6000,00# per compensi ed in euro #200,00# per esborsi, oltre
spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge, a favore del controricorrente. -Ai sensi dell’art. 13, comma I quater d.P.R. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei
presupposti per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma I-bis dello
stesso articolo 13.
Così deciso in Roma il cinque luglio 2017
IL CONSI LIERE estensore
dr. Federi \o De Gregorio

il FUITZA011aTiO Giudizildo
Giovanqi
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