Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29935 del 30/12/2020

Cassazione civile sez. I, 30/12/2020, (ud. 06/10/2020, dep. 30/12/2020), n.29935

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRISTIANO Magda – Presidente –

Dott. DI STEFANO Pierluigi – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – rel. Consigliere –

Dott. MACRI’ Ubalda – Consigliere –

Dott. SOLAINI Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 8243/2019 proposto da:

M.H., domiciliato in Roma, Piazza Cavour, presso la

Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso

dall’avvocato Guerrini Edy, giusta procura speciale in calce al

ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’interno; Commissione territoriale per il

riconoscimento della protezione internazionale di Bologna- Sezione

Forlì-Cesena;

– intimati –

avverso la sentenza n. 2207/2018 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 29/08/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

06/10/2020 dal Consigliere Dott. Paola Vella.

 

Fatto

RILEVATO

CHE:

1. La Corte d’appello di Bologna ha confermato il diniego di protezione internazionale e umanitaria da parte del Tribunale di Bologna nei confronti del cittadino (OMISSIS) M.H., nato il (OMISSIS), il quale aveva dichiarato: di essere nato in un villaggio povero del (OMISSIS) in una famiglia con ridotte disponibilità economiche; di aver subito le vessazioni dei due fratellastri, che gli davano solo vitto e alloggio appropriandosi di tutti i proventi del suo lavoro di agricoltore e piastrellista; che alla sua richiesta di dividere i terreni di proprietà del padre i due fratellastri avevano reagito con violenza, aggredendo il richiedente e la moglie in avanzato stato di gravidanza, la quale aveva perciò subito un lungo ricovero ospedaliero, dando poi alla luce una bambina con gravi problemi agli arti inferiori per le percosse subite; che, saputo della sua intenzione di sporgere denuncia, i fratellastri avevano tentato di ucciderlo, catturandolo e scavando per lui una fossa; che egli si era salvato solo con l’intervento della matrigna, la quale lo aveva liberato; che quindi, temendo per la sua incolumità, egli aveva deciso di lasciare il Paese, recandosi dapprima in Libia, dove era stato “ingiustamente arrestato e torturato”, e approdando infine in Italia.

2. Avverso la decisione di secondo grado il ricorrente ha proposto ricorso per cassazione affidato a cinque motivi. Entrambi gli intimati non hanno svolto difese; il Ministero dell’interno ha depositato un “atto di costituzione” al solo fine dell’eventuale partecipazione all’udienza di discussione ex art. 370 c.p.c., comma 1.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

3. Con il primo motivo, rubricato “omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, relativamente alla credibilità delle dichiarazioni del M.”, si deduce “la nullità della sentenza impugnata in quanto la medesima omette del tutto di motivare sul punto”, limitandosi a confermare la “succinta motivazione” dell’ordinanza adottata dal Tribunale.

3.1. Il secondo mezzo denunzia violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, con riguardo ai criteri da seguire per verificare la credibilità del richiedente, nonchè la nullità della sentenza per “vizio di motivazione in ordine alla mancata considerazione della credibilità del ricorrente e l’omessa attivazione dei doveri informativi officiosi”, poichè la Corte territoriale, aderendo supinamente ai rilievi del Tribunale, non ha considerato che, nel “verbale delle dichiarazioni degli stranieri” redatto nel 2014, egli aveva indicato nome, cognome e data di nascita sia della moglie che della figlia, fornendo numerosi e precisi dettagli sulle vicende subite.

3.2. Con il terzo motivo si lamenta la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 14 e 17, poichè il ricorrente subirebbe, qualora rimpatriato, un danno grave alla persona, quantomeno ai sensi dell’art. 14, lett. b) D.Lgs. cit., avendo “subito, nel proprio paese di origine, violenze fisiche e minacce di morte, nonchè, una volta transitato in Libi, violenze fisiche e trattamenti inumani”; inoltre egli potrebbe subire una grave minaccia individuale alla vita anche ai sensi della successiva lett. c), “a causa del comportamento già tenuto in passato da parte dei fratelli”.

3.3. Il quarto mezzo deduce la violazione o falsa applicazione dell’art. 14 in combinato disposto con il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 5, lett. c), poichè, con riguardo al paventato rischio di “danno grave”, il giudice d’appello avrebbe omesso di verificare l’esattezza dell’affermazione del ricorrente “di non essersi rivolto alla polizia perchè “nel mio Paese la polizia dà ascolto solo se si paga, a chi ha i soldi””, specie a fronte di informazioni sul (OMISSIS) (v. fonti indicate a pag. 10 del ricorso) attestanti “lo scarso controllo delle Autorità sulle forze locali di sicurezza”, che avrebbe condotto “al dilagare di fenomeni di stampo corruttivo, di arresti e detenzioni lunghe arbitrarie e pretestuose, di fenomeni di tortura e sparizioni”, con la conseguenza che “il debole rispetto delle regole, la propensione all’impunità delle condotte illecite tanto delle forze di polizia quanto dei soggetti dotati di influenza politica, hanno spesso impedito ai cittadini di affermare i propri diritti”.

3.4. Con il quinto motivo ci si duole della “omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione” sul rigetto della protezione umanitaria, a fronte di “una condizione di pericolo attuale, minaccia personale e grave danno” in caso di rientro in (OMISSIS), “a causa delle violenze fisiche e delle minacce di morte ricevute dai fratelli” – senza possibilità di “richiedere aiuto e protezione alle forze di polizia ed alla giustizia” – nonchè di “presumibili gravi violazioni dei diritti umani, alla luce delle violenze e dell’incarcerazione subita in Libia”; tanto più che il ricorrente avrebbe “radicato, sin dall’anno 2014, uno stretto legame con il territorio italiano”, disponendo di una residenza stabile e di un contratto di lavoro a tempo determinato.

4. I primi due motivi – che, in quanto connessi, possono essere esaminati congiuntamente – sono fondati, con assorbimento delle ulteriori censure veicolate dai restanti tre motivi, che, per come formulati, presuppongono l’esito positivo dei primi.

5. Occorre premettere, in punto di credibilità, che la Corte d’appello – pur dando espressamente atto che “la Commissione territoriale aveva ritenuto il racconto del richiedente credibile” – si è sostanzialmente limitata a condividere l’opposta valutazione del Tribunale, il quale lo aveva invece ritenuto “non credibile nè verosimile” in quanto egli, “anche in sede giudiziale, non aveva fatto alcuno sforzo per circostanziare la domanda (…) ad esempio” non aveva “neppure indicato il nome della moglie, nè la data delle nozze e nemmeno il nome della figlia e la data di nascita di quest’ultima”.

5.1. Dopo aver osservato che le censure dell’appellante erano “generiche e meramente riproduttive di quanto sostenuto in primo grado”, la Corte territoriale ha ellitticamente confermato “che il racconto della vicenda centrale della persecuzione da parte dei fratellastri è estremamente generica, priva di elementi di dettaglio e di riferimenti spazio-temporali”, aggiungendo poi – “sotto il profilo della mancanza di collaborazione” – che il richiedente “non ha fornito alcun documento a sostegno della domanda, neppure relativo alla sua identità, pur essendo in grado di farlo in quanto ha mantenuto contatti con la moglie – che sente telefonicamente circa una volta al mese (come da lui dichiarato alla Commissione)”.

5.2. Come visto, il ricorrente contesta recisamente le asserite carenze sulle quali è stato sbrigativamente fondato il giudizio di non credibilità, deducendo: i) che in realtà egli aveva puntualmente indicato – nel “verbale delle dichiarazioni degli stranieri che chiedono in Italia il riconoscimento dello status di rifugiato ai sensi della Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951”, compilato nel 2014 “nome, cognome e data di nascita della moglie nonchè nome, cognome e data di nascita della propria figlia” (v. pag. 5 ricorso); ii) che il proprio racconto era stato del tutto preciso e dettagliato, poichè egli aveva: “specificato l’esatta ubicazione spaziale ed il nominativo dell’ospedale nel quale il medesimo era stato ricoverato dopo l’aggressione subita da parte dei fratelli, nonchè il nome e l’ubicazione dell’ospedale in cui venne portata la propria moglie a seguito dell’aggressione; specificato i problemi alle gambe riscontrate dalla propria figlia; indicato l’età della medesima; nel dettaglio raccontato i suoi spostamenti dal (OMISSIS) in Libia nonchè le vicissitudini ivi occorse (l’incarcerazione, la fuga, il ritrovamento di un lavoro, le aggressioni subite e l’imbarco per l’Italia)” (v. pag. 6 del ricorso).

6. Orbene, sul tema in disamina vale la pena di ricordare che, nei giudizi di protezione internazionale, assumono particolare rilievo l’onere probatorio attenuato del richiedente e il dovere di cooperazione officiosa nell’acquisizione e valutazione della prova (artt. 10-16 direttiva 2013/32/UE; D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3; D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3 e art. 27), con conseguente attenuazione del principio dispositivo in funzione del principio di tutela giurisdizionale effettiva, sancito dagli artt. 6 e 13 della CEDU e ribadito dall’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE (Cass. 11564/2015 e 21255/2013).

6.1. In particolare, l’art. 46 della direttiva 2013/32/UE prevede che gli Stati membri sono tenuti ad assicurare al richiedente protezione internazionale o sussidiaria un rimedio effettivo dinanzi ad un giudice, attraverso “l’esame completo ed ex nunc degli elementi di fatto e di diritto, compreso, se del caso, l’esame delle esigenze di protezione internazionale ai sensi della direttiva 2011/95/UE, quanto meno nei procedimenti di impugnazione del giudice di primo grado”.

6.2. Su tali basi la Corte di giustizia ha affermato che, sebbene “il richiedente sia tenuto a produrre tutti gli elementi necessari a motivare la domanda, spetta tuttavia allo Stato membro interessato cooperare con tale richiedente nel momento della determinazione degli elementi significativi della stessa. Tale obbligo di cooperazione in capo allo Stato membro implica pertanto concretamente che, se, per una qualsivoglia ragione, gli elementi forniti dal richiedente una protezione internazionale non sono esaustivi, attuali o pertinenti, è necessario che lo Stato membro interessato cooperi attivamente con il richiedente, in tale fase della procedura, per consentire di riunire tutti gli elementi atti a sostenere la domanda. Peraltro, uno Stato membro riveste una posizione più adeguata del richiedente per l’accesso a determinati tipi di documenti” (Corte giust. 22 novembre 2012, causa C-277/11, par. 65, 66).

6.3. La stessa Corte EDU, tenuto conto dell’importanza attribuita all’art. 3 della Convenzione “e della natura irreversibile del danno che può essere causato nell’ipotesi di realizzazione del rischio di tortura o maltrattamenti”, rileva che “l’effettività di un ricorso ai sensi dell’art. 13 della Convenzione richiede imperativamente un attento controllo da parte di un’autorità nazionale (…), un esame autonomo e rigoroso di ogni censura secondo la quale vi è motivo di credere a un rischio di trattamento contrario all’art. 3” (Corte EDU, 21 gennaio 2011, M.S.S. c. Belgio e Grecia, par. 293).

6.4. Nel quadro dei riferiti principi unionali, questa Corte ha formulato una serie di orientamenti in materia di protezione internazionale, affermando – tra l’altro – che: i) “la valutazione di credibilità delle dichiarazioni del richiedente non è affidata” alla mera opinione del giudice, ma è il risultato di una procedimentalizzazione legale della decisione, da compiersi non sulla base della mera mancanza di riscontri oggettivi, ma alla stregua dei criteri indicati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5 tenendo conto “della situazione individuale e delle circostanze personali del richiedente” di cui al comma 3 cit. articolo, senza dare rilievo esclusivo e determinante a mere discordanze o contraddizioni su aspetti secondari o isolati del racconto” (Cass. 14674/2020; conf. Cass. 10908/2020, 11925/2019, 26921/2017, 24064/2013, 16202/2012); ii) la suddetta valutazione deve essere anche argomentata dal giudice del merito “in modo idoneo a rivelare la relativa “ratio decidendi”, senza essere basata, invece, su elementi irrilevanti o su notazioni che, essendo prive di riscontri processuali, abbiano la loro fonte nella mera opinione del giudice, cosicchè il relativo giudizio risulti privo della conclusione razionale” (Cass. 13944/2020); iii) quanto al richiedente, egli “è tenuto ad allegare i fatti costitutivi del diritto alla protezione richiesta, e, ove non impossibilitato, a fornirne la prova, trovando deroga il principio dispositivo soltanto a fronte di un’esaustiva allegazione, attraverso l’esercizio del dovere di cooperazione istruttoria e di quello di tenere per veri i fatti che lo stesso richiedente non è in grado di provare, soltanto qualora egli, oltre ad essersi attivato tempestivamente alla proposizione della domanda e ad aver compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziarla, superi positivamente il vaglio di credibilità soggettiva”, sempre che questo sia stato “condotto alla stregua dei criteri indicati del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5” (Cass. 6936/2020, 15794/2019, 19716/2018); iv) una volta assolto da parte del richiedente l’onere di allegazione dei fatti costitutivi della sua personale esposizione a rischio, si rende operativo “il dovere di cooperazione istruttoria del giudice, che è disancorato dal principio dispositivo e libero da preclusioni e impedimenti processuali”, sostanziandosi nel “potere-dovere di accertare anche d’ufficio se, e in quali limiti, nel Paese di origine del richiedente si verifichino fenomeni tali da giustificare l’applicazione della misura, mediante l’assunzione di informazioni specifiche, attendibili e aggiornate, non risalenti rispetto al tempo della decisione, che il giudice deve riportare nel contesto della motivazione” (Cass. 11096/2019, 19716/2018, 17069/2018); v) spetta altresì al giudice della protezione internazionale “il compito di colmare le lacune informative, avendo egli l’obbligo di informarsi in modo adeguato e pertinente alla richiesta – soprattutto con riferimento alle condizioni generali del Paese d’origine, allorquando le indicazioni fornite dal richiedente siano deficitarie o mancanti, avvalendosi dei poteri officiosi di indagine e di informazione di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, – e verificare se la situazione di esposizione a pericolo per l’incolumità fisica indicata dal ricorrente, ove astrattamente sussumibile nelle tipologie tipizzate di rischio, sia effettivamente sussistente nel Paese nel quale dovrebbe essere disposto il rientro al momento della decisione” (Cass. 17576/2017, 14998/2015, 7333/2015).

6.5. In sintesi, può dirsi che la valutazione di credibilità, pur integrando un apprezzamento di fatto sindacabile in sede di legittimità solo per assoluta mancanza, apparenza o perplessità della motivazione (Cass. 13578/2020) ovvero nei limiti dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (Cass. 11925/2019), deve essere comunque effettuata secondo i criteri normativamente previsti, restando altrimenti censurabile in sede di legittimità anche per violazione delle relative disposizioni di legge (Cass. 14674/2020).

6.6. In particolare, il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, impone al giudice di sottoporre le dichiarazioni del richiedente, se non suffragate da prove, a un controllo di coerenza – intrinseca (con riguardo al racconto) ed estrinseca (con riguardo alle informazioni generali e specifiche di cui si dispone) – e ad una verifica di plausibilità (con riguardo alla logicità e razionalità delle dichiarazioni) della vicenda narrata a fondamento della domanda (Cass. 21142/2019), stabilendo tra l’altro che, “qualora taluni elementi o aspetti delle dichiarazioni del richiedente la protezione internazionale non siano suffragati da prove, essi sono considerati veritieri se l’autorità competente a decidere sulla domanda ritiene che: (…) c) le dichiarazioni del richiedente sono ritenute coerenti e plausibili e non sono in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso, di cui si dispone; (…) e) dai riscontri effettuati il richiedente è, in generale, attendibile”.

7. Nel caso di specie, a fronte delle allegazioni richiamate a pag. 56 del ricorso, lo scrutinio della Corte territoriale sulla credibilità del ricorrente risulta sorretto da una motivazione pressochè apparente, e comunque non rispettosa dei criteri normativi sopra richiamati.

8. La sentenza impugnata va quindi cassata con rinvio, in accoglimento dei primi due motivi di ricorso, affinchè si proceda ad una nuova valutazione in punto di credibilità della narrazione del ricorrente, secondo i principi e criteri sopra indicati, con effetti anche sui restanti tre motivi, rimasti assorbiti poichè incentrati sugli stessi fatti ritenuti non credibili dal giudice a quo.

P.Q.M.

Accoglie i primi due motivi di ricorso, con assorbimento dei restanti tre, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia la causa alla Corte d’Appello di Bologna, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 6 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 30 dicembre 2020

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