Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29885 del 18/11/2019

Cassazione civile sez. lav., 18/11/2019, (ud. 18/06/2019, dep. 18/11/2019), n.29885

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 17176-2018 proposto da:

C.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ETTORE

XIMENES, 3, presso lo studio dell’avvocato MIRANDA MANENTI,

rappresentato e difeso dall’avvocato GIANFRANCO TODARO;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI CATANIA, domiciliato in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA

CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e

difeso dall’avvocato WALTER PEREZ;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 342/2018 della CORTE D’APPELLO di CATANIA,

depositata il 29/03/2018 R.G.N. 176/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

18/06/2019 dal Consigliere Dott. ROBERTO BELLE’;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SANLORENZO RITA che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte d’Appello di Catania ha dichiarato improcedibile il gravame, qualificato come reclamo proposto nelle forme del c.d. rito Fornero, con cui C.G. aveva censurato la sentenza del Tribunale della stessa città, di rigetto dell’impugnativa del licenziamento disciplinare con preavviso intimato nei confronti del predetto dal Comune di Catania.

La Corte di merito riteneva il reclamo tardivo, in quanto proposto oltre i trenta giorni di legge dalla comunicazione della sentenza impugnata, secondo quanto accertato – precisa la Corte – “dalle informazioni assunte presso la Cancelleria del Tribunale di Catania”, giudice di primo grado.

2. Il C. ha proposto ricorso per cassazione con tre motivi, di cui il primo dedicato alla questione processuale.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il ricorrente assume la erronea applicazione, da parte della Corte territoriale, della normativa in tema di termine per la proposizione dell’appello.

Da un primo punto di vista egli, rimarcando come l’impugnazione dell’ordinanza emessa del Tribunale adito nelle forme del c.d. rito Fornero era stata svolta con ricorso ex art. 414 c.p.c. e come il gravame avverso la sentenza che aveva definito tale impugnativa era stato proposto con appello e non con reclamo, sostiene che avrebbe dovuto trovare applicazione la disciplina del rito speciale sui licenziamenti, ma il rito del lavoro. Pertanto, non essendovi stata notifica della sentenza di primo grado, non vi era necessità di rispettare il termine breve di trenta giorni di cui all’art. 325 c.p.c. ed il gravame era da considerarsi validamente instaurato entro il termine annuale di cui all’art. 327 c.p.c..

Da altro punto di vista il ricorso afferma che la sentenza del Tribunale del lavoro di Catania – si legge – non era “mai stata comunicata dalla Cancelleria all’odierno difensore (…) essendo del tutto sfornita di prova certa la documentazione acquisita ir tal senso dalla Corte d’Appello Lavoro, ove nessuna prova vi è che sia stato comunicato il testo integrale della Sentenza piuttosto che il dispositivo della stessa”, sicchè, avendo valore solo la comunicazione integrale, non poteva affermarsi che l’impugnazione fosse stata tardiva, in quanto essa era stata comunque proposta entro il termine lungo di cui all’art. 327 c.p.c..

2. Il motivo è dedotto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, ma esso, riguardando asserite violazioni di stretto ambito processuale, doveva essere formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4.

Ciò non è di per sè ragione di inammissibilità, ma a due condizioni, tracciate dalla giurisprudenza di questa Corte e consistenti nel fatto che, ove si tratti di deduzione di error in procedendo, si faccia univoco riferimento alla nullità della sentenza quale effetto del vizio dedotto (Cass. 7 maggio 2018, n. 10862; Cass., S.U., 24 luglio 2013, n. 17931) e che il motivo rispetti i criteri di specificità di cui agli artt. 366 e 369 c.p.c. (Cass., S.U., 22 maggio 2012, n. 8077 e poi anche Cass. 7 gennaio 2014, n. 896), sicchè, ancora prima della disamina diretta degli atti da parte del giudice di legittimità, astrattamente consentita data la natura del vizio, il motivo doveva essere oggetto di una esposizione sufficiente e adeguatamente specifica.

Nel caso di specie nessuna delle due condizioni di cui sopra sussiste.

2.1 Infatti, non vi è alcuna deduzione di nullità della sentenza quale conseguenza del vizio dedotto, il che è ostativo alla conversione del motivo in denuncia di error in procedendo.

2.2 In ogni caso non sono rispettati, in nessuna delle due articolazioni di cui il motivo consta, i canoni di specificità e completezza di cui si è detto.

Quanto alla parte del motivo con cui si sostiene che il provvedimento di primo grado impugnato davanti alla Corte d’Appello sarebbe da considerare come relativo ad un normale giudizio di appello, deve farsi richiamo al consolidato principio di c.d. ultrattività del rito, espressione dei più generali principi di apparenza e tutela dell’affidamento (tra le molte: Cass. 3 ottobre 2017, n. 23052; Cass. 23 aprile 2010, n. 9694) secondo il quale l’impugnazione del provvedimento giurisdizionale va proposta sulla base della qualificazione giuridica fornita, esplicitamente o implicitamente, dal giudice che ha emesso il provvedimento stesso (Cass. 9 agosto 2018, n. 20705; Cass. 11 luglio 2014, n. 15897), anche a prescindere dalla sua esattezza (Cass. 12 dicembre 2016, n. 25553) o, ma solo in mancanza di tal’- qualificazione, secondo quanto ritenuto dal giudice dell’impugnazione (Cass. 3 ottobre 2017, n. 23052).

Nel caso di specie è indubbio che il giudice dell’impugnazione abbia ritenuto di trovarsi a trattare un giudizio avverso una pronuncia proprie del c.d. rito Fornero, consequenzialmente ritenendo la tardività del reclamo secondo la disciplina propria del rito stesso.

Dunque, secondo i principi sopra detti, di un errore potrebbe parlarsi solo nella misura in cui risultasse che il giudice di primo grado avesse implicitamente o esplicitamente qualificato la propria sentenza come inerente un processo (del lavoro) regolato dal codice di rito e non dalla c.d. Legge Fornero.

A tal fine tuttavia, il motivo di ricorso per cassazione avrebbe dovuto riportare i passaggi della sentenza del Tribunale da cui avrebbe dovuto trarsi tale conseguenza.

Ciò in applicazione dei già menzionati principi generali di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, e di autonomia del ricorso per cassazione (Cass., S.U., 22 maggio 2014, n. 11308) che la predetta norma nel suo complesso esprime, con riferimento in particolare, qui, al n. 4 della predetta disposizione, da cui si trae, nel contesto comune del principio di specificità, l’esigenza che l’argomentare sia idoneo a manifestare la pregnanza (ovverosia la decisività) del motivo, attraverso non solo il richiamo ai documenti ed agli atti che possono sorreggerlo, ma con l’inserimento logico del contenuto rilevante di essi nell’ambito del ragionamento impugnatorio.

In realtà il motivo nulla riporta della sentenza di primo grado, in termini utili ad una ipotetica ricostruzione nel (soli) termini sopra indicati ed idonei al superamento della qualificazione intrinsecamente contenuta nella sentenza di secondo grado e dunque esso risulta inammissibile, non essendo esso idoneo ad aggredire compiutamente il provvedimento impugnato.

2.4 Parimenti, il motivo risulta generico nell’affermare che la documentazione acquisita dalla Corte d’Appello al fine di verificare l’avvenuta comunicazione della sentenza di primo grado impugnata manterrebbe “sfornita di prova certa” l’avvenuta comunicazione integrale del testo della sentenza stessa.

La Corte d’Appello ha infatti affermato di avere richiesto informazioni presso la Cancelleria del Tribunale, la quale aveva risposto – si legge nella sentenza d’appello attraverso una “trasmissione documentale della relativa ricevuta di cancelleria”, da cui risultava che “la sentenza impugnata” era “stata comunicata” ai difensori a mezzo p.e.c..

Non è però sufficiente, al fine di integrare un idoneo ricorso per cassazione, che sia messa in dubbio l’avvenuta comunicazione del testo integrale della sentenza (effettivamente necessario per il decorso del termine di impugnazione di cui alla L. n. 92 del 2012, art. 1 comma 58 Cass. 24 ottobre 2017, n. 25136; Cass. 16 maggio 2016, n. 10017), perchè così facendo si rimette al giudice di legittimità ogni verifica, senza neppure esplicitamente riportare quale fosse il contenuto di quella documentazione di cancelleria da cui la Corte territoriale ha desunto l’avvenuta comunicazione e che si assume a fondamento del vizio processuale denunciato.

Nè ha rilievo il fatto che la Corte non dica se si fosse trattato di comunicazione per estratto o integrale, in quanto, in mancanza di riferimenti nel motivo di impugnazione che facciano constare in via critica ed argomentativa l’insufficienza delle informative provenienti dalla Cancelleria di primo grado, riportandone il relativo contenuto, il motivo si manifesta ancora come generico e sostanzialmente finalizzato alla verifica esplorativa di quanto accaduto, mentre la parte, cui l’accaduto e le informative consultate dalla Corte d’Appello sono necessariamente note, era tenuta ad esporre il proprio motivo attraverso l’elaborazione di una completa argomentazione rispetto a quanto documentato negli atti dei precedenti gradi di giudizio.

L’inammissibilità del motivo processuale comporta la definitività della pronuncia di improcedibilità assunta dalla Corte distrettuale e ciò manda assorbiti il secondo motivo (con cui è denunciata la violazione dell’art. 2697 c.c., L. n. 604 del 1966, art. 5 nonchè artt. 1175 e 1375 c.c. per erronea considerazione dell’apparato normativo che ha portato al licenziamento del C.) ed il terzo motivo (con cui si sostiene ex art. 360 c.p.c., n. 5 l’omesso esame di un fatto decisivo, con riferimento a quanto dedotto a fondamento istruttorio della domanda) con cui sono stati addotte questioni attinenti al merito, che non possono però più essere affrontate.

4.

Le spese seguono la soccombenza.

5.

Quanto al raddoppio del contributo unificato ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si rileva che in atti risulta soltanto l’istanza presentata al Consiglio dell’Ordine di Catania di ammissione al patrocinio a spese dello Stato, ma non è noto se vi sia stata poi ammissione ad esso, nè sono state avanzate altre istanze a questa Corte. Non resta che dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il raddoppio, per il caso in cui il contributo risulti dovuto.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente a rifondere alla controparte le spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.000,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali in misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 20012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 18 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 18 novembre 2019

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