Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29885 del 13/12/2017


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Civile Ord. Sez. 5 Num. 29885 Anno 2017
Presidente: CAPPABIANCA AURELIO
Relatore: TERRUSI FRANCESCO

ORDINANZA
sul ricorso 12033-2010 proposto da:
NARSEE DI PAOLANTONI CHIARA SAS CESSATA, PAOLANTONI
AZZURRA, PAOLANTONI CHIARA, elettivamente domiciliate
in ROMA VIALE REGINA MARGHERITA 262-264, presso lo
studio dell’avvocato SALVATORE TAVERNA, che le
rappresenta e difende;
– ricorrenti contro
AMMINISTRAZIONE ECONOMIA E FINANZE DELLO STATO,
AGENZIA DELLE ENTRATE SEDE CENTRALE, DIREZIONE
PROVINCIALE

DI

ROMA l UFFICIO TERRITORIALE DI ROMA l

TRASTEVERE;
– intimati
nonchè contro

Data pubblicazione: 13/12/2017

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro
tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI
PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO
STATO, che lo rappresenta e difende;
– resistente con atto di costituzione –

d0 RGMA, depositata il 29/10/2009;
udita la relazione della causa svolta nella camera di
consiglio del 27/09/2017 dal Consigliere Dott.
FRANCESCO TERRUSI.

avverso la sentenza n. 138/2009 della COMM.TRIB.REG.

Rilevato che:
con sentenza depositata in data 29-10-2009, la CTR del Lazio
accoglieva l’appello dell’amministrazione finanziaria avverso la
decisione con la quale la CTP di Roma aveva accolto i ricorsi riuniti
della Narsee s.a.s. e dei soci Chiara e Azzurra Paolantoni, il primo dei
quali nei confronti di un avviso di accertamento e gli altri avverso le

conseguenti cartelle esattoriali;
con l’accertamento era stato contestato alla società un maggior
reddito per l’anno 2001 conseguente alla realizzazione di una
plusvalenza derivata dalla vendita dell’azienda;
invero la società aveva dichiarato, in un primo tempo, la plusvalenza
senza pagare la relativa imposta e, successivamente, aveva
presentato una dichiarazione integrativa, in rettifica della precedente,
senza indicazione di plusvalenza;
facendo ricorso alla commissione tributaria, la società aveva dedotto,
oltre alla nullità dell’avviso di accertamento per vizio della
motivazione, di essersi avvalsa del condono ex art. art. 9, comma 3bis, della I. n. 289 del 2002;
con la sentenza d’appello, il giudice di secondo grado riteneva il
condono privo di effetti, in quanto consentito solo ai soggetti che
avessero dichiarato ricavi e compensi non inferiori a quelli
determinabili in base ai parametri o agli studi di settore, e che
nell’avviso dì accertamento, notificato alla società e da questa
impugnato, l’ufficio aveva avvisato tutti i soci, puntualmente
elencandoli, del fatto che il condono non poteva ritenersi operante;
hanno proposto ricorso per cassazione la società e le due socie Chiara
e Azzurra Paolantoni, deducendo cinque motivi;
l’amministrazione non ha svolto difese.
Considerato che:
col primo motivo i ricorrenti denunziano la nullità della sentenza e
dell’intero giudizio, essendo stato violato il litisconsorzio attesa la

pretermissione del terzo socio (ultimo accomandatario) Claudio
Paola ntoni ;
il motivo è infondato, in quanto dalla stessa narrazione svolta dai
ricorrenti si comprende che l’avviso di accertamento era stato
notificato proprio al Paolantoni, egli essendo stato l’ultimo legale

recante l’iscrizione a titolo provvisorio delle conseguenti maggiori
imposte, non sia stata notificata al predetto ma alle sole due socie,
non ha alcuna rilevanza, implicando non l’azione di accertamento
sebbene l’azione di riscossione;
non può dirsi che i soci non abbiano preso parte – tutti – al giudizio di
impugnazione avverso l’accertamento, posto che lo stesso ricorso
evidenzia che l’impugnazione era stata promossa da Claudio
Paolantoni nella qualità di legale rappresentante della società e dalle
due socie Chiara e Azzurra Paolantoni;
agli specifici fini del rispetto del litisconsorzio unitario debbono essere
evitate, ad avviso del collegio, interpretazioni formalistiche
dell’orientamento inaugurato da Cass. Sez. U n. 14815-08;
il principio che rileva è infatti il seguente: “in materia tributaria,
l’unitarietà dell’accertamento che è alla base della rettifica delle
dichiarazioni dei redditi delle società di persone e delle associazioni di
cui all’art. 5 d.P.R. 22/12/1986 n. 917 e dei soci delle stesse e la
conseguente automatica imputazione dei redditi a ciascun socio,
proporzionalmente alla quota di partecipazione agli utili ed
indipendentemente dalla percezione degli stessi, comporta che il
ricorso tributario proposto, anche avverso un solo avviso di rettifica,
da uno dei soci o dalla società riguarda inscindibilmente sia la società
che tutti i soci – salvo il caso in cui questi prospettino questioni
personali -, sicché tutti questi soggetti devono essere parte dello
stesso procedimento e la controversia non può essere decisa
limitatamente ad alcuni soltanto di essi; siffatta controversia, infatti,
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rappresentante della società; la circostanza che invece la cartella,

non ha ad oggetto una singola posizione debitoria del o dei ricorrenti,
bensì gli elementi comuni della fattispecie costitutiva dell’obbligazione
dedotta nell’atto autoritativo impugnato, con conseguente
configurabilità di un caso di litisconsorzio necessario originario;
conseguentemente, il ricorso proposto anche da uno soltanto dei

dell’art. 14 d.lgs. 546/92 (salva la possibilità di riunione ai sensi del
successivo art. 29) ed il giudizio celebrato senza la partecipazione di
tutti i litisconsorzi necessari è affetto da nullità assoluta, rilevabile in
ogni stato e grado del procedimento, anche di ufficio”;
codesto principio postula che, salvo il caso della prospettazione di
questioni personali, la controversia non possa essere decisa ove non
vi sia stata “la partecipazione al giudizio” di tutti i soci, senza
rilevanza, quindi, di formalistiche distinzioni tese a negare che una
simile partecipazione sia avvenuta per il sol fatto che uno di questi
soci – l’accomandatario – abbia partecipato sì al giudizio, ma
impugnando l’atto non in proprio sebbene per conto della società;
col secondo motivo i ricorrenti deducono la violazione e falsa
applicazione degli artt. 7, 8, 9, 16 e 17 della I. n. 289 del 2002 e
dell’art. 2041 cod. civ., in quanto la definizione automatica degli anni
pregressi consentiva loro di definire tutti i periodi d’imposta per i
quali, al 31-10-2002, non fossero scaduti i termini di presentazione
delle dichiarazioni;
il motivo è inammissibile;
la sentenza ha messo in evidenza che la contribuente si era avvalsa
del condono ex art. 9, comma 3-bis, della I. n. 289 del 2002, e che
l’agenzia delle entrate aveva “misconosciuto”

(id est,

negato) il

condono medesimo per difetto dei presupposti costituiti dall’avere la
contribuente dichiarato ricavi e compensi di ammontare non inferiore
a quelli determinabili sulla base degli studi di settore (ex d.l. n. 331

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soggetti interessati impone l’integrazione del contraddittorio ai sensi

del 1993, conv. con modificazioni in I. n. 427 del 1993) o dei
parametri di cui all’art. 3 della I. n. 549 del 1995;
contro tale specifica affermazione i ricorrenti oppongono che l’ufficio
non avrebbe mai in effetti notificato un provvedimento motivato di
diniego; ma, ove anche si considerasse rilevante tale profilo, è palese

accertamenti di fatto in contrasto con quanto emergente dalla
sentenza, accertamenti notoriamente inibiti in cassazione;
egualmente inammissibile, perché privo di autosufficienza, è il terzo
motivo, col quale si denunzia l’omessa motivazione della sentenza, o
alternativamente l’omissione di pronuncia, sul profilo afferente
l’omessa attivazione della procedura del contraddittorio sul condono e
circa la violazione delle preclusioni processuali, in quanto l’ufficio solo
nel giudizio di secondo grado, e per l’anno d’imposta 2000, aveva
contestato la mancanza dei requisiti previsti dalla normativa in tema
di studi di settore;
è risolutivo osservare che dalla sentenza risulta che l’amministrazione
aveva negato fin dall’inizio il condono per difetto dei suddetti
presupposti;
consegue che

la questione della rilevanza del condono, fruito,

ripetesi, ai sensi dell’art. 9, comma 3-bis, della I. n. 289 del 2002, era
compresa nell’oggetto del processo e proprio la conferma della
negazione dei presupposti del condono porta a dire che l’impugnata
sentenza si sia pronunciata sulla questione dell’omessa attivazione
del contraddittorio implicitamente disattendendola;
col quarto motivo i ricorrenti, denunziando la violazione e falsa
applicazione degli artt. 15 del d.P.R. n. 602 del 1973, 42 del d.P.R. n.
600 del 1973 e degli artt. 24 e 111 cost. e 2261 cod. civ., lamentano
che l’avviso di accertamento non era stato notificato a tutti i soci e
che in ogni caso era stato violato il loro diritto di avere informazione
circa la gestione della società dai soci amministratori, volta che alla
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che il ricorso si presenta assertorio al riguardo, e implica

data di notifica dell’avviso di accertamento la società era cessata da
cinque anni;
anche il quarto motivo è inammissibile, essendo basato su vizi che la
CTR ha escluso in fatto (ove anche ritenuti rilevanti);
la circostanza della cessazione della società da oltre cinque anni è

società sia stata formalmente cancellata dal registro delle imprese;
a ogni modo va osservato che la prospettazione di tutti codesti vizi
era nuova nella sede di appello, non risultando che le correlate
questioni fossero state sollevate col ricorso avverso l’avviso di
accertamento;
i ricorrenti hanno difatti premesso che l’avviso era stato impugnato
adducendo: (i) la nullità per difetto di motivazione; (il) la nullità in
conseguenza della preclusione derivante dal condono; (iii) la validità
della domanda di condono in quanto la società doveva considerarsi
congrua in base ai parametri e agli studi di settore; ed è principio del
tutto consolidato che il carattere impugnatorio del processo tributario
(per quanto rispondente allo schema della impugnazione-merito)
circoscrive il dibattito ai motivi introdotti dal contribuente col ricorso
di primo grado, salvi i motivi aggiunti ammissibili ai sensi dell’ art. 24
del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, per il solo caso – qui inesistente
– del “deposito di documenti non conosciuti ad opera delle altre parti
o per ordine della commissione” (v. per tutte Cass. n. 15051-14;
Cass. n. 9637-17);
col quinto mezzo i ricorrenti deducono l’omessa motivazione della
sentenza ovvero l’omessa pronuncia sulla questione afferente il
difetto di motivazione dell’avviso di accertamento;
il quinto motivo è inammissibile per difetto di specificità;
dalla sentenza risulta che il ricorso dei contribuenti era stato accolto,
in primo grado, perché l’adesione al condono aveva sanato ogni
irregolarità;
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dedotta genericamente, non essendo nel ricorso specificato se la

la sentenza era stata gravata da appello dell’ufficio e, in sede
d’appello, non risulta che sia stata riproposta la questione relativa alla
motivazione dell’accertamento; né sul punto il ricorso soddisfa il fine
di autosufficienza, non essendo riportato il contenuto della memoria
di costituzione in secondo grado;

questione che non risulta riproposta in appello, con conseguente
presunzione di rinuncia ai sensi dell’art. 56 del d.lgs. n. 546 del 1992.
p.q.m.
La Corte rigetta il ricorso.
Deciso in Roma, nella camera di consiglio della quinta sezione
civile, addì 27 settembre 2017.
Il Presidente

consegue che l’attuale quinto motivo è inammissibile perché riferito a

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