Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29874 del 18/11/2019

Cassazione civile sez. II, 18/11/2019, (ud. 02/07/2019, dep. 18/11/2019), n.29874

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22215-2015 proposto da:

REAL ESTATE DEVELOPMENT s.r.l, rappresentata e difesa dagli Avvocati

ANTONIO ARENA e NICOLA MANCUSO ed elettivamente domiciliata presso

lo studio del secondo, in ROMA, VIA OSLAVIA 14;

– ricorrente –

contro

CODEM s.r.l., in persona dell’Amministratore unico e legale

rappresentante pro tempore RI.Fe., MEDOC s.r.l., in persona

dell’Amministratore unico e legale rappresentante pro tempore

RI.Fe., RI.BR., S.S., T.M. e

R.S., rappresentati e difesi dagli Avvocati RITA ROLLI e GUIDO MARIA

POTTINO, ed elettivamente domiciliate presso lo studio del secondo

in ROMA, PIAZZA AUGUSTO IMPERATORE 22;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 388/2015 della CORTE d’APPELLO di BOLOGNA,

depositata in data 25/02/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

02/07/2019 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con atto di citazione, notificato in data 23.12.2003, CODEM s.r.l., MEDOC s.r.l., RI.BR., A.B., RO.MA., C.A., T.M., S.S., R.S., convenivano in giudizio davanti al Tribunale di Forlì REAL ESTATE DEVELOPMENT s.r.l. (più in breve R.E.D.), quale venditrice della porzione di fabbricato sito in (OMISSIS), nonchè la ABF LEASING S.P.A., resasi proprietaria del predetto immobile, esponendo quanto segue: con contratto del (OMISSIS) la Real Estate Development s.r.l. aveva venduto una porzione di fabbricato urbano a uso ambulatorio, con relative pertinenze, ad ABF LEASING s.p.a., la quale lo aveva concesso in locazione finanziaria alla Codem s.r.l. e quest’ultima, a sua volta, aveva stipulato con Medoc s.r.l. contratto di locazione commerciale onde consentire l’utilizzo dell’immobile per l’esercizio di attività poliambulatoriale; a garanzia dell’adempimento delle obbligazioni assunte da Codem verso Abf leasing, Medoc s.r.l. e gli altri attori avevano rilasciato fideiussioni a prima richiesta, ciascuno con distinta indicazione dell’importo massimo garantito; nel giugno 2003 gli attori venivano a conoscenza della mancanza di agibilità dei locali concessi in leasing per carenza del requisito dell’altezza minima, evidenziando che sette degli undici locali compresi nella porzione di edificio oggetto del rapporto contrattuale avevano altezza di m 2,95, mentre quella richiesta era di tre metri; le vicende successive non avevano consentito di risolvere il problema, giacchè l’Amministrazione comunale non aveva inteso derogare alla normativa regolamentare e rilasciare l’agibilità.

Pertanto, Codem s.r.l. chiedeva la risoluzione del contratto di compravendita dell’immobile acquistato il (OMISSIS), a essa concesso in leasing, per inadempimento della venditrice, deducendo la vendita di aliud pro alio o, in subordine, la mancanza delle qualità promesse, e, nel presupposto della risoluzione automatica anche del collegato contratto di leasing, chiedeva condannarsi la convenuta R.E.D. alla restituzione del prezzo della compravendita, nonchè entrambe le convenute al risarcimento dei danni; Medoc.r.l. e gli altri attori chiedevano, inoltre, di accertare in via preventiva, la legittimità della exceptio doli generalis da parte dei garanti e di dichiarare la non operatività delle garanzie da loro prestate.

Si costituiva in giudizio R.E.D. s.r.l., la quale negava ogni responsabilità, assumendo che il bene venduto era quello voluto dalle parti, come poteva evincersi dalla descrizione fattane nel testo contrattuale, mentre l’esigenza di adibire l’immobile a poliambulatorio era sorta dopo la conclusione della compravendita, in occasione della locazione stipulata tra Codem e Medoc; chiedeva il rigetto delle domande attoree e, in via riconvenzionale, la condanna della Codem a pagarle la somma dovuta per le varianti eseguite sull’immobile a richiesta della stessa attrice e che essa R.E.D. aveva anticipato alla società costruttrice; chiedeva l’autorizzazione a chiamare in causa quest’ultima, il CONSORZIO COOPERATIVE G.Q. S.C.R.L., per essere garantita dalle pretese degli attori.

Si costituiva ABF Leasing s.p.a., che contestava di dover rispondere di eventuali vizi e mancanza di qualità promesse del bene, deducendo che, in qualità di concedente, si era limitata ad acquistare il bene indicatole dall’utilizzatrice, senza nemmeno prenderne visione, mentre l’unica legittimata a far valere eventuali vizi era l’attrice Codem; contestava, dunque, l’esistenza di un proprio inadempimento e chiedeva, in via principale, di rigettare la domanda di risoluzione del contratto di compravendita e di leasing e, in via alternativa, e

subordinatamente all’accertamento dei vizi redibitori

dell’immobile, di dichiarare la risoluzione del contratto di compravendita con condanna di R.E.D. a restituirle il prezzo versato per l’acquisto del bene, oltre alle spese accessorie, e di dichiarare la risoluzione del contratto di leasing con la liberazione da ogni obbligo verso l’utilizzatrice nonchè, in via riconvenzionale, di condannare tutti gli attori a pagarle una somma corrispondente al prezzo versato per l’acquisto del bene e alle spese accessorie.

Si costituiva il Consorzio Cooperative G.Q. s.c.r.l., eccependo l’improponibilità della domanda proposta dalla R.E.D. in presenza di clausola compromissoria contenuta nel contratto di appalto e chiedendo, nel merito, la condanna della convenuta medesima a pagare la somma di Euro 100,000,00, ancora indebitamente trattenuta in garanzia.

Espletata CTU, con sentenza n. 649/2008, depositata in data 5.7.2008, il Tribunale di Forlì dava atto che parte attrice aveva rinunciato alla domanda di risoluzione dei due contratti (leasing e compravendita) per avere, nelle more del giudizio, ottenuto l’autorizzazione all’esercizio dell’attività di poliambulatorio, e rigettava la domanda risarcitoria, nella quale gli attori avevano insistito, disattendendo l’assunto secondo cui i locali non erano agibili all’uso cui l’immobile era destinato (poliambulatorio) al momento della conclusione del contratto di compravendita del (OMISSIS). Rigettava la domanda di accertamento negativo del debito avanzata dai fideiussori, mentre accoglieva la domanda riconvenzionale di R.E.D. s.r.l. in ordine al pagamento della somma che qualificava come “residuo prezzo” e che quantificava in Euro 51.598,73, motivando la pronuncia “quale logica conseguenza del medesimo rigetto” delle domande attoree. Rigettava, infine, l’eccezione di compromesso sollevata dalla terza chiamata in causa, in quanto la chiamata in garanzia non ineriva a profili interpretativi o applicativi del contratto e, nel dare atto che in corso di causa R.E.D. s.r.l. aveva restituito alla medesima la cauzione di Euro 100,000,00, la condannava a pagare gli interessi legali su tale somma dalla data dell’effettiva debenza a quella del pagamento.

Contro detta sentenza proponevano appello la Codem s.r.l. e gli altri attori, ad eccezione di A.B., RO.MA. e C.A..

Real Estate Development s.r.l. chiedeva la conferma della sentenza ed eccepiva la novità delle eccezioni svolte dagli appellanti in ordine alla domanda riconvenzionale accolta dal Tribunale.

Abf Leasing s.p.a. reiterava le conclusioni svolte in primo grado, domandando in via alternativa al rigetto dell’appello, e per il caso di accertamento dei vizi redibitori, la risoluzione del contratto di compravendita e di leasing e la condanna della R.E.D. s.r.l. alla restituzione del prezzo della compravendita e, in via riconvenzionale, la condanna dell’utilizzatrice Codem s.r.l. e dei fideiussori al pagamento di quanto da essa versato per l’acquisto dell’immobile e al rimborso delle spese sostenute per la formazione e la risoluzione del contratto di locazione finanziaria.

Il Consorzio Cooperative Q. s.c.r.l. chiedeva la conferma della sentenza.

All’udienza del 14.7.2009 gli appellanti depositavano foglio di deduzioni, in cui davano atto della rinuncia da parte dei garanti, tra cui Medoc, alle domande proposte nei confronti di Abf Leasing e questa a sua volta rinunciava alle domande proposte nei confronti degli appellanti.

Con sentenza n. 388/2015 del 17.2.2015, la Corte d’Appello di Bologna condannava la Real Estate Development a pagare a Codem s.r.l., a titolo di risarcimento del danno da inadempimento contrattuale, la somma di Euro 12.648,52, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dal 28.4.2006 fino al saldo; rigettava la domanda riconvenzionale proposta da R.E.D. contro Codem s.r.l. e gli altri attori del primo grado; dichiarava cessata la materia del contendere in ordine alle domande proposte da Abf Leasing s.p.a. in via alternativa e subordinata e in ordine alla domanda proposta da Medoc s.r.l., RI.BR., S.S., T.M., R.S. contro la Abf Leasing s.p.a.; dichiarava compensate le spese di lite di entrambi i gradi nei confronti di Abf Leasing s.p.a., Medoc, RI.BR., S.S., T.M., R.S. e Consorzio Cooperative G.Q. s.c.r.l., nonchè per due terzi, nei confronti di Codem s.r.l. e condannava R.E.D. s.r.l. a rifondere a Codem s.r.l. il terzo residuo.

Avverso detta sentenza propone ricorso per cassazione Real Estate Development s.r.l. sulla base di tre motivi; resistono Codem s.r.l., Medoc s.r.l., RI.BR., S.S., T.M. e R.S. con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memorie.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – In via pregiudiziale, va esaminata la eccepita inammissibilità del ricorso per difetto di procura, per essere stato indicato nella stessa, posta a margine dell’epigrafe del ricorso medesimo, un giudizio diverso da quello inter partes. Rilevano i controricorrenti che in tale caso la procura è inesistente e il ricorso deve essere dichiarato inammissibile anche d’ufficio (secondo quanto affermato da Cass. n. 9173 del 2003), con conseguente condanna alle spese del difensore.

Con procura speciale del 7.10.2015, depositata in atti, la RED s.r.l. dichiarava che, per un mero refuso, nella delega conferita al difensore era stata menzionata una sentenza diversa da quella effettivamente oggetto di impugnazione, che indicava, confermando il mandato, e ratificando integralmente, ad ogni effetto normativo e processuale, la condotta difensiva svolta dagli avvocati.

1.1. – L’eccezione non è fondata.

1.2. – Va, al riguardo, richiamato ed applicato l’indirizzo della giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 18781 del 2011, in conformità a Cass. n. 3200 del 1980) secondo il quale l’erronea indicazione della decisione impugnata, nella procura speciale rilasciata in calce o a margine del ricorso per cassazione, non incide sull’ammissibilità del ricorso medesimo che contenga (come nella specie) tutti gli elementi prescritti, perchè la stretta e materiale inerenza del mandato all’atto d’impugnazione osta a che l’erroneità di detta indicazione, così come l’omissione della indicazione stessa, determini alcuna incertezza sulla identificazione di quella decisione, alla stregua del contesto del ricorso (v. epigrafe e indicazione esatta della sentenza oggetto dell’impugnazione in cassazione, pag. 1-3).

2.1. – Con il primo motivo, la ricorrente lamenta il “Mancato esame dell’esistenza o meno dei presupposti stessi dell’azione proposta (fatto decisivo per il giudizio e oggetto di discussione tra le parti)”, là dove la Corte di merito ha dato per scontato che vi fosse difformità tra quanto oggetto della compravendita e quanto consegnato e che ciò non fosse in discussione. Invero, tale verifica di difformità sarebbe stata fondamentale, in quanto l’inesistenza di essa rendeva infondata la pretesa risarcitoria. Mentre il Tribunale correttamente escludeva l’esistenza di difformità, vista la chiarezza del contratto di compravendita che si riferiva a un ambulatorio, la Corte d’Appello ometteva ogni indagine, senza esprimersi sul tema assolutamente preliminare, ma passando direttamente all’analisi della CTU.

2.2. – Con il secondo motivo, la ricorrente deduce il “Mancato esame di documentazione ad atti decisiva per il giudizio”, osservando che, nonostante l’inesistenza di difformità tra il bene oggetto di vendita e quello consegnato, il Tribunale evidenziava che comunque nessuna responsabilità sarebbe stato possibile riferire a R.E.D. s.r.l., in quanto non vi erano ostacoli a ottenere l’agibilità nè come ambulatorio, nè come poliambulatorio, La Corte di merito, viceversa, dando per scontata la narrazione dei fatti svolta dagli appellanti, per nulla conforme alla realtà, incorreva nell’errore di non esaminare la documentazione allegata alla CTU (secondo cui fin dal primo utilizzo i locali avrebbero potuto ottenere l’agibilità richiesta sussistendone i requisiti di legge) e non verificava la cronologia degli eventi, che le avrebbe invece permesso di constatare che l’autorizzazione in deroga era stata rilasciata ben prima dell’inizio dei pretesi adeguamenti.

2.3. – Con il terzo motivo, la ricorrente censura la “Mancata applicazione dell’art. 345 c.p.c. e conseguente mancata applicazione dell’art. 115 c.p.c., comma 1”, poichè, con la proposizione dell’appello, la Codem formulava irritualmente nuove contestazioni in merito alle varianti in corso d’opera e al loro costo, che non avevano trovato ingresso nel giudizio di primo grado. La Corte d’Appello, in contrasto con il disposto dell’art. 345 c.p.c., ammetteva le nuove difese e ingiustamente rigettava la domanda riconvenzionale.

3. – In considerazione della loro stretta connessione logico-giuridica e delle analoghe modalità (e vizi) di formulazione, i tre motivi vanno esaminati e decisi congiuntamente.

3.1. – Essi sono inammissibili.

3.2. – In primo luogo, va rilevato che, nel giudizio per cassazione, che ha ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360 c.p.c., comma 1, il ricorso deve essere articolato in specifici motivi immediatamente ed inequivocabilmente riconducibili ad una delle cinque ragioni di impugnazione previste dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi (Cass. sez. un. 17931 del 2013; conf. Cass. n. 10862 del 2018).

Inoltre, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, il ricorso deve contenere i motivi per i quali si chiede la cassazione della sentenza impugnata (Cass. n. 22348 del 2007; Cass. n. 26307 del 2014). Se è vero, infatti, che l’indicazione dei motivi non necessita dell’impiego di formule particolari, essa tuttavia deve essere proposta in modo specifico, vista la sua funzione di determinare e limitare l’oggetto del giudizio della Corte.

Ciò richiede che i motivi posti a fondamento dell’invocata cassazione della decisione impugnata debbano avere i caratteri della specificità, della completezza e della riferibilità alla decisione stessa (ex plurimis, Cass. n. 3248 del 2012; Cass. n. 20652 del 2009; Cass. 13259 del 2006). E comporta, tra l’altro, la necessaria esposizione di argomentazioni intelligibili ed esaurienti ad illustrazione delle dedotte violazioni di norme o principi di diritto (Cass. n. 24298 del 2016; Cass. n. 5353 del 2007).

3.3. – Viceversa, il presente ricorso, così come formulato in tutti i suoi tre motivi, si connota (oltre che per una sovrabbondante esposizione dei fatti, minuziosamente riportati, v. ricorso pagg. 3-17) per la omessa indicazione delle norme asseritamente violate (v. primo e secondo motivo) e per la mancanza di riferimento alle diverse censure specificamente riconducibili alle ragioni di impugnazione per cassazione previste dall’art. 360 c.p.c., comma 1 (così in tutti i motivi).

Questa Corte ha già avuto modo di chiarire (Cass. n. 19959 del 2014) che il giudizio di cassazione è un giudizio a critica vincolata, delimitato dai motivi di ricorso, che assumono una funzione identificativa condizionata dalla loro formulazione tecnica con riferimento alle ipotesi tassative formalizzate dal codice di rito. Ne consegue che il motivo del ricorso deve, appunto, necessariamente possedere i caratteri della tassatività e della specificità ed esige una precisa enunciazione, di modo che il vizio denunciato possa rientrare nelle categorie logiche previste dall’art. 360 c.p.c.; sicchè è inammissibile la critica generica della sentenza impugnata, formulata con una articolazione di motivi, riferiti ad una eterogeneità di profili tra loro confusi o inestricabilmente combinati, e non chiaramente collegabili ad una delle fattispecie di vizio enucleata dal codice di rito (Cass. n. 11603 del 2018).

3.4. – Il presente ricorso risulta, quindi, privo di una precisa identificazione, necessaria, appunto, per evidenziarne e compiutamente individuarne il preciso contenuto ed analizzarne la fondatezza o meno, sia in generale che riguardo ai singoli motivi proposti.

Le censure, in tale modo articolate, appaiono piuttosto contraddistinte dall’evidente scopo di contestare globalmente le motivazioni poste a sostegno della decisione impugnata, risolvendosi, in buona sostanza, nella richiesta di una inammissibile generale (ri)valutazione alternativa delle ragioni poste a fondamento della sentenza impugnata, in senso antagonista rispetto a quella compiuta dal giudice di appello (Cass. n. 1885 del 2018); così, inammissibilmente, rimettendo nella sostanza al giudice di legittimità il compito di isolare le singole doglianze teoricamente proponibili onde ricondurle a uno dei mezzi di impugnazione enunciati dal citato art. 360 c.p.c. per poi ricercare quali disposizioni possano essere utilizzabili allo scopo; in sostanza, attribuendo al giudice di legittimità il compito di dar forma e contenuto giuridici alle generiche censure del ricorrente, per poi decidere su di esse.

4. – Inoltre, va rilevato che, in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione (peraltro, entro i limiti del paradigma previsto dal nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5). Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. n. 24054 del 2017; ex plurimis, Cass. n. 24155 del 2017; Cass. n. 195 del 2016; Cass. n. 26110 del 2016).

4.1. – Pertanto, la censura con cui si denunzia il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 3 (quale quella di cui al terzo motivo, riguardante l’asserita “Mancata applicazione dell’art. 345 c.p.c. e conseguente mancata applicazione dell’art. 115 c.p.c., comma 1”) deve essere dedotta e formulata, a pena di inammissibilità, non solo mediante la puntuale indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche mediante specifiche e intelligibili argomentazioni intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie; diversamente impedendosi alla Corte di cassazione di verificare essa il fondamento della lamentata violazione. Risulta, quindi, inammissibile, la deduzione di “errori di diritto” individuati (come nella specie) per mezzo della sola preliminare indicazione delle singole norme pretesamente violate (soprattutto allorquando dette norme siano numerose e riguardino aspetti eterogenei), ma non dimostrati per mezzo di una circostanziata critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non attraverso la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata (Cass. n. 11501 del 2006; Cass. n. 828 del 2007; Cass. n. 5353 del 2007; Cass. n. 10295 del 2007; Cass. 2831 del 2009; Cass. n. 24298 del 2016).

Il controllo affidato alla Corte non equivale, dunque, alla revisione del ragionamento decisorio, ossia alla opinione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe in una nuova formulazione del giudizio di fatto, in contrasto con la funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità (Cass. n. 20012 del 2014; richiamata anche dal Cass. n. 25332 del 2014).

5. – A ciò si aggiunga che i lamentati profili di “Mancato esame dell’esistenza o meno dei presupposti stessi dell’azione proposta (fatto decisivo per il giudizio e oggetto di discussione tra le parti)” (di cui al primo motivo) e di “Mancato esame di documentazione ad atti decisiva per il giudizio” (di cui al secondo motivo), non sono più evocabili ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella nuova formulazione introdotta dal D.L. n. 83 del 2012, convertito dalla L. n. 134 del 2012, applicabile alle sentenze impugnate dinanzi alla Corte di cassazione ove le stesse siano state pubblicate in epoca successiva al 12 settembre 2012, e quindi ratione temporis anche a quella oggetto del ricorso in esame, pubblicata il 17 febbraio 2015.

Infatti, secondo le Sezioni Unite (n. 8053 e n. 8054 del 2014), la norma consente di denunciare in cassazione (oltre all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, e cioè, in definitiva, quando tale anomalia si esaurisca nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione) solo il vizio dell’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017).

Ne consegue che, nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, la ricorrente avrebbe dovuto specificamente indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017). Tuttavia, dalla analisi del ricorso, anche tali specifiche indicazioni non si evidenziano con la necessaria chiarezza e specificità.

5.1. – A ciò si correla teleologicamente l’ulteriore principio, altrettanto consolidato, per il quale i requisiti di contenuto e forma previsti, a pena di inammissibilità, dall’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 6, devono essere assolti necessariamente con il ricorso e non possano essere ricavati da altri atti, come la sentenza impugnata, dovendo il ricorrente specificare il contenuto della critica mossa alla stessa indicando precisamente i fatti processuali alla base del vizio denunciato, producendo in giudizio l’atto o il documento della cui erronea valutazione si dolga, o indicando esattamente nel ricorso in quale fascicolo esso si trovi e in quale fase processuale sia stato depositato, e trascrivendone o riassumendone il contenuto nel ricorso, nel rispetto del principio di autosufficienza (ex plurimis, Cass. n. 29093 del 2018; conf. Cass. n. 20694 del 2018). Il ricorrente ha, perciò, l’onere (che nella specie non risuta esser stato assolto) di indicarne nel ricorso il contenuto rilevante, fornendo alla Corte elementi sicuri per consentirne il reperimento negli atti processuali (cfr. altresì Cass. n. 5478 del 2018; Cass. n. 22576 del 2015; n. 16254 del 2012); potendo solo così reputarsi assolto il duplice onere, rispettivamente previsto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, (a pena di inammissibilità) e dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 (a pena di improcedibilità del ricorso) (Cass. n. 17168 del 2012).

La ricorrente, dunque, avrebbe dovuto indicare – mediante anche la trascrizione, ove occorresse, di detti atti nel ricorso – la risultanza asserita mente decisiva e/o non valutata, o insufficientemente considerata, atteso che, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, il controllo deve essere consentito alla Corte sulla base delle sole deduzioni contenute nell’atto, senza necessità di indagini integrative (Cass. n. 2093 del 2016; cfr., tra le molte, Cass. n. 14784 del 2015; n. 12029 del 2014; n. 8569 del 2013; n. 4220 del 2012).

6. – Sicchè, così come articolate, tutte le censure si risolvono, in sostanza, nella sollecitazione ad effettuare una nuova valutazione di risultanze di fatto come emerse nel corso del procedimento e come argomentate dalla parte, così mostrando la ricorrente di anelare ad una impropria trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, giudizio di merito, nel quale ridiscutere tanto il contenuto di fatti e vicende processuali, quanto ancora gli apprezzamenti espressi dalla Corte di merito non condivisi e per ciò solo censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni ai propri desiderata; quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa possano ancora legittimamente porsi dinanzi al giudice di legittimità (Cass. n. 5939 del 2018). Ma, come questa Corte ha più volte sottolineato, compito della Cassazione non è quello di condividere o non condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata, nè quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dal giudice del merito (cfr. Cass. n. 3267 del 2008), dovendo invece il giudice di legittimità limitarsi a controllare se costui abbia dato conto delle ragioni della sua decisione e se il ragionamento probatorio, da esso reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, si sia mantenuto entro i limiti del ragionevole e del plausibile; ciò che nel caso di specie è dato riscontrare (cfr. Cass. n. 9275 del 2018).

6. – Il ricorso va quindi, dichiarato inammissibile. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Va emessa altresì la dichiarazione ex D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento in favore dei controricorrenti delle spese del presente grado di giudizio, che liquida in complessivi Euro 3.700,00 di cui Euro 200,00 per rimborso spese vive, oltre al rimborso forfettario spese generali, in misura del 15%, ed accessori di legge. Ex D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della seconda sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 2 luglio 2019.

Depositato in Cancelleria il 18 novembre 2019

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