Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29859 del 30/12/2020

Cassazione civile sez. trib., 30/12/2020, (ud. 14/06/2019, dep. 30/12/2020), n.29859

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PERRINO Angelina Maria – Presidente –

Dott. TRISCARI Giancarlo – rel. Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

Dott. MUCCI Roberto – Consigliere –

Dott. FANTICINI Giovanni – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

Sul ricorso iscritto al n. 17562 del ruolo generale dell’anno 2012

proposto da:

Progetti per Abitare di L.R. & C. s.a.s., in persona del

legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli

Avv.ti Nicola Caruso e Franco Di Lorenzo per procura speciale in

calce al ricorso, elettivamente domiciliata in Roma, via Germanico,

n. 12, presso lo studio di quest’ultimo difensore;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso

i cui uffici ha domicilio in Roma, Via dei Portoghesi, n. 12;

– controricorrente-

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria

regionale de Friuli-Venezia Giulia, n. 2/8/2012, depositata il

giorno 24 gennaio 2012;

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 14 giugno

2019 dal Consigliere Giancarlo Triscari.

 

Fatto

RILEVATO

che:

la sentenza impugnata ha esposto, in punto di fatto, che: l’Agenzia delle entrate aveva notificato alla società contribuente un avviso di accertamento con il quale era stata ripresa a tassazione l’Iva per omessa fatturazione e registrazione di operazioni imponibili; in particolare, l’amministrazione finanziaria aveva fondato la pretesa sulla circostanza che, relativamente al contratto preliminare di vendita stipulato dalla società contribuente con D.R., con il quale la prima si era obbligata a vendere un immobile in corso di costruzione, non era stata emessa fattura e versata l’Iva sul prezzo di vendita ricevuto a titolo di acconto; avverso la pretesa impositiva la società contribuente aveva proposto ricorso, contestando la qualificazione dell’importo versato quale acconto, dovendo invece essere considerato quale caparra confirmatoria, con conseguente non sottoponibilità dell’operazione all’Iva; la Commissione tributaria provinciale di Udine aveva accolto il ricorso; avverso la pronuncia del giudice di primo grado aveva proposto appello l’Agenzia delle entrate;

la Commissione tributaria regionale del Friuli-Venezia Giulia ha accolto l’appello, in particolare ha ritenuto che: dall’esame del contenuto delle clausole contrattuali nonchè dalla funzione codicistica della caparra confirmatoria doveva ritenersi che la somma versata dal promittente acquirente andava qualificata come acconto sul prezzo di vendita;

avverso la suddetta pronuncia ha proposto ricorso dinanzi a questa Corte la contribuente affidato a tre motivi di censura, illustrati con successiva memoria, cui ha resistito l’Agenzia delle entrate depositando controricorso;

il Pubblico Ministero, in persona della Dott.ssa De Renzis Luisa, ha depositato in data 20 maggio 2019 le proprie conclusioni, con le quali ha chiesto il rigetto del ricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 6, comma 4, degli artt. 1385 e 1362 c.c.; nonchè ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), per omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio;

in particolare, si lamenta la mancata considerazione della volontà manifestata dalle parti con la clausola di cui all’art. 7 del contratto preliminare, nella quale le stesse avevano stabilito che l’importo versato sarebbe stato computato per intero nel prezzo della vendita solo all’atto del rogito, sicchè, al momento in cui l’importo era stato corrisposto, il titolo della corresponsione non aveva finalità solutoria; il motivo è infondato nella parte in cui prospetta un vizio di violazione di legge e inammissibile nella parte in cui si censura la sentenza per vizio di motivazione;

con riferimento al primo profilo, va osservato che questa Corte (Cass. civ., 22 febbraio 2015, n. 10606) ha precisato che l’art. 10, sesta Dir., nn. 1 e 2, considera fatto generatore dell’imposta quello “…per il quale si realizzano le condizioni di legge necessarie per l’esigibilità dell’imposta”, e ravvisa l’esigibilità dell’imposta nel momento a partire dal quale l’erario può far valere il diritto al pagamento dell’imposta, anche se esso può essere differito e chiarisce (numero 2) che “il fatto generatore dell’imposta si verifica e l’imposta diventa esigibile all’atto della cessione di beni o della prestazione di servizi”;

la distinzione tra fatto generatore ed esigibilità dell’Iva è stata ulteriormente precisata da questa Corte (Cass. Sez. U., 21 aprile 2016, n. 8059), che ha affermato che “l’ordinamento nazionale non disconosce, ma presuppone, la distinzione concettuale tra fatto generatore ed esigibilità dell’imposta (mantenendo il primo rigorosamente ancorato al dato temporale della concreta esecuzione dell’operazione imponibile e riservando al pagamento il solo ruolo di condizione di esigibilità dell’imposta)”, essendo il primo termine da riferirsi alla genesi dell’obbligazione tributaria, il secondo alla attualità della pretesa dell’Erario alla relativa riscossione;

la giurisprudenza comunitaria, peraltro, ha avuto modo di precisare che l’imposta può diventare esigibile nello stesso tempo o dopo l’avverarsi del fatto generatore ma, salvo disposizione contraria, non prima di questo (Corte giust. 21 febbraio 2006, causa C-419/02, BUPA Hospitals Ltd, Goldsborough Developments Ltd, punto 46);

in questo quadro ricostruttivo, basato sulla distinzione concettuale tra presupposto dell’imposta e sua esigibilità, va quindi ulteriormente osservato che l’art. 10 sesta Dir., n. 2, comma 2 (di tenore corrispondente, nell’ordinamento interno, al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 6, comma 4) si discosta da tale ordine cronologico, prevedendo che, nel caso di versamento di un acconto, l’Iva diventa esigibile senza che la cessione o la prestazione siano state ancora eseguite: affinchè, in tal caso, l’imposta possa diventare esigibile, occorre, peraltro, che tutti gli elementi qualificanti del fatto generatore, vale a dire la futura cessione o la futura prestazione, siano già noti alle parti e, in particolare, che, nel momento del versamento dell’acconto, i beni o i servizi siano specificamente individuati (Corte giust. causa C- 419/02, punto 48);

ciò in quanto, ha chiarito questa Corte, nel caso di anticipato pagamento (come in quello di anticipata fatturazione dell’acquisto), il contenuto economico dell’operazione si considera già, in tutto o in parte, realizzato, dando vita al presupposto fiscalmente sufficiente per la sua imponibilità, sia pure limitatamente all’importo pagato o fatturato (Cass. 16 dicembre 2011, n. 27141; vedi anche 17 gennaio 1998, n. 371; 20 dicembre 1994, n. 10952 e 8 giugno 1992, n. 7056; in linea, anche 12 maggio 2008, n. 12192, relativamente al versamento di un acconto a corredo della stipulazione di un contratto preliminare di compravendita di immobile, poi risolto);

rispetto ai suddetti principi generali, inoltre, occorre procedere ad una ulteriore precisazione, con specifico riferimento alla fattispecie, nella quale il pagamento dell’importo era conseguente alla stipula del contratto preliminare;

questa Corte, sul punto, ha già precisato (Cass. civ., 20 maggio 2015, n. 10306; Cass. civ., 8 febbraio 2019, n. 3736; Cass. civ., 17 marzo 2020, n. 7340) che i contratti preliminari determinano l’insorgere dell’obbligo di fare, ossia della prestazione del consenso per la stipulazione dei definitivi, sicchè l’obbligo discende dal contratto preliminare e non già dal versamento della caparra, con la conseguenza che il versamento della caparra non può essere considerato come corrispettivo del primo;

sotto tale profilo, tenuto conto delle autonome funzioni che assume il versamento di un importo in sede di stipula di un contratto preliminare (anticipazione del prezzo, nel caso di regolare esecuzione del contratto preliminare; risarcimento forfetario, in caso d’inadempimento di questo), occorre, allora distinguere, ai fini dell’assoggettabilità all’Iva, tra il caso del regolare adempimento del contratto preliminare e quello dell’inadempimento;

mentre nel primo caso la caparra è imputata sul prezzo dei beni oggetto dei contratti definitivi, assoggettabili ad Iva, andando ad incidere sulla relativa base imponibile e, prima ancora, ad integrare il presupposto impositivo dell’imposta, in base al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 6, comma 4, nel secondo, invero, l’inadempimento ne propizia il trattenimento, risarcendo, in tal modo, il promittente venditore che, in quanto tale, non costituisce il corrispettivo di una prestazione e, di conseguenza, non fa parte della base imponibile dell’Iva (Corte giust. 18 luglio 2007, causa C-277/05, Societe thermale d’Eugenie-les-Bains, punto 32);

pertanto, attesa la pluralità di funzioni che la corresponsione della caparra può assumere nell’ambito del regolamento negoziale del contratto preliminare stipulato dalle parti, la corretta individuazione della natura dell’importo versato a titolo di caparra richiede una attività di accertamento della effettiva volontà delle parti da parte del giudice di merito;

sotto tale profilo, il giudice del gravame ha compiuto una valutazione di merito diretta alla interpretazione della volontà delle parti, valorizzando diverse circostanze fattuali, quali il fatto che le parti avevano previsto a carico della sola parte venditrice l’obbligo di versamento di una multa penitenziale nell’ipotesi di recesso convenzionale, nonchè l’entità della somma versata, (di cui parte ricorrente non offre, in violazione del principio di specificità, alcuna allegazione specifica idonea a superare l’accertamento in fatto compiuto dal giudice del gravame) rappresentante la quasi totalità del prezzo del bene promesso in vendita, pervenendo alla considerazione conclusiva che la volontà negoziale espressa dalle parti con la clausola in esame dovesse essere interpretata quale anticipo del prezzo, escludendo, pertanto, che le stesse avessero inteso perseguire la finalità propria della caparra confirmatoria;

la circostanza, quindi, evidenziata dalla ricorrente, che solo al momento del rogito definitivo l’importo versato sarebbe stato computato per intero nel prezzo di vendita, non ne fa venire meno l’assoggettamento all’Iva ove, secondo l’assunto del giudice del gravame, allo stesso deve essere attribuita la qualifica di acconto sul prezzo, escludendo in radice che, al versamento del prezzo al momento della stipula del contratto preliminare, dovesse essere riconosciuta una funzione di garanzia del regolare adempimento del contratto (si veda al riguardo, sempre con riguardo alla funzione di anticipo del prezzo di una somma corrisposta alla sottoscrizione del contratto preliminare a titolo di caparra confirmatoria, Cass. civ, 20 ottobre 2020, n. 22825, punto 17);

l’accertamento in fatto in ordine alla effettiva volontà negoziale delle parti assume rilevanza ai fini della esclusione della finalità risarcitoria che il versamento dell’importo in esame avrebbe potuto assumere in relazione allo stretto collegamento tra il suddetto importo versato a titolo di caparra e la futura cessione;

sicchè, al momento di tale versamento, si poteva considerare che tutti gli elementi rilevanti della futura cessione erano noti all’acquirente e la cessione del bene sembrava in quel momento certa (come specificato da Corte giust. 31 maggio 2018, cause C660 e 661/16) ed a conferma di tale considerazione è la circostanza che non viene in alcun modo dedotto che il contratto preliminare sia rimasto poi inadempiuto;

in questa prospettiva, la circostanza che, secondo parte ricorrente, il versamento dell’importo sarebbe stato computato per intero nel prezzo della vendita solo all’atto del rogito non assume rilievo decisivo, rientrandosi proprio nella funzione della caparra confirmatoria e potendo sempre adottarsi, in caso di mancata stipula del contratto definitivo, circostanza non riscontrabile nella presente vicenda, in caso di imputazione in conto prezzo della caparra versata, la procedura di variazione di cui al D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 26 (esperibile perchè la mancata stipulazione del negozio prefigurato nel contratto preliminare rende definitivo l’inadempimento dell’obbligo di pagare il prezzo: CGUE 22/02/2018, in causa C-396/16, T-2);

il motivo di censura, peraltro, è inammissibile nella parte in cui si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), poichè si prospetta una questione di interpretazione di una specifica previsione contrattuale, sicchè la stessa non costituisce “fatto” decisivo per il giudizio, in tale nozione dovendosi far rientrare gli elementi fattuali e non quelli meramente interpretativi (in tal senso, vedi Cass. Civ., 8 marzo 2017, n. 5795);

con il secondo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 c.c.; nonchè ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), per omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio;

in particolare, parte ricorrente evidenzia che il ragionamento interpretativo seguito dal giudice in ordine al significato da attribuire al versamento della “caparra” non sarebbe rispettoso dei canoni ermeneutici di cui all’art. 1362, c.c., in quanto il fatto che le parti abbiano previsto la facoltà di recesso unilaterale non implica alcuna incompatibilità con la previsione di una clausola compromissoria; inoltre, censura la non corretta interpretazione della comune volontà delle parti, evincibile dalla lettera indirizzata dal promissario acquirente alla contribuente, secondo cui le stesse avrebbero inteso condizionare gli effetti del contratto all’evento, futuro e incerto, del trasferimento in Friuli-Venezia Giulia del suddetto promissario acquirente;

il motivo è inammissibile;

va precisato che secondo il costante orientamento di questa Corte (da ultimo, Cass. civ., 29 novembre 2018, n. 30865; conf., Cass. civ., 14 febbraio 2012, n. 2109; Cass. civ. 29 luglio 2016, n. 15763) “l’interpretazione delle clausole contrattuali rientra tra i compiti esclusivi del giudice di merito ed è insindacabile in cassazione se rispettosa dei canoni legali di ermeneutica ed assistita da congrua motivazione, potendo il sindacato di legittimità avere ad oggetto non già la ricostruzione della volontà delle parti, bensì solo l’individuazione dei criteri ermeneutici del processo logico del quale il giudice di merito si sia avvalso per assolvere la funzione a lui riservata, al fine di verificare se sia incorso in vizi del ragionamento o in errore di diritto”;

pertanto, al fine di far valere una violazione sotto i due richiamati profili, il ricorrente per cassazione deve non solo fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione, mediante la specifica indicazione delle norme asseritamente violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti, non essendo consentito il riesame del merito in sede di legittimità (Cass. civ. 9 ottobre 2012, n. 17168; Cass. civ. 11 marzo 2014, n. 5595; Cass. civ., 27 febbraio 2015, n. 3980; Cass. civ., 19 luglio 2016, n. 14715);

va quindi precisato che, ai sensi dell’art. 1362 c.c., nell’interpretazione del contratto si deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole e, per determinare la comune intenzione delle parti, si deve valutare il loro comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del contratto;

nella fattispecie, il giudice del gravame ha, in primo luogo, osservato che le parti avevano fatto unicamente riferimento al termine “caparra” senza ulteriore qualificazione ed ha, quindi, ritenuto di dovere necessariamente procedere ad una valutazione complessiva della regolamentazione pattizia, al fine di valutare se, in base agli accordi presi, al versamento della somma al momento della stipula del contratto preliminare le parti avevano inteso attribuire una finalità riconducibile a quella propria della caparra confirmatoria ovvero se lo stesso era da qualificarsi come mero acconto di quanto complessivamente dovuto;

il ragionamento ermeneutico seguito dal giudice del gravame si fonda, quindi, in prima battuta, sulla non univocità dell’espressione utilizzata (caparra), in conformità con quanto previsto dall’art. 1362 c.c., secondo cui nell’attività interpretativa deve andarsi oltre il senso letterale delle parole utilizzate, quando il complessivo regolamento negoziale porti a chiarire meglio il senso e la portata della previsione contrattuale utilizzata;

partendo da tale premessa di fondo, il giudice del gravame ha premesso che la funzione della caparra confirmatoria è da collocarsi nell’ambito della disciplina dell’inadempimento contrattuale;

il suddetto inquadramento è corretto, tenuto conto del fatto che, come già visto in sede di esame del primo motivo di ricorso, questa Corte (Cass. civ., 20 maggio 2015, n. 10306; Cass. civ., 8 febbraio 2019., n. 3736; Cass. civ., 17 marzo 2020, n. 7340, Cass., Sez. U., 4 febbraio 2009, n. 2634) ha affermato la necessità di distinguere le autonome funzioni che la caparra confirmatoria può rivestire nell’ambito del regolamento negoziale (risarcitoria o di anticipazione del prezzo), sicchè, mentre nell’ipotesi di regolare adempimento del contratto preliminare, la caparra è imputata sul prezzo dei beni oggetto dei definitivi, assoggettabili ad iva, andando ad incidere sulla relativa base imponibile e, prima ancora, ad integrare il presupposto impositivo dell’imposta, in base al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 6, comma 4, l’inadempimento ne propizia il trattenimento, che serve, si è visto, a risarcire il promittente venditore (pur con la precisazione, di recente sottolineata dalla Consulta, che ciò che viene in rilievo, anche nel contesto della disciplina del recesso recata dall’art. 1385 c.c., è comunque un inadempimento gravemente colpevole, cioè imputabile e di non scarsa importanza: Corte Cost., ord. 2 aprile 2014, n. 77);

in questo quadro ricostruttivo, delineato secondo l’orientamento di questo Corte, dell’esatto ambito di applicazione della previsione di cui all’art. 1385 c.c., la pronuncia censurata ha preso in considerazione la regolamentazione pattizia stipulata dalle parti ed ha evidenziato diversi profili da cui ha fatto derivare la valutazione finale e complessiva in ordine al fatto che i contraenti avevano inteso attribuire al versamento dell’acconto una funzione diversa da quella propria della caparra confirmatoria, in particolare ha evidenziato che: le parti avevano disciplinato gli effetti del recesso convenzionalmente pattuito, prevedendo che, nel caso di recesso della parte venditrice, questa era obbligata a versare alla controparte una multa penitenziale di Euro 40.000,00, mentre, in caso di recesso del promittente acquirente, questi aveva diritto alla restituzione dell’importo corrisposto, senza alcuna penale; la previsione, dunque, della disciplina restitutoria in caso di recesso era da collocarsi al di fuori della regolamentazione degli effetti dell’inadempimento, nel cui ambito va collocata la previsione di cui all’art. 1385 c.c.; il versamento dell’importo di Euro 250.000,00, peraltro, non poteva non essere qualificato come acconto, tenuto conto del fatto che rappresentava la quasi totalità del prezzo del bene promesso in vendita, come accertato dal giudice del gravame e non adeguatamente censurato dal ricorrente;

la valutazione compiuta dal giudice del gravame in ordine alla corretta qualificazione del versamento dell’importo al momento della stipula del contratto preliminare, dunque, non si pone in termini contrastanti rispetto ai principi ermeneutici stabiliti dall’art. 1360 c.c., avendo correttamente provveduto a valutare l’esatta funzione della caparra confirmatoria e ritenuto non riconducibile ad essa la specifica disciplina pattizia prevista dai contraenti; non può, dunque, seguirsi la considerazione espressa dalla ricorrente in ordine alla ritenuta illogicità della interpretazione compiuta dal giudice del gravame, in quanto la facoltà di recesso unilaterale consentita nel contratto è stata valutata non conferente con la funzione della caparra confirmatoria, non avendo le parti voluto regolare gli effetti dell’inadempimento, ma solo prevedere un diritto di recesso del tutto disancorato dalla valutazione del mancato adempimento degli obblighi assunti;

nè può avere rilevanza la censura relativa alla mancata considerazione della volontà delle parti, recepita nel contratto preliminare, di condizionare l’efficacia del contratto al fatto, esterno al contratto, dell’effettivo trasferimento del promissario acquirente in Friuli-Venezia Giulia;

in primo luogo, va osservato che, anche in questo caso, parte ricorrente prospetta una questione di interpretazione del contratto e delle eventuali circostanze condizionanti esterne, sulla cui base dovrebbe essere orientata la corretta interpretazione del contratto, profili di censura non ammissibili in questo giudizio di legittimità;

in ogni caso, non è dato riscontrare la rilevanza che parte ricorrente intende attribuire, posto che si introduce una questione di eventuale sussistenza di una condizione sospensiva che incide, semmai, sugli effetti del contratto, ma non sulla questione, posta a base del ragionamento del giudice del gravame, della mancanza di volontà delle parti di collocare il pagamento dell’importo nell’ambito della funzione di garanzia dell’inadempimento, propria della caparra confirmatoria;

anche in questo caso, peraltro, il motivo di censura è inammissibile nella parte in cui si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), poichè, si prospetta una questione di interpretazione di una specifica previsione contrattuale, sicchè la stessa non costituisce “fatto” decisivo per il giudizio, in tale nozione dovendosi far rientrare gli elementi fattuali e non quelli meramente interpretativi, come già sopra evidenziato;

con il terzo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 c.c., e dell’art. 1385 c.c.; nonchè ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), per omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio;

in particolare, parte ricorrente lamenta: che il giudice del gravame non ha attribuito al termine utilizzato “caparra” il suo significato effettivo, tenuto conto del fatto che, quando non è riferito espressamente alla previsione di recesso, deve essere inteso unicamente quale caparra confirmatoria; inoltre, che l’argomento utilizzato, al fine di attribuire allo stesso un significato diverso, relativo all’entità della somma versata dal promissario acquirente, sarebbe viziato, non essendo precluso alle parti di stabilire importi diversi in caso di inadempimento; infine, la mancata indicazione delle ragioni per cui l’importo corrisposto rappresentasse la quasi totalità del prezzo della futura vendita e la mancata considerazione di ulteriori elementi specifici che avrebbero dovuto condurre a qualificare l’importo corrisposto quale caparra confirmatoria e non quale acconto;

il motivo è inammissibile;

anche in questo caso, con il presente motivo non si prospettano ragioni di contestazione specifiche sulla errata applicazione delle regole ermeneutiche di interpretazione del contratto operata dal giudice del gravame, ma una diversa ricostruzione degli elementi e delle circostanze di fatto già oggetto di valutazione;

va comunque fatto richiamo, per quanto riguarda la questione della interpretazione del termine “caparra” e della ricostruzione della effettiva volontà delle parti, alle considerazioni già espresse in sede di esame del secondo motivo di ricorso;

il motivo di censura in esame non tiene, quindi, in alcun modo conto della valutazione complessiva del regolamento pattizio compiuta dal giudice del gravame, in particolare della non riconducibilità delle specifiche previsioni contrattuali alla finalità propria della caparra confirmatoria;

lo stesso, inoltre, orienta la ragione di censura su uno specifico passaggio motivazionale senza, tuttavia, considerare che il riferimento alla misura dell’importo versato ha costituito solo uno dei diversi elementi presi in considerazione dal giudice a fondamento del proprio ragionamento, secondo quanto sopra indicato;

sicchè, non correttamente parte ricorrente, nell’illustrare in memoria il seguente motivo di ricorso, evidenzia che il profilo dell’entità della somma consegnata sarebbe stato l’unico utilizzato dal giudice del gravame, oltre a quello, ripetesi inconsistente, esaminato con il secondo motivo (vd. pag. 4, memoria): si tratta, invero, di elementi sulla cui base il giudice del gravame ha proceduto alla valutazione complessiva dell’effettiva volontà delle parti, secondo quanto evidenziato;

nè, inoltre, è corretto il richiamo, contenuto nella memoria, alla pronuncia di questa Corte (Cass. civ., 8 febbraio 2019, n. 3736) in ordine alla compatibilità dell’importo elevato della dazione con la natura della caparra confirmatoria, anzi, il suddetto riferimento si pone in termini contrastanti con la linea difensiva seguita dai ricorrenti;

ed invero, con la suddetta pronuncia questa Corte, relativa, peraltro, ad un caso in cui la stipulazione del contratto definitivo non era mai avvenuta, oltre che ribadire i principi già espressi con la sentenza 20 maggio 2015, n. 10306 (cui si è già fatto richiamo in sede di esame del primo motivo di ricorso), ha ritenuto che la qualificazione del giudice del gravame in ordine alla natura della clausola pattizia con la quale si era previsto il versamento di una caparra confirmatoria era stata correttamente compiuta secondo i criteri legali di interpretazione dei contratti, prendendo in considerazione il tenore letterale del contratto e la comune intenzione delle parti;

è stato, quindi, ribadito il principio secondo cui la circostanza che il giudice del gravame abbia valorizzato alcuni elementi piuttosto che altri non determina di per sè un vizio di motivazione della sentenza, in quanto è il giudice di merito a dovere scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova, sicchè, l’interpretazione accolta nella sentenza impugnata, per essere colpita dal sindacato di legittimità, non deve essere l’unica possibile, o la migliore in astratto, ma soltanto una delle plausibili interpretazioni della clausola in esame;

pertanto, è nell’ambito del principio dell’autonoma valutazione degli elementi di prova a disposizione che, nel caso in esame, il giudice del gravame ha ritenuto di dovere dare rilevanza, unitamente agli altri elementi posti alla sua attenzione e secondo una valutazione in fatto non sindacabile in questa sede alla circostanza del rilevante importo versato in sede di contratto preliminare;

infine, con riferimento agli ulteriori elementi non presi in considerazione dal giudice del gravame, evidenziati con il presente motivo, va osservato che la valutazione delle prove, il controllo della loro attendibilità e concludenza, la scelta delle risultanze istruttorie ritenute idonee ad acclarare i fatti (privilegiando alcune e disattendendone altre), è prerogativa esclusiva del giudice di merito, sempre che questi dia contezza con motivazione adeguata e congrua del criterio adottato, come per l’appunto si è verificato nel caso di specie;

in conclusione, il primo motivo di ricorso è in parte infondato e in parte inammissibile, sono inammissibili gli ulteriori motivi, con conseguente rigetto del ricorso e condanna della ricorrente al pagamento in favore della controricorrente delle spese di lite.

P.Q.M.

La Corte:

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite del presente giudizio in favore della controricorrente, che si liquidano in complessive Euro 2.300,00, oltre spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della quinta sezione civile, il 14 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 30 dicembre 2020

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