Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29853 del 20/11/2018

Cassazione civile sez. III, 20/11/2018, (ud. 28/09/2018, dep. 20/11/2018), n.29853

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – rel. Consigliere –

Dott. PORRECA Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al numero 6391 del ruolo generale dell’anno

2017, proposto da:

CENTRO CARDIOLOGICO MONZINO I.R.C.C.S., (C.F.: (OMISSIS)), in persona

dell’amministratore delegato, legale rappresentante pro tempore,

M.M. rappresentato e difeso, giusta procura in calce al ricorso,

dall’avvocato Franco Tassoni (C.F.: TSS FNC 65L13 H501T);

– ricorrente –

nei confronti di:

D.R., (C.F.: (OMISSIS)), D.N. (C.F.:

(OMISSIS)), D.A. (C.F.: (OMISSIS)), A.V.

(C.F.: (OMISSIS)) rappresentati e difesi, giusta procura in calce al

controricorso, dall’avvocato Fulvia Steardo (C.F.: STR FLV 59E62

G969M)

– controricorrenti –

per la cassazione della sentenza della Corte di Appello di Milano n.

4768/2016, pubblicata in data 29 dicembre 2016;

udita la relazione sulla causa svolta alla camera di consiglio del 28

settembre 2018 dal consigliere Augusto Tatangelo.

Fatto

FATTI DI CAUSA

D.L. ha agito in giudizio nei confronti del Centro Cardiologico Monzino I.R.C.C.S. per ottenere il risarcimento dei danni (paraplegia, cistorettoparaplegia, insufficienza renale terminale) a suo dire causati da trattamenti sanitari inadeguati che gli erano stati praticati presso la suddetta struttura sanitaria, in occasione di un intervento chirurgico di aneurismectomia dell’aorta toraco-addominale.

La domanda è stata rigettata dal Tribunale di Milano.

La Corte di Appello di Milano, in riforma della decisione di primo grado, la ha invece accolta, condannando l’istituto convenuto al pagamento dell’importo di Euro 884.604,96, oltre accessori, in favore dell’attore.

Ricorre il Centro Cardiologico Monzino I.R.C.C.S., sulla base di cinque motivi.

Resistono con controricorso gli eredi di D.L. (deceduto nel corso del giudizio, in data 19 luglio 2015).

Il ricorso è stato trattato in camera di consiglio, in applicazione degli artt. 375 e 380 bis.1 c.p.c..

L’ente ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo del ricorso si denunzia “in relazione al n. 4 dell’art. 360 c.p.c., per avere il giudice di appello disatteso le conclusioni della CTU svolta in primo grado senza motivare sul punto; violazione ed errata applicazione dell’art. 111 Cost., e artt. 113 – 115 e 132 c.p.c.”.

Con il secondo motivo si denunzia “in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”.

Con il terzo motivo si denunzia “violazione e falsa applicazione del disposto dell’art. 1218 c.c., e art. 2697 c.c., artt. 40 e 41 c.p., artt. 113 – 115 e 116 c.p.c.. Ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3”.

I primi tre motivi del ricorso (aventi ad oggetto l’accertamento della responsabilità della struttura sanitaria) sono connessi e possono pertanto essere esaminati congiuntamente.

Essi sono fondati.

La decisione impugnata (come denunciato in particolare nel terzo motivo del ricorso) non è conforme, in diritto, ai principi in tema di accertamento e prova della condotta colposa e del nesso causale nelle obbligazioni risarcitorie affermati da questa Corte, che possono essere sintetizzati come segue:

“sia nei giudizi di risarcimento del danno derivante da inadempimento contrattuale, sia in quelli di risarcimento del danno da fatto illecito, la condotta colposa del responsabile ed il nesso di causa tra questa ed il danno costituiscono l’oggetto di due accertamenti concettualmente distinti; la sussistenza della prima non dimostra, di per sè, anche la sussistenza del secondo, e viceversa;

l’art. 1218 c.c. solleva il creditore della obbligazione che si afferma non adempiuta dall’onere di provare la colpa del debitore inadempiente, ma non dall’onere di provare il nesso di causa tra la condotta del debitore ed il danno di cui domanda il risarcimento;

nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica, è onere dell’attore, paziente danneggiato, dimostrare l’esistenza del nesso causale tra la condotta del medico e il danno di cui chiede il risarcimento; tale onere va assolto dimostrando, con qualsiasi mezzo di prova, che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio del “più probabile che non”, la causa del danno; se, al termine dell’istruttoria, non risulti provato il nesso tra condotta ed evento, per essere la causa del danno lamentato dal paziente rimasta assolutamente incerta, la domanda deve essere rigettata” (in tal senso, di recente, Cass. Sez. 3, Sentenza n. 18392 del 26/07/2017, Rv. 645164 – 01; conf.: Sez. 3, Sentenza n. 26824 del 14/11/2017; Sez. 3, Sentenza n. 26825 del 14/11/2017, non massimate).

Al contrario, il percorso argomentativo della corte di appello risulta fondato sulla premessa per cui, in materia di prestazioni sanitarie, sarebbe “a carico della struttura la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che l’esito negativo sia stato determinato da un evento imprevisto e imprevedibile” (pag. 10, righi 8/10); sulla base di tale erronea premessa, la conclusione è nel senso che, nella specie, il Centro Cardiologico Monzino non avrebbe assolto “l’onere di dimostrare nè l’esatta esecuzione della prestazione (tale per cui nessun rimprovero di scarsa diligenza o di imperizia possa esserle mosso), nè l’assenza di incidenza causale dell’inadempimento della prestazione sanitaria, siccome contestato, sulla produzione dei danni”.

In tal modo risultano però in sostanza sovrapposti i profili della colpa e del nesso causale: viene cioè addossata di fatto alla struttura sanitaria la responsabilità dell’evento dannoso senza accertare in concreto se l’attore abbia adempiuto all’onere di dimostrare che effettivamente sussisteva un nesso di causa tra la condotta colposa dei sanitari ed il predetto evento.

Anche in conseguenza di tale erronea impostazione in diritto, inoltre, la motivazione in base alla quale la corte territoriale ha disatteso le argomentate conclusioni del consulente tecnico di ufficio in merito alla insussistenza di una condotta colposa dei sanitari risulta (come denunciato nei primi due motivi del ricorso) in parte insanabilmente contraddittoria sul piano logico, in parte del tutto apodittica (quindi meramente apparente), in parte viziata da omesso esame di fatti decisivi.

In particolare, la corte di appello ha ritenuto sussistere la responsabilità della struttura sanitaria (nonostante le espresse conclusioni contrarie del consulente tecnico), sulla base dei seguenti rilievi: un eccessivo tempo di clampaggio durante l’operazione, in relazione alla tecnica cd. del Quick Clamping; il numero insufficiente di operatori, in considerazione delle concrete difficoltà dell’intervento; l’omissione della somministrazione, nei giorni successivi all’intervento, di trattamenti (quale un temporaneo supporto dialitico) per fronteggiare i problemi di funzionalità renale immediatamente manifestatisi; la mancata dimostrazione (in quanto non emergente dalla cartella clinica) della effettuazione di una terapia anticoagulante prima e dopo l’intervento, anteriormente all’insorgenza dell’arresto circolatorio e respiratorio avvenuto due giorni dopo lo stesso.

Orbene, anche nell’ottica di una corretta ricostruzione della fattispecie astratta sul piano dei principi di diritto applicabili (come sopra riportati), si tratta di argomenti insanabilmente illogici o totalmente apodittici.

In primo luogo, per quanto riguarda il tempo di clampaggio, dalla stessa sentenza emerge una manifesta insanabile contraddizione logica. E’ infatti pacifico (la circostanza è chiaramente affermata nella stessa decisione impugnata) che non venne affatto utilizzata la tecnica cd. del “Quick Clamping” (del resto possibile solo per l’aneurisma toracico discendente, non per quello toraco-addominale di tipo IV, di cui era portatore il D.), ma una diversa tecnica operatoria (indicata dal consulente tecnico come “clamp and sew tecnique”), per la quale i tempi di clampaggio ordinario sono maggiori e, come chiarito dal consulente tecnico di ufficio, in concreto rispettati. Sul piano logico, risulta insanabilmente contraddittorio affermare che i tempi di clampaggio furono eccessivi con riferimento ad una tecnica di intervento che si è espressamente dato atto non essere stata utilizzata (e che non poteva essere utilizzata), invece che con riferimento alla tecnica effettivamente utilizzata.

Per quanto riguarda il numero di operatori, in relazione alle difficoltà concrete dell’intervento, nonostante il consulente tecnico di ufficio avesse fatto presente che i tre operatori impiegati dovevano ritenersi sufficienti ed adeguati per il tipo di intervento effettuato, la corte di appello si limita ad affermare che sul punto non vi era stata una adeguata risposta alle osservazioni del consulente di parte, il quale aveva in sostanza segnalato che sussistevano “anomalie della vascolarizzazione arteriosa tali da rendere la procedura di rivascolarizzazione delle arterie viscerali impegnativa e certamente non consueta”. Non viene però precisato espressamente quale sarebbe stato il numero di operatori necessario (e per quali motivi), in considerazione delle suddette difficoltà, ed in verità neanche si afferma espressamente che il numero di operatori utilizzato era concretamente insufficiente. L’argomentazione risulta in definitiva del tutto apodittica: che la procedura fosse “impegnativa e non consueta” non implica necessariamente (già solo sul piano logico) che per porla in essere fosse necessario un numero operatori maggiore di quello ordinario. Inoltre, non risulta in alcun modo accertato, in concreto, se con un numero maggiore di operatori si sarebbe potuta evitare la complicanza dell’ischemia-riperfusione che aveva causato al paziente la paraplegia e l’insufficienza renale denunziate. In definitiva, sul punto in esame, la motivazione risulta di fatto inesistente o, al più, solo apparente.

Per quanto riguarda, infine, la mancata somministrazione, nei giorni successivi all’intervento, di trattamenti (quale il temporaneo supporto dialitico) per fronteggiare i problemi di funzionalità renale e la mancata effettuazione della terapia anticoagulante prima e dopo l’intervento (in quanto non emergente dalla cartella clinica), valgono considerazioni analoghe.

La corte di appello dà atto che i danni al paziente sono stati determinati dall’insorgere, durante l’intervento, di una ischemia-riperfusione (definita una “complicanza” dell’intervento stesso, nella letteratura medica). A fronte di questa premessa in fatto, sul piano logico risulta insanabilmente contraddittorio ritenere rilevanti, in relazione all’accertamento del nesso causale, fatti del tutto avulsi dalla suddetta “complicanza”, in quanto avvenuti nella fase post operatoria, quando il danno si era già realizzato, ovvero la mancata effettuazione di terapie preventive che nessun nesso possono avere con la causa del danno stesso. Anche in questo caso si tratta di motivazione meramente apparente e/o o insanabilmente contraddittoria sul piano logico, in quanto non coerente con la premessa sulla causa effettiva e concreta del danno (cioè l’ischemia-riperfusione): la corte di appello non solo non spiega perchè, ma neanche ritiene necessario accertare se i trattamenti omessi avrebbero potuto avere incidenza causale sui danni in concreto verificatisi.

In definitiva, la decisione impugnata va certamente cassata affinchè, in sede di rinvio, si possa rivalutare la responsabilità della struttura sanitaria per la corretta esecuzione dell’intervento, in relazione ai danni allegati dal paziente, sulla base dei principi di diritto più sopra enunciati.

In caso di esclusione di siffatta responsabilità, si dovrà poi procedere a valutare eventualmente i diversi profili di responsabilità relativi alla sussistenza del consenso informato, riproposti dall’appellante in sede di gravame (e ritenuti assorbiti nel giudizio di merito), sulla base dei principi di diritto di recente chiariti e ribaditi da questa stessa Corte in materia (sui quali, cfr., da ultimo, cfr. Cass., Sez. 3, Sentenza n. 7248 del 23 marzo 2018, Sez. 3, Sentenza n. 9179 del 13/04/2018, Sez. 3, Ordinanza n. 10608 del 04/05/2018, non ancora massimate).

2. Con il quarto motivo si denunzia “violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., art. 345 c.p.c. per avere la sentenza fondato la responsabilità dei sanitari del Centro Cardiologico Monzino su inadempienze allegate oltre il maturarsi delle preclusioni in giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4”.

Il quarto motivo resta assorbito in conseguenza dell’accoglimento dei primi tre.

3. Con il quinto motivo si denunzia “in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, per avere il giudice di appello proceduto alla quantificazione del danno sulla base della relazione del consulente di parte senza motivare sul punto, violazione ed errata applicazione dell’art. 111 Cost., e artt. 115 e 132 c.p.c.”.

Anche questo motivo è fondato.

Nella decisione impugnata manca in primo luogo una effettiva motivazione a sostegno dell’individuazione della percentuale di invalidità residuata all’attore nel 90% (percentuale semplicemente prospettata dal consulente di parte di quest’ultimo, ma neanche confermata da una consulenza tecnica di ufficio). La corte di appello fonda la propria decisione su una asserita “non contestazione”, che risulta però contraddetta dal richiamo degli atti difensivi della struttura sanitaria ricorrente (cfr. pag. 42 del ricorso), dai quali emerge la sussistenza di adeguate e specifiche contestazioni in proposito, nonchè su una pretesa “congruità” di tale percentuale, che però non è in alcun modo argomentata, configurandosi così una ipotesi di motivazione solo apparente sul punto.

Altrettanto è a dirsi in relazione alla liquidazione del conseguente danno non patrimoniale, stimato dalla corte territoriale in Euro 717.517,00, senza alcun sostegno argomentativo (neanche con il richiamo alle cd. Tabelle di Milano).

La percentuale di invalidità dell’attore (e la liquidazione del conseguente danno non patrimoniale) dovrà essere in ogni caso rivalutata ed effettivamente correlata ai danni effettivamente imputabili, in concreto, alla struttura sanitaria, a seguito degli accertamenti sulla responsabilità da svolgersi in sede di rinvio.

4. Sono accolti i primi tre motivi del ricorso ed il quinto, nei limiti di cui in motivazione, assorbito il quarto.

La sentenza impugnata è cassata in relazione, con rinvio alla Corte di Appello di Milano, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

PQM

La Corte:

– accoglie i primi tre motivi di ricorso ed il quinto, assorbito il quarto; cassa in relazione la sentenza impugnata, con rinvio alla Corte di Appello di Milano, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 28 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 20 novembre 2018

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