Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29839 del 30/12/2020

Cassazione civile sez. II, 30/12/2020, (ud. 14/10/2020, dep. 30/12/2020), n.29839

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – rel. Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 25570/2019 proposto da:

L.Y., elettivamente domiciliato in Milano, viale Regina

Margherita n. 30, presso lo studio dell’avv.to LIVIO NERI, che la

rappresenta e difende;

– ricorrenti –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA DEI PORTOGHESI 12, presso AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che

lo rappresenta e difende;

– controricorrenti –

e contro

COMMISSIONE TERRITORIALE PER IL RICONOSCIMENTO DELLA PROTEZIONE

INTERNAZIONALE MILANO;

– intimati –

avverso il decreto del TRIBUNALE di MILANO, depositata il 17/07/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

14/10/2020 dal Consigliere Dott. LUCA VARRONE.

 

Fatto

RILEVATO

Che:

1. Il Tribunale di Milano, con decreto pubblicato il 17 luglio 2019, respingeva il ricorso proposto da L.Y., cittadina della (OMISSIS), avverso il provvedimento con il quale la competente Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale aveva, a sua volta, rigettato la domanda proposta dall’interessata di riconoscimento dello status di rifugiato e di protezione internazionale, escludendo altresì la sussistenza dei presupposti per la protezione complementare (umanitaria).

2. Il Tribunale evidenziava che la richiedente,, aveva raccontato di essere scappata dalla Cina perchè si era avvicinata alla fede cristiana, in particolare al movimento della Chiesa di Dio onnipotente e, a causa di tale conversione, era stata minacciata dal capo villaggio che l’aveva scoperta e aveva minacciato di denunciarla alla polizia. La ricorrente per continuare a professare la propria religione si era trasferita in un altro villaggio ospite di una consorella. Anche nel nuovo villaggio si erano ripresentati gli stessi problemi e le era stato richiesto di sottoscrivere un formale atto di rinuncia alla propria fede. Il suo rifiuto aveva determinato la crisi del suo matrimonio e il suo ritorno nel villaggio di origine. Successivamente era stata chiamata a ricoprire il ruolo di guida di una comunità di consorelle e ciò l’aveva esposta ancora di più verso il governo cinese. Nel (OMISSIS) vi erano stati moltissimi arresti di fedeli tanto che, dopo numerosi spostamenti, aveva deciso di lasciare il paese, anche perchè aveva saputo che la polizia la cercava.

Il collegio giudicante rigettava la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato atteso che il racconto della richiedente non era credibile. La narrazione circa i motivi che l’avevano costretta all’espatrio era, infatti, del tutto implausibile e priva di qualsivoglia dettaglio o circostanza che potesse dare un minimo di valore al racconto. Il giudizio di non credibilità e non attendibilità esonerava il Tribunale dall’onere di cooperazione nell’acquisizione di ulteriori informazioni con riferimento alla domanda di riconoscimento dello status di rifugiato. In ogni caso il Tribunale non ravvisava nella vicenda narrata dalla ricorrente, a prescindere dalla sua credibilità, situazioni che potessero ricondursi alla fattispecie legale della persecuzione o che potessero rappresentare una minaccia di danno grave. Per gli stessi motivi, dunque, doveva rigettarsi anche la domanda di protezione sussidiaria, non essendo dimostrato il pericolo concreto ed attuale di un danno grave alla persona del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. a) e b).

Del pari, doveva essere rigettata la domanda di protezione sussidiaria del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. c). Il richiedente non aveva allegato che in caso di rimpatrio poteva rischiare la vita o l’incolumità personale a causa di una situazione di generale e indiscriminata violenza derivante da un conflitto armato e, sulla base delle fonti internazionali la Cina non poteva ritenersi un paese soggetto ad una violenza generalizzata.

Infine, quanto alla richiesta concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, il Tribunale evidenziava che non vi erano i presupposti per il suo accoglimento non essendo stata nè allegata nè dimostrata alcuna di quelle situazioni di vulnerabilità anche temporanea tale da legittimare la richiesta della protezione umanitaria.

3. L.Y. ha proposto ricorso per cassazione avverso la suddetta sentenza sulla base di tre motivi di ricorso.

4. Il Ministero dell’interno si è costituito con controricorso.

5. In prossimità dell’udienza la ricorrente ha depositato memoria illustrativa con la quale ha insistito nelle proprie richieste.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

1. Il primo motivo di ricorso è così rubricato: art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, commi 1 e 5 e D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3.

La censura attiene alla valutazione di inattendibilità delle dichiarazioni della ricorrente e al rigetto dell’istanza di ammissione della prova testimoniale richiesta. Si lamenta dunque la violazione del dovere di esercitare i poteri ufficiosi istruttori anche in relazione alla situazione generale del paese di provenienza. I testimoni indicati dalla ricorrente avrebbero potuto non solo confermare l’adesione della predetta alla comunità di fedeli della Chiesa di Dio onnipotente presenti in Italia ma anche dare una spiegazione in merito ai documenti che attestano l’appartenenza alla Chiesa indicata già dal febbraio 2013.

2. Il secondo motivo di ricorso è così rubricato: art. 360 c.p.c., n. 5, omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. L’attuale dedotta appartenenza della ricorrente alla Chiesa di Dio onnipotente.

Il ruolo attivo della ricorrente all’interno della comunità italiana della Chiesa di Dio onnipotente sarebbe suffragato da varie dichiarazioni sottoscritte da rappresentanti della Chiesa in Italia e a New York oltre che dalla sua partecipazione ad un video presente sulla piattaforma youtube sicchè, anche se non si ritenesse corrispondente al vero che la causa della partenza era stata l’appartenenza al suddetto credo religioso, l’attualità della fede giustificherebbe il riconoscimento dello status di rifugiato, essendo il suddetto culto proibito nel paese e, dunque, potendo giustificare il tumore di subire persecuzioni in caso di forzato rimpatrio. Il Tribunale di Milano avrebbe del tutto omesso di esaminare tale circostanza.

3. Il terzo motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, commi 1 e 5, D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, commi 2 e 3.

La censura si basa anche in questo caso sulla valutazione negativa del racconto della ricorrente in violazione dei criteri normativi e dell’onere probatorio attenuato. Il Tribunale, peraltro, in sede di audizione non avrebbe posto domande, chiarimenti e precisazioni in merito alle dichiarazioni resa davanti la commissione territoriale, ne avrebbe disposto alcun accertamento d’ufficio. Il giudice avrebbe dovuto interrogare la ricorrente all’udienza di comparizione chiedendole di spiegare in modo più approfondito le ragioni alla base della propria conversione religiosa.

4. I tre motivi di ricorso, che stante la loro evidente connessione possono essere trattati congiuntamente, sono inammissibili.

Quanto alla valutazione in ordine alla credibilità del racconto del richiedente costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il quale deve valutare se le dichiarazioni siano coerenti e plausibili, del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. c). Tale apprezzamento di fatto è censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito. (Sez. 1, Ordinanza n. 3340 del 05/02/2019, Rv. 652549).

Il vizio di motivazione per omessa ammissione della prova testimoniale o di altra prova può essere denunciato per cassazione solo nel caso in cui esso investa un punto decisivo della controversia e, quindi, ove la prova non ammessa o non esaminata in concreto sia idonea a dimostrare circostanze tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la ratio decidendi risulti priva di fondamento (Sez. 6-1, Ord. n. 16214 del 2019)

Nella specie il Tribunale ha ampiamente motivato sulle ragioni per le quali non ha ritenuto credibile il racconto del richiedente così come il rigetto della richiesta della prova testimoniale per la sua non decisività.

La critica formulata nei motivi costituisce, dunque, una mera contrapposizione alla valutazione che il Tribunale di Milano ha compiuto nel rispetto dei parametri legali e dandone adeguata motivazione, neppure censurata mediante allegazione di fatti decisivi emersi nel corso del giudizio che sarebbero stati ignorati dal giudice di merito. In particolare, con riferimento alla inverosimiglianza e contraddittorietà delle dichiarazioni del ricorrente sul punto sopra citato. Quanto alla ritenuta non rilevanza delle prove documentali, anche in questo caso si tratta di una valutazione di fatto non sindacabile da questa Corte, valutazione che, peraltro, non ha costituito l’unico presupposto dell’inattendibilità del racconto del richiedente, caratterizzato da altre numerose contraddizioni e che, dunque, non assume alcuna valenza di decisività.

Il Tribunale, inoltre, ha fatto esplicito riferimento a fonti internazionali dalle quali ha tratto la convinzione che la Cina non sia una zona rientrante tra quelle di cui al D.Lgs. n. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c.

Il potere-dovere di cooperazione istruttoria, correlato all’attenuazione del principio dispositivo quanto alla dimostrazione, e non anche all’allegazione, dei fatti rilevanti, è stato dunque correttamente esercitato, benchè la vicenda personale narrata sia stata ritenuta non credibile dai giudici di merito (Cass. n. 14283/2019).

Deve ribadirsi che in tema di protezione sussidiaria, anche l’accertamento della situazione di “violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”, di cui alla norma citata, che sia causa per il richiedente di una sua personale e diretta esposizione al rischio di un danno grave implica un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito. Il risultato di tale indagine può essere censurato, con motivo di ricorso per cassazione, nei limiti consentiti dal novellato art. 360 c.p.c., n. 5 (Cass. ord. 30105 del 2018).

Inoltre, con riferimento alle ipotesi di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b), deve evidenziarsi che il racconto del richiedente non è stato ritenuto credibile e che in tal caso non si impone l’esercizio dei poteri ufficiosi circa l’esposizione a rischio del richiedente in virtù della sua condizione soggettiva.

In ordine al riconoscimento della protezione umanitaria, il diniego è dipeso dall’accertamento dei fatti da parte del giudice di merito, che ha escluso con idonea motivazione, alla stregua di quanto considerato nei paragrafi che precedono l’esistenza di una situazione di sua particolare vulnerabilità. All’accertamento compiuto dai giudici di merito viene inammissibilmente contrapposta una diversa interpretazione delle risultanze di causa.

La pronuncia impugnata, dunque, risulta del tutto conforme ai principi di diritto espressi da questa Corte, atteso che quanto al parametro dell’inserimento sociale e lavorativo dello straniero in Italia, esso può essere valorizzato come presupposto della protezione umanitaria non come fattore esclusivo, bensì come circostanza che può concorrere a determinare una situazione di vulnerabilità personale (Cass. n. 4455 del 2018), che, tuttavia, nel caso di specie è stata esclusa.

Giova aggiungere che le Sezioni Unite di questa Corte, nella recente sentenza n. 29460/2019, hanno ribadito, in motivazione, l’orientamento di questo giudice di legittimità in ordine al “rilievo centrale alla valutazione comparativa tra il grado d’integrazione effettiva nel nostro paese e la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente nel paese di origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale”, rilevando che “non può, peraltro, essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari considerando, isolatamente e astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, nè il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al paese di provenienza (Cass. 28 giugno 2018, n. 17072)”, in quanto, così facendo, “si prenderebbe altrimenti in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, di per sè inidonea al riconoscimento della protezione umanitaria”.

5. In conclusione, il ricorso è inammissibile. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

6. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 2100 più spese prenotate a debito;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 14 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 30 dicembre 2020

 

 

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