Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29836 del 20/11/2018

Cassazione civile sez. III, 20/11/2018, (ud. 19/06/2018, dep. 20/11/2018), n.29836

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. CIGNA Mario – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 2914/2017 proposto da:

T.D.A., M.A., elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA DEL PLEBISCITO 107, presso lo studio

dell’avvocato LAURA SANDRA COLANTONI, che li rappresenta e difende

unitamente all’avvocato MARIO PAOLO GHELFI giusta procura a margine

del ricorso;

– ricorrenti –

contro

P.E., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA TUSCOLANA 4,

presso lo studio dell’avvocato MARCO PEPE, che la rappresenta e

difende unitamente all’avvocato IRENE LITRICO giusta procura a

margine del controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 4921/2015 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 21/12/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

19/06/2018 dal Consigliere. Dott. ANNA MOSCARINI;

lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del

Sostituto Procuratore generale Dott. BASILE TOMMASO, che ha concluso

chiedendo il rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

P.E., proprietaria di un’azienda avente ad oggetto l’attività artigianale di produzione e vendita al pubblico di gelati e affini, esercitata fin dal (OMISSIS) in (OMISSIS), denominata “(OMISSIS)”, cedette in affitto, con contratto del (OMISSIS), l’azienda a T.D., con decorrenza (OMISSIS). Il contratto cessò effettivamente in data (OMISSIS) con riconsegna del locale alla proprietaria. Non è contestato che, almeno un mese prima della scadenza del contratto, il T. con la moglie M.A. abbiano apposto, sulla vetrina dell’esercizio da loro condotto in locazione, alcuni cartelli con il quale avvisavano la clientela dell’imminente cambio di gestione e della altrettanto imminente apertura di una nuova gelateria, gestita dai medesimi, a distanza di non più di 10 metri dal locale di proprietà della P..

La P. promosse allora ricorso ex art. 700 c.p.c., per inibire l’apertura della nuova gelateria ed ottenere la rimozione dei cartelli ed il Tribunale di Lodi dapprima, con ordinanza, accolse il ricorso ed adottò i provvedimenti inibitori e, successivamente, nel giudizio di merito, rigettò la domanda della P., volta a far accertare i presupposti di un atto di concorrenza sleale ai sensi degli art. 2557 c.c. e art. 2598 c.c., n. 3, condannando T. e M. alle spese della fase cautelare e compensando quelle del merito.

La Corte d’Appello di Milano, adita dalla P., con sentenza del 21/12/2015, ha accolto l’appello motivando, per quel che ancora rileva in questa sede, nel senso di ritenere provato che la gelateria del T. fosse aperta e funzionante in data (OMISSIS) nonostante il provvedimento cautelare fosse stato emesso in data 16/3/2006; che, ai sensi degli artt. 2557 e 2043 c.c., occorreva considerare il comportamento tenuto dagli originari convenuti che, dopo la notifica dell’ordinanza cautelare, tennero aperto l’esercizio commerciale e favorirono lo sviamento di clientela in danno della P. ed in favore di un loro affittuario S., tanto che l’azienda della P. subì una rilevante diminuzione del valore dell’avviamento commerciale, concretizzatosi nel crollo degli incassi e nella successiva chiusura dell’azienda; che, in base alla giurisprudenza di questa Corte, il divieto di concorrenza ai sensi dell’art. 2557 c.c., deve ritenersi sussistere, oltre che a carico del locatore dell’azienda, anche a carico dell’affittuario dopo la scadenza del contratto di affitto.

La Corte d’Appello ha, dunque, sussunto il caso nella fattispecie di cui all’art. 2557 c.c., ha accolto l’appello e condannato i signori T. e M. a pagare in solido in favore della P. la somma di Euro 8.000, a titolo di risarcimento del danno, oltre interessi legali dalla domanda al saldo, e condannato gli appellati alle spese del doppio grado del giudizio.

Avverso quest’ultima sentenza T.D. e M.A. propongono ricorso per cassazione affidato a due motivi. P.E. resiste con controricorso. Il P.G. ha depositato conclusioni scritte nel senso del rigetto del ricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Occorre preliminarmente rilevare che il ricorso, contenendo pedissequamente la riproduzione, nel corpo narrativo, dell’intera sequenza processuale non rispetta il requisito di cui all’art. 366 c.p.c., n. 3 e deve essere dichiarato inammissibile per difetto di specificità. Secondo la giurisprudenza di questa Corte il principio per cui il requisito di cui all’art. 366 c.p.c., n. 3, non è rispettato ove il ricorrente abbia riprodotto pedissequamente l’intero, letterale contenuto degli atti processuali con conseguente inammissibilità del ricorso, va inteso nel senso che una simile struttura del ricorso esclude che l’esposizione sommaria dei fatti di causa possa desumersi per estrapolazione dall’illustrazione del o dei motivi (Cass., 6-3n. 784 del 16/1/2014; Cass., 6-3n. 21260 dell’8/10/2014; Cass., 2, n. 1297 del 20/10/2016); nè sussistono ragioni di particolare complessità della vicenda che giustifichino una eccezione al rigore del principio, come avvenuto in alcuni limitatissimi casi, riconosciuti dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass. U, n. 4324 del 24/2/2014; Cass., 5, n. 19562 del 24/7/2018).

2. Per mera completezza, anche qualora si scendesse all’esame dei due motivi di ricorso, la conclusione sarebbe nel senso della loro inammissibilità.

2.1 Con il primo motivo (violazione e falsa applicazione degli artt. 2557 e 2043 c.c. e art. 115 c.p.c.. Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio: la mancata apertura della nuova gelateria da parte del T., l’assenza di attività idonea a sviare clientela, l’assenza del danno risarcibile) il ricorrente sollecita questa Corte ad una diversa rivalutazione dei fatti, prospettando possibili esegesi alternative dei medesimi, con particolare riguardo all’interpretazione di singole prove testimoniali a scapito di altre, in contrasto con la consolidata giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità; ne consegue che risulta del tutto estranea all’ambito del vizio di motivazione ogni possibilità per la Corte di cassazione di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso l’autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa (Cass., 6 – 5, n. 5024 del 28/3/2012; Cass., L., n. 15205 del 3/7/2014; Cass., 6-5, n. 91 del 7/1/2014; Cass., 3, n. 23940 del 12/10/2017).

2.2 Con il secondo motivo (violazione dell’art. 2598 c.c.; omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio: l’insussistenza dei presupposti della concorrenza sleale) censura la sentenza per aver supposto l’esistenza di un atto di concorrenza sleale laddove ne mancavano con evidenza i presupposti: sia di quello soggettivo della qualifica di imprenditore del soggetto che pone in essere l’atto di concorrenza vietato e del soggetto che ne subisce le conseguenze, sia di quello oggettivo della sussistenza di un rapporto di concorrenza. Il motivo è inammissibile perchè non coglie la ratio decidendi, consistente, non nella prospettata esistenza di un atto di concorrenza sleale ai sensi dell’art. 2598 c.c., ma nel divieto di concorrenza di cui all’art. 2557 c.c., comma 4, sussistente sia a carico del locatore dell’azienda sia a carico dell’affittuario, dopo la scadenza del contratto di affitto.

3. Conclusivamente il ricorso va dichiarato inammissibile, con le conseguenze sulle spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo, e sul cd. “raddoppio” del contributo unificato.

P.Q.M.

La Corte dichiara il ricorso inammissibile e condanna il ricorrente alle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro 3.000 (oltre Euro 200 per esborsi), oltre accessori di legge e spese generali al 15%. Dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Terza Sezione Civile, il 19 giugno 2018.

Depositato in Cancelleria il 20 novembre 2018

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