Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29812 del 18/11/2019

Cassazione civile sez. VI, 18/11/2019, (ud. 23/05/2019, dep. 18/11/2019), n.29812

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –

Dott. GIANNITI Pasquale – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 7614-2018 proposto da:

M.P., in proprio e nella qualità di Liquidatore pro

tempore delle Società COTTON CLUB SRL IN LIQUIDAZIONE, CORDON BLEU

DEI F.LLI M. SRL IN LIQUIDAZIONE, elettivamente domiciliati in

ROMA, VIA OTTAVIANO 91, presso lo studio dell’avvocato GABRIELE

D’OTTAVIO, che li rappresenta e difende unitamente agli avvocati

GIUSEPPE D’OTTAVIO, RAFFAELE D’OTTAVIO;

– ricorrenti –

contro

UNICREDIT LEASING SPA, e per essa DOBANK SPA, in persona del

Procuratore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

DEGLI SCIPIONI 268/A, presso lo studio dell’avvocato MARCO FILESI,

che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5527/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 30/08/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 23/05/2019 dal Consigliere Relatore Dott. GABRIELE

POSITANO.

Fatto

RILEVATO

che:

la Corte d’Appello di Roma dichiarava inammissibile l’impugnazione proposta Cotton Club nei confronti di srl Unicredit leasing S.p.A. sul rilievo che “sulla regolarità telematica non vi sono discussioni”, affermando che la notifica della sentenza ad uno solo dei procuratori produceva gli effetti dell’art. 377 c.p.c., e ciò a fronte della eccezione di inammissibilità dell’appello;

avverso tale decisione propone ricorso per cassazione la Cotton Club. srl in liquidazione affidandosi a due motivi. Resiste con controricorso Unicredit leasing S.p.A., per essa Dobank S.p.A..

Diritto

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo si lamenta la violazione della L. n. 53 del 1994, art. 3 bis, comma 3, e dell’art. 19 bis, comma 5, delle specifiche tecniche del 16 aprile 2014, con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3. Parte ricorrente assume che la prova dell’avvenuta notifica telematica deve avvenire mediante deposito telematico degli atti di causa e quindi della ricevuta di accettazione e di avvenuta consegna completa del messaggio inviato a mezzo pec. Nel caso di specie la sentenza impugnata sarebbe errata perchè avrebbe accertato che non vi erano discussioni in ordine alla regolarità telematica;

con il secondo motivo si deduce la violazione degli artt. 170,285 e 326 c.p.c.. In particolare, la Corte territoriale avrebbe dichiarato che la notifica della sentenza, avvenuta su richiesta di Locat, nei confronti di una sola delle parti processuali, avrebbe spiegato l’effetto di far decorrere il termine breve dell’impugnazione anche nei confronti delle altre, con ciò affermando un principio errato;

il ricorso è inammissibile perchè dedotto in violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 3;

il ricorso non rispetta il requisito della esposizione sommaria dei fatti, prescritto a pena di inammissibilità del ricorso per cassazione dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, che, essendo considerato dalla norma come uno specifico requisito di contenuto-forma del ricorso, deve consistere in una esposizione che deve garantire alla Corte di cassazione, di avere una chiara e completa cognizione del fatto sostanziale, che ha originato la controversia, e del fatto processuale, senza dover ricorrere ad altre fonti o ad atti in suo possesso, compresa la stessa sentenza impugnata (Cass. sez. un. 11653 del 2006). La prescrizione del requisito risponde non ad un’esigenza di mero formalismo, ma a quella di consentire una conoscenza chiara e completa dei fatti di causa, sostanziali e o processuali, che permetta di bene intendere il significato e la portata delle censure rivolte al provvedimento impugnato (Cass. sez. un. 2602 del 2003). Stante tale funzione, per soddisfare il requisito imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, è necessario che il ricorso per cassazione contenga, sia pure in modo non analitico o particolareggiato, l’indicazione sommaria delle reciproche pretese delle parti, con i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che le hanno giustificate, delle eccezioni, delle difese e delle deduzioni di ciascuna parte in relazione alla posizione avversaria, dello svolgersi della vicenda processuale nelle sue articolazioni e, dunque, delle argomentazioni essenziali, in fatto e in diritto, su cui si è fondata la sentenza di primo grado, delle difese svolte dalle parti in appello, ed in fine del tenore della sentenza impugnata;

parte ricorrente, nella “sintesi in fatto” si è limitata a dedurre “in risposta alla eccezione di inammissibilità per esaurimento del termine breve, la odierna ricorrente aveva espressamente obiettato-pagina 1 comparsa conclusionale del 29 giugno 2017 (allegato 2)-“deve essere rigettata eccezione di inammissibilità dell’appello per l’intervenuto decorso del termine breve. Stante infatti la espressa contestazione svolta sul punto dalla appellante-che ha rilevato che la notifica della sentenza impugnata spedita, non si è regolarmente perfezionata-gravava sull’appellato l’onere di fornire la prova della regolarità della notifica secondo la normativa in materia di notifica. Tale prova non è stata assolta. In ogni caso, poichè la notifica è stata rivolta una sola delle parti del giudizio, la stessa non è idonea a fare decorrere il termine per le altre parti, odierni appellanti, così come espresso dalla giurisprudenza di legittimità…”.

La corte romana ha dichiarato la inammissibilità dell’appello sul rilievo che “sulla regolarità telematica non vi sono discussioni ed affermando che la notifica della sentenza ad uno solo dei procuratori costituiti, esplica gli effetti previsti all’art. 377 c.p.c..”

in effetti, il tenore dell’esposizione di fatto risulta omettere: a) l’indicazione dei fatti costituivi della domanda; b) la indicazione delle parti del giudizio; c) le modalità di svolgimento del giudizio di primo grado; d) le ragioni della decisione di primo grado; e) quelle della sentenza impugnata. Lo scrutinio dei due motivi risulta impossibile in ragione delle dette lacune;

oltre a ciò il primo motivo rimane oscuro, in quanto nessuna descrizione dell’oggetto cui si riferisce viene fatta; il secondo, oltre a non descrivere l’oggetto della questione cui intende riferirsi, non prende in esame la motivazione della sentenza impugnata la quale, in relazione a quanto si assume, come questione esaminata, è corretta;

alla luce di quanto precede ricorrono i presupposti per la condanna della parte ricorrente sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 3;

questa Corte ha recentemente riesaminato la questione relativa alla funzione sanzionatoria della condanna per lite temeraria prevista da tale norma, in relazione sia alla necessità di contenere il fenomeno dell’abuso del processo, sia all’evoluzione della fattispecie dei “danni punitivi” che ha progressivamente fatto ingresso nel nostro ordinamento;

al riguardo, è stato affermato che “la condanna ex art. 96 c.p.c., comma 3, applicabile d’ufficio in tutti i casi di soccombenza, configura una sanzione di carattere pubblicistico, autonoma ed indipendente rispetto alle ipotesi di responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., commi 1 e 2, e con queste cumulabile, volta al contenimento dell’abuso dello strumento processuale;

la sua applicazione, pertanto, non richiede, quale elemento costitutivo della fattispecie, il riscontro dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, bensì di una condotta oggettivamente valutabile alla stregua di “abuso del processo”, quale l’aver agito o resistito pretestuosamente (Cass. 27623/2017) e cioè nell’evidenza di non poter vantare alcuna plausibile ragione. Tale pronuncia è stata preceduta da un altro fondamentale arresto secondo il quale “nel vigente ordinamento, alla responsabilità civile non è assegnato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, poichè sono interne al sistema la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile civile, sicchè non è ontologicamente incompatibile con l’ordinamento italiano l’istituto, di origine statunitense, dei “risarcimenti punitivi” (Cass. SSUU 16601/2017)”: nella motivazione della sentenza richiamata l’art. 96 c.p.c., u.c., è stato inserito nell’elenco delle fattispecie rinvenibili, nel nostro sistema, con funzione di deterrenza;

in relazione a ciò, va ribadito, a mero titolo esemplificativo, che ai fini della condanna ex art. 96 c.p.c., comma 3, può costituire abuso del diritto all’impugnazione la proposizione di un ricorso per cassazione basato su motivi manifestamente incoerenti con il contenuto della sentenza impugnata, o completamente privo di autosufficienza, dedotto in assenza della esposizione sommaria dei fatti oppure contenente una mera complessiva richiesta di rivalutazione nel merito della controversia, oppure fondato sulla deduzione del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, ove sia applicabile, ratione temporis, l’art. 348 ter c.p.c., u.c., che ne esclude la invocabilità oppure, come nel caso di specie, non osservante da tutti gli incombenti processuali, anche di rilievo pubblicistico, necessari per l’ammissibilità e/o la procedibilità del giudizio di legittimità;

in tali ipotesi, il ricorso per cassazione integra un ingiustificato sviamento del sistema giurisdizionale, essendo non già finalizzato alla tutela dei diritti ed alla risposta alle istanze di giustizia, ma risolvendosi soltanto, oggettivamente, ad aumentare il volume del contenzioso e, conseguentemente, a ostacolare la ragionevole durata dei processi pendenti ed il corretto impiego delle risorse necessarie per il buon andamento della giurisdizione;

nel caso in esame, la totale violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 3, oltre a determinare la dichiarazione di inammissibilità del ricorso, non è compatibile con un quadro ordinamentale che, da una parte, deve universalmente garantire l’accesso alla giustizia ed alla tutela dei diritti (cfr. CEDU, art. 6), e, dall’altra, deve tener conto del principio costituzionalizzato della ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.), e della necessità di creare strumenti dissuasivi rispetto ad azioni proposte senza l’osservanza delle norme procedurali o con gravi errori di diritto: in tale contesto questa Corte intende valorizzare la sanzionabilità dell’abuso dello strumento giudiziario (Cass. n. 10177 del 2015), proprio al fine di evitare la dispersione delle risorse per la giurisdizione (cfr. Cass. SSUU. 12310/2015 in motivazione) e consentire l’accesso alla tutela giudiziaria dei soggetti meritevoli e dei diritti violati, per il quale, nella giustizia civile, il primo filtro valutativo – rispetto alle azioni ed ai rimedi da promuovere – è affidato alla prudenza del ceto forense coniugata con il principio di responsabilità delle parti (in questi termini, da ultimo, Cass. n. 25177/2018);

deve pertanto concludersi per la condanna della società ricorrente al pagamento in favore del controricorrente, in aggiunta alle spese di lite, di una somma equitativamente determinata in Euro 8.000,00, pari, all’incirca, in termini di proporzionalità (cfr. Cass. SU 16601/2017 sopra richiamata) alla misura dei compensi liquidabili in relazione al valore della causa;

ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso proposto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.;

PQM

La Corte, dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente alle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 8.000,00 per compensi ed esborsi oltre accessori e rimborso spese forfettario nella misura di legge. Condanna altresì la ricorrente al risarcimento del danno ex art. 96 c.p.c., u.c., che liquida, in favore del controricorrente, in Euro 8.000,00.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso proposto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sesta Sezione Civile-3 della Corte Suprema di Cassazione, il 23 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 18 novembre 2019

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