Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2980 del 07/02/2020

Cassazione civile sez. I, 07/02/2020, (ud. 25/11/2019, dep. 07/02/2020), n.2980

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – Presidente –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – rel. Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 18421/2016 proposto da:

M.E.D.I.A. Mezzi Editoriali di Informazione Aziendale S.r.l., in

persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliata in Roma, Via della Giuliana n. 82, presso lo studio

dell’avvocato Rossi Marina, rappresentata e difesa dall’avvocato

Prado Iuri Maria, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Mecalux Italia S.r.l. – Soc. Unipersonale, (già Mecalux Milano

S.r.l.), in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in Roma, Via delle Quattro Fontane n. 20,

presso lo studio dell’avvocato Franchini Vanessa, che la rappresenta

e difende unitamente agli avvocati Di Bella Nino, Vecchi Daniele,

giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2068/2016 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

pubblicata il 26/05/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

25/11/2019 dal cons. dott. NAZZICONE LOREDANA.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con sentenza del 26 maggio 2016, la Corte d’appello di Milano ha respinto l’impugnazione avverso la decisione del Tribunale della stessa città, la quale, disattendendo le altre domande proposte, aveva accertato la commissione di atti di concorrenza sleale nei confronti di M.E.D.I.A. s.r.l., in forza della pubblicità ingannevole diffusa da Mecalux Milano s.r.l. (poi Mecalux Italia s.r.l.), ed inibito l’ulteriore diffusione dei cataloghi cartacei informativi, destinati al mercato italiano, con indicazione di dati ad esso non riferibili.

Adita dalla medesima M.E.D.I.A. s.r.l., la corte territoriale, per quanto ancora rileva, ha escluso che nella condotta della controparte fosse ravvisabile una concorrenza sleale c.d. parassitaria, posta in essere secondo il triplice comportamento stigmatizzato dall’appellante, consistente nell’imitazione servile del prodotto, nella pratica di prezzi non remunerativi e nell’offerta di comunicazioni pubblicitarie ingannevoli.

Sebbene, infatti, il tribunale abbia accertato quest’ultimo elemento, tuttavia, sotto il primo profilo, la corte del merito ha escluso che il format elaborato da M.E.D.I.A. s.r.l. costituisse un’usurpazione del progetto, attese le differenze di funzione e di contenuti, e comunque per non riguardare profili possibili oggetto di privativa, nonchè per l’assenza del necessario elemento temporale dell’imitazione “a rincorsa” ed a breve distanza di tempo; sotto il secondo profilo, ha escluso la pratica di una vendita sottocosto illecita, non sussistendo la posizione dominante della controparte sul mercato ed, anzi, data la preminenza della stessa M.E.D.I.A. s.r.l. nel settore in esame, mentre le prove in atti dimostrano che Mecalux s.r.l. sostenne costi ben inferiori all’assunto di controparte, e solo nel periodo iniziale (essendo ben presto passata all’attività sul web, notoriamente meno costosa), laddove le perdite in bilancio riguardano gli esercizi precedenti all’anno 2006, in cui la condotta illecita sarebbe stata realizzata.

Ha respinto, infine, il motivo concernente le spese processuali liquidate in primo grado.

Avverso questa sentenza viene proposto ricorso per cassazione dalla soccombente, sulla base di due motivi.

Resiste l’intimata con controricorso.

Le parti hanno depositando, altresì, le memorie.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo, la ricorrente deduce la violazione o falsa applicazione dell’art. 2598 c.c., comma 1, n. 3, in quanto la sentenza impugnata non ha operato una valutazione complessiva dei comportamenti di controparte, fondandosi sull’assunto erroneo che l’accertamento della illiceità non richieda la considerazione del complesso delle altrui iniziative, e limitandosi alla loro considerazione parcellizzata, mentre la vendita sottocosto si inseriva in una più ampia strategia di concorrenza parassitaria.

Con il secondo motivo, deduce la violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. oltre all’omesso esame di fatto decisivo, con riguardo al motivo di appello concernente le spese processuali del primo grado, liquidate dal tribunale a carico della M.E.D.I.A. s.r.l. per i due terzi, con compensazione di un terzo, pur avendone parzialmente accolto le pretese.

2. – Il primo motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato.

2.1. – Laddove esso lamenta che la corte del merito non abbia considerato la condotta complessiva di controparte, consistente nell’allegata concorrenza parassitaria, esso non coglie nel segno.

La corte del merito, infatti, ha tenuto conto di ciò, ma ha escluso proprio l’integrazione della c.d. concorrenza parassitaria, provvedendo poi a motivare in ordine ai singoli elementi dall’istante addotti.

Con riguardo alla concorrenza parassitaria, la corte d’appello ha correttamente applicato il principio espresso da questa Corte (Cass. 20 luglio 2004, n. 13423), che ne ha definiti i caratteri, ed anche di recente confermato (cfr. Cass. 12 ottobre 2018, n. 25607; Cass. 29 ottobre 2015, n. 22118), secondo cui la concorrenza sleale parassitaria, ricompresa fra le ipotesi previste dall’art. 2598 c.c., n. 3, consiste in un continuo e sistematico operare sulle orme dell’imprenditore concorrente, attraverso l’imitazione non tanto dei prodotti, quanto piuttosto di rilevanti iniziative imprenditoriali di quest’ultimo, in un contesto temporale prossimo alla ideazione dell’opera, in quanto effettuata a breve distanza di tempo da ogni singola iniziativa del concorrente (nella concorrenza parassitaria diacronica) o dall’ultima e più significativa di esse (in quella sincronica), vale a dire prima che questa diventi patrimonio comune di tutti gli operatori del settore.

Con riferimento alla vendita sottocosto, la corte del merito ha esposto una duplice motivazione, da un lato escludendo il presupposto della posizione dominante rivestita dalla pretesa concorrente sleale, dall’altro individuando, in concreto, costi sostenuti comunque inferiori all’assunto avverso.

In tal modo, la stessa ha correttamente seguito i principi in materia enunciati in sede di legittimità.

Invero, la vendita “sottocosto” – definita dal D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 114, art. 15, comma 7, in tema di “vendite straordinarie”, secondo i parametri convenzionali di calcolo ivi indicati – è stata descritta da questa Corte, in modo più discorsivo, come la vendita di “prodotti sul mercato ad un prezzo particolarmente basso, tale da non apparire (almeno nell’immediato) remunerativo per l’offerente, ma, per ciò stesso, idoneo a porre in difficoltà i concorrenti che praticano un prezzo più elevato” (così Cass. 26 gennaio 2006, n. 1636) o come artificioso abbattimento sottocosto dei prezzi non giustificato dalle obiettive condizioni di acquisto dei beni (così Cass. 20 marzo 2009, n. 6865, non massimata).

Si parla anche di vendita c.d. a prezzi predatori, perchè inferiori in sostanza ai costi di produzione, o dumping interno (voce derivata dall’inglese medievale dumpen o dompen, a sua volta mutuata dallo scandinavo e traducibile in italiano con “lasciar cadere”).

Si tratta di condotta che ha richiamato l’attenzione degli operatori e del legislatore, presentando in sè un’ambivalenza: atteso come, nell’economia di mercato, la riduzione dei prezzi è una finalità della concorrenza, e, purtuttavia, può diventare uno strumento per eliminarla.

La sua disciplina regolamentare è tuttora contenuta nel D.P.R. 6 aprile 2001, n. 218, regolamento recante disciplina delle vendite sottocosto, a norma del predetto D.Lgs. n. 114 del 1998, art. 15 della cui applicazione non è ora questione.

In ordine alla liceità di tali condotte, le disposizioni emanate nel 1998 e nel 2001 limitano, da un lato, il ricorso alla vendita sottocosto, mediante una specifica disciplina, e, dall’altro lato, ne rimettono espressamente, secondo il sistema, la concreta valutazione di liceità all’A.G.C.M. ed al giudice ordinario, sia con riguardo al divieto di abuso di posizione dominante (L. 10 ottobre 1990, n. 287, art. 3), sia in ordine all’eventuale violazione del divieto di concorrenza sleale per contrarietà ai principi della correttezza professionale (art. 2598 c.c., comma 1, n. 3) (cfr. D.P.R. n. 218 del 2001, art. 6, comma 2).

In verità, il legislatore dell’epoca aveva piuttosto accolto l’orientamento dottrinale e giurisprudenziale, espresso in quel momento storico, contrario alle vendite sottocosto (cfr. Cass. 21 aprile 1983, n. 2743, confermata da Cass., sez. un., 22.5.1991, n. 5787), il quale ne affermava l’illiceità, in quanto, in tal modo, da un lato, verrebbe “ad essere subdolamente ed illusoriamente fuorviato il giudizio del consumatore”, e dall’altro lato, sarebbero “infrante le regole su cui gli operatori economici confidano, affrontando il mercato nella misura consentita dalla produttività del sistema e dalle generali condizioni obiettive della produzione”.

Il pensiero sotteso era che, a differenza della competizione industriale fra imprese (basata sul miglioramento della qualità del prodotto e sulla riduzione dei costi di produzione), la competizione extraindustriale (attuata, cioè, mediante strumenti strategici di comunicazione e di distribuzione) non fosse consentita.

Tuttavia, è noto che tale orientamento è stato del tutto superato dalla giurisprudenza successiva (Cass. 26 gennaio 2006, n. 1636), da cui non vi è ragione di discostarsi, la quale – premesso che la clausola indeterminata dell’art. 2598 c.c., comma 1, n. 3, va concretizzata “sulla base di parametri desunti da altre norme, o da ulteriori principi generali, rinvenibili nell’ordinamento” e che l’art. 41 Cost. sulla libertà d’iniziativa economica costituisce il principio generale in materia – ha, anzitutto, chiarito come la scelta di un imprenditore in ordine alla politica dei prezzi sia in via di principio lecita, trattandosi di un comportamento strettamente legato alle valutazioni di rischio, che solo a lui competono, nel rispetto, naturalmente, delle regole sulla disciplina del commercio. Mentre l'”utilità sociale”, dalla medesima disposizione costituzionale prevista a limite della libertà d’impresa, va intesa pur sempre con riguardo al c.d. interesse del mercato, ossia a quello che nuoce o giova al buon funzionamento del medesimo, e, quindi alla generalità dei consumatori: e non al mero interesse di un altro concorrente a non essere messo in difficoltà.

L’esclusione degli imprenditori rivali dal mercato da parte di un’impresa concorrente integra gli estremi della norma invocata soltanto quanto attuata con tecniche illecite. Come si è osservato, altre tecniche di competizione cosiddetta extraindustriale sono spesso anche più aggressive della vendita sottocosto, e certamente meno trasparenti: dato che, almeno in un primo momento, quest’ultima avvantaggia indiscutibilmente l’acquirente.

Donde la conclusione secondo cui la vendita sottocosto (o comunque a prezzi non immediatamente remunerativi) è contraria ai doveri di correttezza ex art. 2598 c.c., comma 1, n. 3, solo se si connota come illecito antitrust, in quanto posto in essere da una impresa in posizione dominante e praticata con finalità predatorie. La vendita sottocosto è favorevole ai consumatori ed al mercato, sino a quando non giunga alla soppressione della concorrenza, e, perciò, si traduca in un danno per gli stessi consumatori ed il mercato, onde solo in tale ultima situazione si realizza l’illecito concorrenziale da dumping interno.

Recenti pronunce della Corte di giustizia confortano tale orientamento, laddove si censura, a norma della direttiva 2005/29/Ce del Parlamento Europeo e del Consiglio, dell’11 maggio 2005, relativa alle pratiche commerciali sleali, il divieto generale di vendita sottocosto (Corte giustizia Unione Europea 19 ottobre 2017, n. 295/16).

Alla stregua di tale principio, pertanto, il motivo di ricorso in esame risulta infondato, non avendo neppure dedotto la ricorrente, in sede di giudizio di merito, la circostanza di avere allegato e provato che la controparte ricopriva una posizione dominante sul mercato di interesse o che la politica di prezzi da essa praticata abbia avuto, anche solo potenzialmente, l’effetto di rinforzare tale posizione in direzione monopolistica e, quindi, di aprire la prospettiva di una successiva libera manipolazione dei prezzi al rialzo. Al contrario, la Corte d’appello ha rilevato che la posizione dominante sul mercato di riferimento è ricoperta dalla stessa M.E.D.I.A. s.r.l. e che, viceversa, la Mecalux Milano s.r.l. non vantava nessuna posizione di dominio.

2.2. – Per il resto, nell’escludere sia l’entità dei costi sopportati dalla odierna intimata, sia nel negare che questa riveste una posizione dominante sul mercato, che anzi appartiene alla stessa ricorrente, la Corte d’appello ha compiuto valutazioni tipicamente di merito, in ordine alle quali non v’è spazio in Cassazione piel per le censure formulate dalla ricorrente, che, pur quando formalmente rivolte a dedurre una violazione di legge, in realtà investono profili di merito e finiscono per sconfinare in un’inammissibile richiesta di rivalutazione di tali profili ad opera del giudice di legittimità.

Si è dunque in presenza di una decisione di merito fondata su valutazioni dalle quale la ricorrente può soggettivamente dissentire, ma il cui iter argomentativo è perfettamente delineato ed è conforme alla legge, come interpretata dal diritto vivente, onde la decisione non appare meritevole delle censure formulate.

3. – Il secondo motivo è fondato.

Erra la sentenza impugnata nel ritenere corretto il criterio di liquidazione delle spese di lite in primo grado, laddove il tribunale ha condannato la parte vittoriosa alla loro corresponsione.

Invero, accolte solo parzialmente le domande attoree, il criterio della soccombenza – pur temperato da quello discrezionale della compensazione parziale – non avrebbe potuto condurre a condannare la parte vittoriosa.

In tal senso è la costante giurisprudenza di questa Corte (fra le altre, Cass. 24 ottobre 2018, n. 26918; Cass. 23 gennaio 2018, n. 1572).

Ne deriva la cassazione sul punto della sentenza impugnata, onde, non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto, la causa va decisa nel merito al riguardo, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., con il porre il medesimo importo liquidato in primo grado a carico della parte ivi soccombente (sia pur parziale) Mecalux Italia s.r.l.

4. – Le spese di legittimità seguono la soccombenza, ma con compensazione nella misura di due terzi, liquidato il restante terzo a carico della controricorrente; del pari, si dispone come in dispositivo per la nuova liquidazione delle spese del grado di appello, tenuto conto del parziale accoglimento ivi delle pretese di M.E.D.I.A. s.r.l. e, quindi, compensandole per quattro quinti, con il residuo quinto a carico di Mecalux Italia s.r.l.

P.Q.M.

La Corte rigetta il primo motivo di ricorso ed accoglie il secondo; cassa la sentenza impugnata e, provvedendo nel merito, condanna la MECALUX ITALIA s.r.l. al pagamento delle spese del primo grado di giudizio, liquidate in Euro 13.000,00, oltre ad Euro 500,00 per esborsi ed alle spese forfetarie nella misura del 15% sui compensi ed agli accessori di legge.

Condanna la MECALUX ITALIA s.r.l. al pagamento delle spese del grado di appello, compensate per quattro quinti e liquidate, nel restante quinto, in Euro 5.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfetarie nella misura del 15% sui compensi ed agli accessori di legge; e di un terzo delle spese del giudizio di legittimità, compensate per il resto e liquidate, già nella predetta misura, in Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfetarie nella misura del 15% sui compensi ed agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 25 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 7 febbraio 2020

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