Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29762 del 19/11/2018

Cassazione civile sez. lav., 19/11/2018, (ud. 23/05/2018, dep. 19/11/2018), n.29762

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Antonio – Presidente –

Dott. CURCIO Laura – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 19282-2014 proposto da:

G.R., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CRATI 20,

presso lo studio dell’avvocato LUIGI SABATINI, che la rappresenta e

difende unitamente all’avvocato ANTONIO DE CAPOA, giusta delega in

atti;

– ricorrente –

contro

POSTE ITALIANE S.P.A., C.F. (OMISSIS);

– intimata –

E SUL RICORSO SUCCESSIVO SENZA NUMERO DI R.G. proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE

MAZZINI 134, presso lo studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI, che la

rappresenta e difende giusta delega in atti;

– ricorrente successivo –

G.R., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CRATI 20,

presso lo studio dell’avvocato LUIGI SABATINI, che la rappresenta e

difende unitamente all’avvocato ANTONIO DE CAPOA, giusta delega in

atti;

– controricorrente al ricorso successivo –

avverso la sentenza n. 36/2014 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 13/02/2014 r.g.n. 555/2007.

La Corte, esaminati gli atti e sentito il consigliere relatore.

Fatto

RILEVATO

che:

la Corte d’Appello di BOLOGNA con sentenza n. 36 in data 16 gennaio – 13 febbraio 2014, accoglieva per quanto di ragione il gravame interposto da POSTE ITALIANE S.p.a. nei confronti di G.R., avverso la pronuncia resa dal locale giudice del lavoro (declaratoria di nullità dei termini finali apposti ai contratti di lavoro subordinato a partire dal 10-12-1997), quindi in parte riformata, per l’effetto dichiarando la nullità dei termini apposti ai contratti stipulati dalle parti successivamente al (OMISSIS), per cui tra le parti si era instaurato un rapporto di lavoro a tempo indeterminato (in motivazione si precisava, in particolare, che la G. era stata impiegata alle dipendenze di POSTE ITALIANE in forza di ben sette consecutivi contratti a termine tra il (OMISSIS), che vi era stata messa in mora mediante richiesta di tentativo di conciliazione ricevuta il (OMISSIS), che il ricorso introduttivo del giudizio era stato depositato il 23 maggio 2003, che la lavoratrice resistente aveva evidenziato la scadenza del (OMISSIS), che erano stati operanti nella specie tra gli altri gli accordi sindacali del 25 settembre 1997, 16 gennaio e 27 aprile 1998, richiamando altresì le pronunce di questa Corte circa la possibilità di concludere contratti in deroga, a termine, full-time, fino al (OMISSIS), sicchè la domanda andava accolta con riferimento al contratto di assunzione a tempo determinato, stipulato il (OMISSIS) per il periodo (OMISSIS)), con obbligo per la società convenuta di ripristinarlo e con la condanna, inoltre, della stessa al pagamento dell’indennizzo L. n. 183 del 2010, ex art. 32, in ragione di sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre accessori con decorrenza dalla decisione impugnata ed oltre che al rimborso delle ulteriori spese di lite, liquidate in complessivi Euro 2500,00; che contro la suddetta decisione d’appello ha proposto un primo ricorso per cassazione la G. con due motivi e che altro ricorso è stato proposto da POSTE ITALIANE S.p.a., giusta l’atto in data 11 febbraio 2015, affidato a quattro motivi, al quale ha resistito la stessa G.R. mediante controricorso con contestuale ricorso incidentale in data 25 marzo 2015, fondato su due motivi;

che la G. ha pure depositato memoria illustrativa per l’adunanza fissata al 23 maggio 2018, in relazione alla quale sono stati comunicati tempestivamente gli avvisi di rito agli aventi diritto, senza peraltro che risulti depositata requisitoria scritta dall’Ufficio requirente in sede.

Diritto

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo del ricorso in data 10/15 luglio 2014 la G. ha lamentato, ex art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione dell’art. 420, medesimo codice di rito, ipotizzando una non consentita emendatio libelli, avendo la società appellante chiesto soltanto all’udienza del 16 gennaio 2014, a seguito del ricorso ex art. 434 c.p.c., notificato il 20 settembre 2010, l’applicazione dello jus superveniens di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32;

che con il secondo motivo la ricorrente principale ha dedotto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, l’omesso e l’insufficiente esame e motivazione di un fatto decisivo per il giudizio, con riferimento, in particolare, al criterio di calcolo dell’indennità dovuta ai sensi del citato art. 32;

che entrambi i suddetti motivi sono stati riproposti, pedissequamente, dalla G. con il proprio ricorso principale;

che POSTE ITALIANE S.p.a. con il primo motivo del suo ricorso (successivo a quello inizialmente proposto dalla G., quindi da considerare incidentale) ha lamentato violazione degli artt. 1372,1175,1375,2697,1427 e 1431 c.c., nonchè dell’art. 100 c.p.c., in relazione alla eccezione d’inammissibilità della domanda per effetto di intervenuta risoluzione consensuale, però disattesa dalla Corte distrettuale; con il secondo motivo, ex art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e falsa applicazione della L. n. 56 del 1987, art. 23, art. 8 c.c.n.l. del 1994, degli accordi sindacali 25 settembre 1997, 16 gennaio 1998, 27 aprile 1998, 2 luglio 1998, 24 maggio 1999 e 18 gennaio 2001 in connessione con gli artt. 1362 c.c. e ss.; con il terzo motivo, ex art. 360 c.p.c., n. 5, l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, avendo l’impugnata sentenza mancato di valutare la fonte di individuazione della volontà delle parti collettive di fissare, alla data ultima del (OMISSIS), il termine finale di efficacia dell’accordo integrativo del 25 settembre 1997, in quanto dal corpo della motivazione non era dato comprendere in forza di quale ragionamento o di quale percorso argomentativo la Corte d’Appello fosse approdata alla decisione impugnata; che con il quarto motivo, infine, è stata lamentata la violazione e falsa applicazione della L. n. 183 del 2010, art. 32, per la parte in cui la decorrenza degli accessori ivi riconosciuti era stata individuata nella sentenza di primo grado, anzichè nella pronuncia di appello, secondo cui la nullità, parziale, del contratto a tempo determinato risaliva a quello stipulato il (OMISSIS) e non già a quello anteriore decorrente dal (OMISSIS);

che entrambi i ricorsi vanno respinti per le seguenti ragioni;

che, invero, esaminando in primo luogo, per ordine logico-giuridico i primi tre motivi del ricorso di POSTE ITALIANE, va comunque disattesa la doglianza circa il mancato, riconoscimento della pretesa risoluzione consensuale, visto che la Corte di merito, competente al riguardo, correttamente e come da prevalente e consolidata giurisprudenza, non ha comunque rilevato sufficienti e univoci elementi di cognizione, da cui poter desumere l’ipotizzato mutuo consenso, non risultando in proposito sufficiente il solo tempo trascorso tra la cessazione dell’ultimo contratto a termine e la prima attivazione da parte della G., dovendosi ad ogni modo ed in via assorbente richiamare il principio, secondo cui in tema di contratti a tempo determinato, l’accertamento della sussistenza di una concorde volontà delle parti diretta allo scioglimento del vincolo contrattuale costituisce apprezzamento di merito che, se immune da vizi logici, giuridici e adeguatamente motivato, si sottrae al sindacato di legittimità, secondo le rigorose regole sui motivi che possono essere fatti valere al fine di incrinare la ricostruzione di ogni vicenda storica antecedente al contenzioso giudiziale, previste dall’art. 360 c.p.c., n. 5, tempo per tempo vigente (Cass. sez. lav. n. 29781 del 12/12/2017);

che, quindi, non sono sindacabili in questa sede di legittimità gli accertamenti in punto di fatto compiuti dagli aditi giudici di merito, neppure ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, (secondo il testo attualmente vigente, con riferimento alla sentenza de qua, pubblicata nel febbraio dell’anno 2014), non risultando omesso l’esame di alcun fatto storico e decisivo, nè alcuna motivazione inferiore al c.d. minimo costituzionale, nei sensi indicati dalle note pronunce di questa Corte a sezioni unite, nn. 8053 e 8054 del 2014, sicchè non è consentito altro e diverso apprezzamento delle acquisite emergenze istruttorie;

che parimenti vanno respinti il secondo ed il terzo motivo del ricorso di POSTE ITALIANE, tra loro connessi e perciò esaminabili congiuntamente, dovendosi anche qui richiamare la conforme e ormai consolidata giurisprudenza di questa Corte (v., tra le altre, Cass. lav. n. 9259 del 09/04/2008), secondo cui la L. n. 56 del 1987, art. 23, nel consentire alla contrattazione collettiva di individuare nuove ipotesi rispetto a quelle previste dalla L. n. 230 del 1962, non impone di fissare contrattualmente dei limiti temporali alla facoltà di assumere lavoratori a tempo determinato, ma, ove un limite sia stato invece previsto, la sua inosservanza determina la illegittimità del termine apposto, dovendosi ritenere, diversamente opinando, che la clausola contenuta nell’accordo attuativo sia “senza senso”, in violazione del canone ermeneutico di cui all’art. 1367 c.c.; nè – avuto riguardo alle assunzioni effettuate oltre il (OMISSIS), limite temporale stabilito con l’accordo attuativo del 16.1.1998, con cui era stato prorogato l’originario termine del 31 gennaio 1998, previsto con l’accordo del 25 settembre 1997 – può attribuirsi efficacia sanante all’accordo del 18 gennaio 2001, dovendosi escludere che le parti stipulanti avessero il potere, anche mediante lo strumento dell’interpretazione autentica, di intervenire su diritti indisponibili dei lavoratori in quanto già perfezionati e, quindi, di autorizzare retroattivamente la stipulazione di contratti a termine non più legittimi. In senso analogo: Cass. Sez. 6 – L, ordinanza n. 22015 del 28/10/2010; Cass. lav. n. 3116 – 11/02/2010; Sez. 6 – L, n. 21355 del 15/10/2011); che va, quindi, esaminati, ma con esito negativo, il primo motivo addotto a sostegno di entrambe le impugnazioni proposte dalla G., integrante per la verità, in astratto, preteso error in procedendo, come tale però ritualmente denunciabili soltanto ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4 (non già 3) ed univocamente in termini di nullità, nella specie comunque insussistente, avendo correttamente la Corte distrettuale – una volta essendo stata impugnata la sentenza di primo grado sull’an debeatur, per giunta con conseguente riforma parziale sul punto – applicato lo jus superveniens di cui al citato art. 32 (entrato in vigore in epoca successiva all’interposto gravame e ancor prima del passaggio in giudicato della pronuncia appellata), in relazione al risarcimento dovuto per effetto della operata conversione, da rapporto a termine a tempo indeterminato, tanto più che tale norma espressamente prevedeva la sua operatività per tutti i giudizi ancora pendenti, nessuno escluso, ivi compresi quindi quelli impugnati con ricorso per cassazione (cfr. in part. Cass. sez. un. civ. n. n. 21691 del 05/07 – 27/10/2016: “…Tornando alla lettura del disposto legislativo costituito dalla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 7, per il quale “le disposizioni di cui ai commi 5 e 6, trovano applicazione a tutti i giudizi, compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge”, deve ritenersi che “pendenti” siano anche i giudizi in cui stato proposto appello contro la parte principale della decisione di primo grado, dalla quale dipende, in quanto legata da un nesso di causalità imprescindibile, la parte relativa al risarcimento del danno. Il concetto di “pendenza” indica che una controversia sia tutt’ora “sotto giudizio” e non può negarsi che sino al momento in cui non diviene definitiva la decisione sulla parte principale rimanga sub judice, e quindi sia pendente, anche la parte da essa dipendente della sentenza impugnata. Le due questioni sottoposte dalla sezione lavoro alle sezioni unite devono essere, pertanto, definite in base ai seguenti principi di diritto: “L’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, deve essere interpretato nel senso che la violazione di norme di diritto può concernere anche disposizioni emanate dopo la pubblicazione della sentenza impugnata, qualora siano applicabili al rapporto dedotto in giudizio perchè dotate di efficacia retroattiva. In tal caso è ammissibile il ricorso per cassazione per violazione di legge sopravvenuta”. “Il ricorso per violazione di legge sopravvenuta incontra il limite del giudicato. Se la sentenza si compone di più parti connesse tra loro in un rapporto per il quale l’accoglimento dell’impugnazione nei confronti della parte principale determinerebbe necessariamente anche la caducazione della parte dipendente, la proposizione dell’impugnazione nei confronti della parte principale impedisce il passaggio in giudicato anche della parte dipendente, pur in assenza di impugnazione specifica di quest’ultima””);

che parimenti va disatteso il secondo motivo del ricorso proposto dalla G., con il quale, inammissibilmente si pretende in questa sede un riesame di merito, ex cit. art. 360, n. 5, della liquidazione dell’indennizzo di cui all’art. 32, laddove in effetti se ne censura la motivazione (non avendo la Corte bolognese “esplicitato in alcun modo il fondamento di tale decisione, che, pertanto, risulta non corretta da alcun iter logico-motivazionale”. Cfr. sul punto anche Cass. 6^ civ. – L n. 2498 del 10/02/2015: l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo, censurabile ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie, sicchè il fatto storico non può identificarsi con il difettoso esame dei parametri della liquidazione dell’indennità L. 4 novembre 2010, n. 183, ex art. 32, comma 5, sui quali il giudice di merito conduce la valutazione ai fini della liquidazione della stessa. Conforme, id. n. 13448 del 2015);

che, infine, va anche respinto il quarto e ultimo motivo del ricorso di POSTE ITALIANE, visto che correttamente la decorrenza degli accessori dell’indennizzo liquidato ai sensi dell’art. 32 è stata individuata nella sentenza di primo grado, la quale aveva riconosciuto il diritto alla conversione, invocata dalla G. mediante l’esperimento di azione di nullità parziale, ancorchè poi riformata in appello, ma limitatamente ai soli effetti temporali, posteriori, del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, come tale perciò già accertato tramite la gravata pronuncia, avente natura dichiarativa della suddetta nullità (v. da ultimo anche Cass. lav. n. 5953 del 12/03/2018, secondo cui l’indennità di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, pur avendo funzione risarcitoria, rientra tra i crediti di lavoro, e su di essa, ai sensi dell’art. 429 c.p.c., comma 3, spettano la rivalutazione monetaria e gli interessi legali dalla data della pronuncia giudiziaria dichiarativa della illegittimità della clausola appositiva del termine al contratto di lavoro subordinato, indipendentemente dall’epoca di entrata in vigore della legge, posto che il citato art. 32, comma 7, ne ha sancito l’applicabilità anche ai giudizi pendenti);

che, pertanto, vanno respinte entrambe le anzidette impugnazioni, di modo che sussistono anche valide ragioni per compensare le spese di questo giudizio di legittimità;

che, tuttavia, atteso l’esito negativo dei suddetti ricorsi, ricorrono i presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13,comma 1 quater, circa il raddoppio del contributo unificato.

P.Q.M.

La Corte RIGETTA tutti i ricorsi e dichiara compensate tra le parti le relative spese.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente principale e della ricorrente incidentale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale e per quello incidentale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 – bis.

Così deciso in Roma, il 23 maggio 2018.

Depositato in Cancelleria il 19 novembre 2018

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