Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29761 del 19/11/2018

Cassazione civile sez. lav., 19/11/2018, (ud. 05/04/2018, dep. 19/11/2018), n.29761

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. CURCIO Laura – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

P.G., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

NIZZA 59, presso lo studio dell’avvocato AMOS ANDREONI, che lo

rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

ALERION CLEAN POWER S.p.A. (già ALERION INDUSTRIES S.P.A.), in

persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA MICHELE MERCATI 51, presso lo studio

dell’avvocato ALESSANDRA SIRACUSANO, che la rappresenta e difende,

giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso il provvedimento n. 8249/2012 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 18/03/2013 R.G.N. 4494/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

05/04/2018 dal Consigliere Dott. FEDERICO DE GREGORIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

RITA SANLORENZO che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato AMOS ANDREONI;

udito l’Avvocato ALESSANDRA SIRACUSANO.

Fatto

FATTI di CAUSA

P.G. appellava la sentenza n. 17583 dell’anno 2010, pronunciata del giudice del lavoro di Roma, che aveva respinto la domanda dello stesso appellante, volta ad accertare la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato di fatto dall’aprile 1978 sino alla fine di agosto dell’anno 2001 alle dipendenze della S.p.A. ALERION INDUSTRIES, già FINCASA 44 S.p.a., con mansioni corrispondenti alla qualifica dirigenziale “convenzionale” di capo dell’ufficio legale, secondo il C.C.N.L. terziario, con richiesta quindi anche di condanna della società convenuta al pagamento delle conseguenti retribuzioni, pari a complessivi 1.121.421,57 Euro, nonchè per sentir accertare l’invalidità dell’asserito licenziamento intimatogli nel settembre dell’anno 2001, per difetto di giusta causa o di giustificato motivo, perciò con diritto alla conseguente reintegra.

La Corte di Appello di Roma rigettava l’interposto gravame con sentenza n. 8249 in data 22 ottobre 2012 – 18 marzo 2013, condannando altresì l’appellante al rimborso delle spese in favore della costituita società appellata.

Secondo la Corte capitolina, dovevano condividersi le argomentazioni svolte dal giudice di primo grado in ordine alla valutazione delle risultanze probatorie, circa la ritenuta insussistenza degli elementi caratterizzanti l’asserita subordinazione. Invero, le circostanze emerse in sede di prova testimoniale non risultavano incompatibili con l’autonomia del rapporto: l’assiduità della presenza non era di per sè sufficiente a tal fine, giustificandosi con l’alto livello professionale caratterizzante la prestazione lavorativa in oggetto e con il numero elevato di cariche sociali ricoperte presso le società partecipate, autonomamente remunerate. Per contro, non risultavano la predeterminazione di una retribuzione dell’attività svolta a favore della società convenuta, avendo anzi l’attore sostenuto di non aver mai percepito alcunchè a tale titolo per tutta la durata del rapporto di lavoro di circa 24 anni. Non risultava, inoltre, che fossero stati imposti o regolati rapporti di gerarchia e orari di lavoro, nè modalità operative. Lo stesso ricorrente aveva asserito di aver svolto la propria attività con un ampio margine di discrezionalità e autonomia, mentre – al di là di generiche indicazioni di impostazione, compatibili con un necessario riferimento all’attività aziendale – non erano emerse circostanze fattuali che inducessero a ritenere l’esercizio da parte della società di un controllo successivo sull’operato del ricorrente, quale espressione del potere di eterodirezione, sia pure nella forma attenuata riferibile ad una carica dirigenziale. I testimoni escussi avevano riferito che l’attore si occupava della supervisione e del perfezionamento dei testi contrattuali, per tutta una serie di contratti preliminari tra amministratore e acquirente-cliente, ai quali il P. partecipava e che si svolgevano presso i locali della società, così come per la stipula di rogiti notarili, il che giustificava la presenza continua del ricorrente in azienda e la messa a sua disposizione di un ufficio presso i locali aziendali, essendo la società punto di riferimento logistico delle partecipate.

In dipendenza della ritenuta insussistenza degli elementi caratterizzanti la subordinazione, restavano assorbiti gli ulteriori motivi di appello concernenti il dedotto licenziamento e le conseguenti questioni risarcitorie.

Avverso l’anzidetta pronuncia ha proposto ricorso per cassazione P.G. con atto del 29/30 agosto 2013, affidato ad un unico articolato motivo (ex art. 360 c.p.c., n. 3 violazione e falsa applicazione degli artt. 2094 e 2222 c.c.), cui ha resistito la S.p.A. ALERION CLEAN POWER (già ALERION INDUSTRIES S.p.a.) mediante controricorso del 25 – 27 settembre 2013.

Memorie ex art. 378 c.p.c. sono state depositate dalle parti.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Il ricorrente ha sostenuto che erroneamente la sentenza impugnata aveva ritenuto di escludere la natura subordinata del rapporto di lavoro in base all’unico criterio discretivo dell’eterodirezione. Eppure era noto che per le elevate professionalità, come per altri casi borderline, tale criterio andava integrato e ponderato con quello concomitante della doppia alienità (nel senso di destinazione esclusiva ad altri) del risultato (per il cui conseguimento la prestazione di lavoro è utilizzata) e dell’organizzazione produttiva in cui la prestazione si inserisce, inizialmente elaborato della Corte costituzionale con la sentenza n. 30 del 12 febbraio 1996, poi recepito dalla giurisprudenza di legittimità con la sentenza 9 ottobre 2006 n. 21646, nonchè con le successive pronunce 16 gennaio 2007 n. 820 e n. 18692 del 2007 ed altre, i cui principi non risultavano rispettati dalla sentenza impugnata, laddove era stato premesso l’alto livello professionale caratterizzante la prestazione, con conseguente necessità di una valutazione della subordinazione in forma attenuata ed erano stati avvalorati gli elementi di fatto dichiarati dai testimoni escussi, comprovanti la doppia alienità (alienità del risultato e dell’organizzazione produttiva). D’altra parte, la sentenza di appello affermava e convalidava la sussistenza della alienità della organizzazione produttiva, posto che quella attività si svolgeva presso i locali della società e con la messa a disposizione di un ufficio presso i locali aziendali.

Tanto premesso (alta professionalità, inerenza delle funzioni al core business delle società, subordinazione attenuata, inserimento all’interno dell’altrui struttura organizzativa, mancanza di mezzi propri, alterità del prodotto e dell’organizzazione), ad avviso del ricorrente la sentenza impugnata illegittimamente aveva fatto “riferimento ad un unico requisito posto dall’articolo 2094 c. c. basato sulla eterodirezione, dimenticando che la nozione di dipendenza, pur contemplata testualmente dall’articolo 2094, implicava la verifica aggiuntiva, e nei casi dubbi, prevalente della doppia alienità. Obliterando del tutto la valenza di tale secondo requisito, la sentenza impugnata era incorsa in un vizio di violazione di legge (art. 2094 c.c. e, correlativamente dell’art. 2222 c.c.), per amputazione di un segmento normativo in essa contenuto”.

Le anzidette doglianze vanno disattese in base alle seguenti considerazioni.

Ed invero, la Corte di merito ha motivatamente evidenziato le anzidette circostanze fattuali, che a suo avviso non dimostravano nel caso di specie gli estremi della subordinazione ex art. 2094 c.c..

Questa Corte (v. Cass. lav. n. 11502 del 2/9/2000) ha avuto modo di osservare che in relazione alla configurabilità, da un lato, di una nozione giuridica di subordinazione nella prestazione di lavoro (che dà rilievo alla messa a disposizione da parte del lavoratore delle proprie energie a favore del datore di lavoro, con l’assoggettamento al suo potere direttivo e disciplinare), e, dall’altro, di elementi sintomatici della situazione di subordinazione (quali la continuità dello svolgimento delle mansioni, il versamento a cadenze periodiche del relativo compenso, la presenza di direttive tecniche e di poteri di controllo e disciplinari, il coordinamento dell’attività lavorativa rispetto all’assetto organizzativo aziendale all’alienità del risultato, l’esecuzione del lavoro all’interno della struttura dell’impresa con materiali ed attrezzature proprie della stessa, l’osservanza di un vincolo di orario, l’assenza di rischio economico), il giudizio relativo alla qualificazione di uno specifico rapporto, come subordinato o autonomo, ha carattere sintetico (nel senso che, rilevati alcuni indici significativi, li valuta nel loro assieme, in relazione alle peculiarità del caso concreto) e integra un giudizio di fatto censurabile, in sede di legittimità, solo per ciò che riguarda sia la individuazione dei caratteri identificativi del lavoro subordinato, mentre è insindacabile, se sorretta da motivazione adeguata ed immune da vizi logici e giuridici, la scelta degli elementi di fatto cui attribuire, da soli o in varia combinazione tra loro, rilevanza qualificatoria sia la riconduzione o meno degli stessi allo schema contrattuale del lavoro subordinato (conformi Cass. lav. nn. n. 8407 del 20/06/2001, n. 9019 del 03/07/2001, n. 11178 del 14/12/1996).

D’altro canto, secondo la più recente giurisprudenza di legittimità (Cass. lav. n. 18414 in data 01/08/2013, conforme Cass. 1^ civ. n. 9463 del 10-05-2016), ai fini della qualificazione come lavoro subordinato del rapporto di lavoro del dirigente, quando questi sia titolare di cariche sociali che ne fanno un “alter ego” dell’imprenditore (preposto alla direzione dell’intera organizzazione aziendale o di una branca o settore autonomo di essa), è necessario – ove non sussista, al pari del caso di specie qui in esame, alcuna formalizzazione di un contratto di lavoro subordinato di dirigente – verificare se il lavoro dallo stesso svolto possa comunque essere inquadrato all’interno della specifica organizzazione aziendale, individuando la caratterizzazione delle mansioni svolte, e se possa ritenersi assoggettato, anche in forma lieve o attenuata, alle direttive, agli ordini e ai controlli del datore di lavoro, nonchè al coordinamento dell’attività lavorativa in funzione dell’assetto organizzativo aziendale (cfr. in senso analogo anche Cass. lav. n. 7517 del 15/05/2012, secondo cui ai fini della configurazione del lavoro dirigenziale – nel quale il lavoratore gode di ampi margini di autonomia ed il potere di direzione del datore di lavoro si manifesta non in ordini e controlli continui e pervasivi, ma essenzialmente nell’emanazione di indicazioni generali di carattere programmatico, coerenti con la natura ampiamente discrezionale dei poteri riferibili al dirigente – il giudice di merito deve valutare, quale requisito caratterizzante della prestazione, l’esistenza di una situazione di coordinamento funzionale della stessa con gli obiettivi dell’organizzazione aziendale, idonea a ricondurre ai tratti distintivi della subordinazione tecnico-giuridica, anche se nell’ambito di un contesto caratterizzato dalla c.d. subordinazione attenuata).

Orbene, nel caso di specie, posto che non risulta comunque denunciata dal ricorrente alcuna omissione di accertamento di fatto in sede di merito, ex art. 360 c.p.c., n. 5, va rilevato come sia stata invece appurata la compatibilità delle acclarate circostanze con la natura autonoma del rapporto, visto che l’assidua presenza in ambito aziendale era dovuta all’alto livello professionale delle prestazioni rese dall’attore in relazione alle numerose cariche sociali da costui ricoperte presso le società partecipate dalla convenuta e distintamente remunerate, nonchè giustificata in base a quanto sul punto riferito anche dalle testimonianze richiamate nella sentenza impugnata, donde altresì la messa a disposizione di un ufficio presso i locali aziendali, essendo la società punto di riferimento logistico di quelle dalla stessa partecipate. Per di più, con riferimento all’attività che si assume svolta alle dipendenze della società appellata, per la durata di ben 24 anni circa, la Corte di merito ha evidenziato come lo stesso ricorrente avesse dichiarato di non aver mai percepito alcuna retribuzione, con ciò evidentemente volendo intendere anche la poca verosimiglianza di un rapporto di natura subordinata durato anni però in assenza di corrispettiva remunerazione. La Corte capitolina ha, inoltre, motivatamente escluso un potere di eterodirezione, ancorchè nella forma attenuata compatibile con la pretesa carica dirigenziale (stante l’assenza di rapporto gerarchico, attesi i riconosciuti ampi margini di discrezionalità e di autonomia da parte dello stesso ricorrente nell’ambito del proprio operato, non risultante nemmeno soggetto ad un controllo successivo da parte della pretesa datrice).

Dunque, la pronuncia qui impugnata non appare affetta dagli errori di diritto denunciati, per quanto concerne l’applicazione dell’art. 2094 c.c. in tema di lavoro subordinato, che del resto testualmente contempla le prestazioni di tipo intellettuale o manuale, però alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore, caratteri ineludibili anche per i dirigenti, sebbene in misura attenuata. Non rileva, per contro, nel caso di specie l’art. 2222 c.c. in tema di lavoro autonomo, atteso che la controversia di cui è processo nell’ambito dell’instaurato contenzioso riguarda l’asserita natura subordinata del rapporto in questione, e non già la corretta e precisa qualificazione di quello, di natura autonomo-professionale (o di altro genere, che qui perciò non interessa definire) del rapporto intercorso tra le parti di questo giudizio.

D’altro canto, questa Corte con sentenza 19 aprile 2010, n. 92521 (che riprende Cass. Sez. Un. 30 giugno 1999 n. 379), ai fini della distinzione tra lavoro autonomo e subordinato ha affermato il principio secondo cui “quando l’elemento dell’assoggettamento del lavoratore alle direttive altrui non sia agevolmente apprezzabile a causa della peculiarità delle mansioni (e, in particolare, della loro natura intellettuale o professionale) e del relativo atteggiarsi del rapporto, occorre fare riferimento a criteri complementari e sussidiari, come quelli della collaborazione, della continuità delle prestazioni, dell’osservanza di un orario determinato, del versamento a cadenze fisse di una retribuzione prestabilita, del coordinamento dell’attività lavorativa all’assetto organizzativo dato dal datore di lavoro, dell’assenza in capo al lavoratore di una sia pur minima struttura imprenditoriale, elementi che, privi ciascuno di valore decisivo, possono essere valutati globalmente con indizi probatori della subordinazione” (v. altresì Cass. 15 giugno 2009, n. 13858, secondo cui, nei casi di difficile qualificazione a causa della natura intellettuale dell’attività svolta, la sussistenza dell’essenziale criterio distintivo della subordinazione, intesa come assoggettamento del lavoratore al potere organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, deve necessariamente essere verificata sulla base di elementi sussidiari che il giudice di merito deve individuare con accertamento di fatto, incensurabile in sede di legittimità se adeguatamente motivato. V. parimenti Cass. lav. n. 9256 del 17/04/2009, secondo cui in tema di distinzione tra lavoro subordinato e lavoro autonomo, l’esistenza del vincolo di subordinazione va valutata dal giudice di merito – il cui accertamento è censurabile in sede di legittimità quanto all’individuazione dei criteri generali ed astratti da applicare al caso concreto, mentre si sottrae al sindacato, se sorretta da motivazione adeguata e immune da vizi logici, la valutazione delle risultanze processuali – avuto riguardo alla specificità dell’incarico conferito al lavoratore ed al modo della sua attuazione, fermo restando che, ove l’assoggettamento del lavoratore alle direttive altrui non sia agevolmente apprezzabile a causa della peculiarità delle mansioni, occorre fare riferimento a criteri complementari e sussidiari -come quelli della collaborazione, della continuità delle prestazioni, dell’osservanza di un orario predeterminato, del versamento a cadenze fisse di una retribuzione prestabilita, del coordinamento dell’attività lavorativa all’assetto organizzativo dato dal datore di lavoro, dell’assenza in capo al lavoratore di una sia pur minima struttura imprenditoriale- che, privi ciascuno di valore decisivo, possono essere valutati globalmente come indizi probatori della subordinazione).

Nè appare dirimente, per quanto sopra osservato, il criterio della doppia alienità (già ritenuto soprattutto da talune risalenti pronunce del giudice delle leggi: alienità nel senso di destinazione esclusiva ad altri del risultato per il cui conseguimento la prestazione di lavoro è utilizzata e alienità dell’organizzazione produttiva in cui la prestazione si inserisce), sicchè nella definizione della Corte Costituzionale, la subordinazione comporta l’incorporazione della prestazione di lavoro in una organizzazione produttiva sulla quale il lavoratore non ha alcun potere di controllo, essendo costituita per uno scopo in ordine al quale egli non ha alcun interesse individuale giuridicamente tutelato (peraltro, la più recente sentenza della Consulta in data 7 maggio 2015 n. 76 ha fornito una diversa nozione di subordinazione, senza dubbio restrittiva, in cui assume valore preminente la etero-direzione, con l’emanazione di ordini specifici, dettagliati, tali da svilire l’autonomia del lavoratore, che non possono essere confusi con direttive di indole generale). Ed invero, come ricordato da questa Corte anche con la n. 1576 del 26/11/2009 – 26/01/2010, circa la problematica degli effetti delle sentenze interpretative di rigetto della Corte costituzionale sull’interpretazione delle leggi da parte del giudice ordinario, richiamando in particolare Cass. 9 gennaio 2004 n. 166, ove il giudice delle leggi, nel ritenere non infondato il denunciato vizio di incostituzionalità di una certa disposizione nella interpretazione non implausibile fornitane dal giudice del merito, indichi una possibile, diversa interpretazione della stessa disposizione conforme a Costituzione, tale interpretazione adeguatrice non interferisce con il controllo di legittimità rimesso alla Corte di Cassazione ed il suo effetto vincolante per i giudici ordinari e speciali, non esclusa la Corte di cassazione, riguarda soltanto il divieto di accogliere quella interpretazione che la Corte costituzionale ha ritenuto, sia pure con una pronuncia di infondatezza della questione di legittimità costituzionale sottoposta al suo esame, viziata. Come ancor più precisamente chiarito dalle Sezioni unite civili di questa Corte con la sentenza n. 27986 del 16/12/2013, il vincolo che deriva, sia per il giudice “a quo” sia per tutti gli altri giudici comuni, da una sentenza interpretativa di rigetto, resa dalla Corte costituzionale, è soltanto negativo, consistente cioè nell’imperativo di non applicare la norma ritenuta non conforme al parametro costituzionale evocato e scrutinato dalla Corte costituzionale, così da non ledere la libertà dei giudici di interpretare ed applicare la legge – ai sensi dell’art. 101 Cost., comma 2 – e, conseguentemente, neppure la funzione di nomofilachia attribuita alla Corte di cassazione dall’art. 65 dell’Ordinamento Giudiziario, non essendo preclusa la possibilità di seguire, nel processo “a quo” o in altri processi, “terze interpretazioni” ritenute compatibili con la Costituzione, oppure di sollevare nuovamente, in gradi diversi dello stesso processo “a quo” o in un diverso processo, la questione di legittimità costituzionale della medesima disposizione, sulla base della interpretazione rifiutata dalla Corte costituzionale, eventualmente evocando anche parametri costituzionali diversi da quello precedentemente indicato e scrutinato.

Pertanto, il ricorso va rigettato, con conseguente condanna del soccombente al rimborso delle relative spese, sussistendo, quindi, anche i presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese, che liquida a favore della società controricorrente in 9000,00 (novemila/00) Euro per compensi professionali ed in Euro 200,00 (duecento/00) per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 5 aprile 2018.

Depositato in Cancelleria il 19 novembre 2018

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