Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29760 del 15/11/2019

Cassazione civile sez. lav., 15/11/2019, (ud. 02/10/2019, dep. 15/11/2019), n.29760

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Presidente –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – rel. Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 18773/2015 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE EUROPA 190, presso

lo studio dell’Avvocato ANNA MARIA ROSSANA URSINO, dell’AREA LEGALE

TERRITORIALE CENTRO DI POSTE ITALIANE, che la rappresenta e difende,

anche con facoltà disgiunte, unitamente all’Avvocato STEFANO LEDDA

in virtù di delega in atti.

– ricorrente –

contro

C.F.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 132/2015 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,

depositata il 12/02/2015 R.G.N. 1270/2013;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio dal

Consigliere Dott. GUGLIELMO CINQUE.

Fatto

RILEVATO

che:

1. Previo ricorso al Tribunale di Chieti Poste Italiane spa ne otteneva il decreto n. 145/2009, emesso il 27.2.2009, con il quale veniva ingiunto a C.F. il pagamento della somma di Euro 30.680,76, oltre accessori, a titolo di restituzione dell’importo lordo erogato in esecuzione della sentenza n. 632/05 successivamente riformata dalla Corte di appello di L’Aquila.

2. A seguito di opposizione, il Tribunale di Chieti, con la pronuncia n. 491/2013, riduceva l’importo dovuto dal C. limitatamente alla somma netta effettivamente percepita, ritenendo esclusa la possibilità di ripetere importi al lordo di ritenute fiscali mai entrate nella sfera patrimoniale del dipendente.

3. La Corte di appello di L’Aquila, con la sentenza n. 132/2015, rigettava il gravame proposto dalla società.

4. I giudici di seconde cure, per quello che interessa in questa sede, precisavano che: a) non era condivisibile l’affermazione di Poste Italiane spa secondo cui le sarebbe stato precluso il ricorso all’istanza di rimborso D.P.R. n. 602 del 1973, ex art. 38, perchè tale possibilità spettava in primo luogo a chi aveva effettuato il versamento diretto, cioè il sostituto della società; b) le eventuali ipotesi preclusive di natura oggettiva alla richiesta di rimborso previsto da tale disposizione si sarebbero rivelate operative non solo per il datore di lavoro ma anche per il lavoratore; c) in ogni caso la società, anche a volere ammettere l’inutilizzabilità dello strumento di cui all’art. 38 citato, avrebbe avuto a disposizione l’istituto residuale di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21, comma 2, a norma del quale l’istanza di rimborso può essere presentata entro due anni dal giorno in cui era verificato il presupposto per restituzione.

5. Avverso la decisione di secondo grado proponeva ricorso per cassazione Poste Italiane spa affidato a tre motivi.

6. C.F. non svolgeva attività difensiva.

7. Il PG non ha rassegnato conclusioni scritte.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo del ricorso la società denuncia la violazione e falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 38, in ordine alla tassatività delle ipotesi previste deducendo, a differenza di quanto ritenuto dalla Corte territoriale, che: a) l’indebito arricchimento del dipendente andava quantificato comprendendo tutte le somme comunque erogate dal datore, comprese quelle da quest’ultimo trattenute per essere riversate all’Erario e, quindi, al lordo delle ritenute e non al netto di esse, tanto è che il dipendente ben avrebbe potuto scorporare le ritenute di acconto subite, in relazione al proprio reddito complessivo, con il sistema delle detrazioni ed eventualmente monetizzando il suo credito di imposta ottenendo un maggior arricchimento; b) il citato art. 38, non suscettibile di applicazione analogica, consente il rimborso solo per le ipotesi in cui il prelievo alla fonte è viziato esclusivamente sotto il profilo tributario per vizi inerenti alla debenza stessa delle imposte e non anche in conseguenza delle particolari vicende cui il reddito, al quale la ritenuta accede, è sottoposto: deve trattarsi, quindi, di un indebito tributario fin dall’origine non dovuto.

2. Con il secondo motivo si censura la violazione e falsa applicazione di norma di legge ex art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 10, comma 1, lett. D bis, in ordine alla legittimazione della domanda di rimborso: si sostiene che tale disposizione prevede la possibilità di dedurre dal reddito complessivo del contribuente “…. le somme restituite al soggetto erogatore, se hanno concorso a formare il reddito in anni precedenti…” e che la L. n. 147 del 2013, ha rafforzato il contenuto della norma precedente affermando che l’imposta da restituire può essere portato in deduzione sul reddito dei periodi di imposta successivi; in alternativa può chiedere il rimborso dell’imposta corrispondente all’importo non dedotto secondo le modalità definite con decreto del MEF; il combinato disposto delle norme, avvalorato da due Risoluzioni dell’Agenzia delle Entrate (n. 110/05 e 71/08), per cui il diritto di ripetere quanto eventualmente pagato in eccesso spetta al debitore principale verso il Fisco (lavoratore) e non al sostituto (datore di lavoro) che si limita ad eseguire la ritenuta per il successivo versamento.

3. Con il terzo motivo si eccepisce la violazione e falsa applicazione dell’art. 38, in relazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, lamentando l’assunto contenuto nella gravata sentenza in quanto la società non avrebbe potuto ricorrere, per ottenere il rimborso, al meccanismo previsto da tale disposizione trattandosi di norma il cui ambito applicativo è limitato alla sola decorrenza dei termini ed comunque di carattere residuale, trovando applicazione soltanto in mancanza di disposizioni specifiche.

4. Il ricorso deve essere rigettato.

5. I primi due motivi, da trattarsi congiuntamente per connessione logico-giuridica, sono infondati.

6. La gravata sentenza è, infatti, sostanzialmente conforme all’orientamento di legittimità, cui si intende dare seguito, rappresentato dai precedenti non solo citati dagli stessi giudici del merito (Cass. n. 1464/2012), ma anche di recente nuovamente ribaditi da questa Corte (Cass. 25.7.2018 n. 19735; Cass. 20.5.2019 n. 13530; Cass. n. 990/2019 con le pronunce ivi richiamate).

7. E’ stato, infatti, specificato in modo chiaro che, in caso di riforma, totale o parziale, della sentenza di condanna del datore di lavoro al pagamento di somme in favore del lavoratore, il datore di lavoro ha diritto di ripetere quanto il lavoratore abbia effettivamente percepito e non può pretendere la restituzione di importi al lordo di ritenute fiscali mai entrate nella sfera patrimoniale del dipendente, atteso che il caso del venire meno con effetto “ex tunc” dell’obbligo fiscale a seguito della riforma della sentenza da cui è sorto ricade nel raggio di applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 38, comma 1, secondo il quale il diritto al rimborso fiscale nei confronti dell’amministrazione finanziaria spetta in via principale a colui che ha eseguito il versamento non solo nelle ipotesi di errore materiale e duplicazione, ma anche in quelle di inesistenza totale o parziale dell’obbligo.

8. E’ stato, poi, precisato che, in tema di rimborso delle imposte sui redditi, ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973 art. 38, come modificato dal D.Lgs. n. n. 143 del 2005, sono legittimati a richiedere all’Amministrazione finanziaria il rimborso delle somme non dovute, e ad impugnare l’eventuale rifiuto dinanzi al giudice tributario, sia il soggetto che ha effettuato il versamento (cd. “sostituto di imposta”) sia il percipiente delle somme assoggettate a ritenuta (cd. “sostituto”).

9. Questa Corte (Cass. n. 21699 del 2011) ha ben evidenziato, inoltre, che l’azione di restituzione riduzione in pristino, proposta a seguito della riforma o cassazione della sentenza contenente il titolo del pagamento, si collega ad una esigenza di restaurazione della situazione patrimoniale anteriore a detta sentenza, con riferimento a prestazioni eseguite e ricevute nella comune consapevolezza della rescindibilità del titolo e della provvisorietà dei suoi effetti e, quindi, giuridicamente di un pagamento non dovuto.

10. Il principio affermato nella pronuncia di legittimità (Cass. n. 23886/2007), secondo cui il debitore principale verso il fisco è il percettore del reddito imponibile e non il sostituto che esegue la ritenuta ed il successivo versamento, onde è al medesimo debitore principale che compete il diritto di ripetere quanto eventualmente pagato in eccesso, riguarda i rapporti tra sostituto di imposta, sostituito e fisco (cfr. Cass. n. 239/2006) ma non afferma che al lavoratore sostituito possa essere richiesto quanto versato dal sostituto ad un terzo (amministrazione finanziaria).

11. In conclusione, pertanto, salvi i rapporti con il fisco e comunque quanto sopra evidenziato in ordine agli ambiti oggettivi e soggettivi di applicabilità del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 38, il datore di lavoro può ripetere l’indebito nei confronti del lavoratore nei limiti di quanto effettivamente percepito da quest’ultimo, restando esclusa la possibilità di chiedere la restituzione di somme al lordo delle ritenute fiscali mai entrate nella sfera patrimoniale del dipendente.

12. La gravata sentenza è, quindi, immune dai vizi denunciati dalla società.

13. Il terzo motivo (relativamente alla asserita violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21) è inammissibile per difetto di interesse quanto alla rilevanza, per la stessa residualità della norma invocata, costituendo il richiamo operato a detta disposizione dai giudici del seconde cure una “doppia ratio decidendi” che, anche se accolta, non potrebbe mai produrre in nessun caso l’annullamento della sentenza stante l’infondatezza dei primi due motivi di ricorso in ordine alla corretta utilizzabilità del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 38 (Cass. n. 22753/2011; Cass. n. 3886/2011).

14. Alla stregua di quanto esposto, il ricorso deve essere rigettato.

15. Nulla vi disposto in ordine alle spese di lite non avendo l’intimato svolto attività difensiva.

16. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti processuali, sempre come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nell’Adunanza camerale, il 2 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 15 novembre 2019

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