Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29750 del 12/12/2017


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Civile Sent. Sez. L Num. 29750 Anno 2017
Presidente: NAPOLETANO GIUSEPPE
Relatore: NEGRI DELLA TORRE PAOLO

SENTENZA
sul ricorso 4804-2015 proposto da:
VILLECCO DONATO, elettivamente domiciliato in ROMA,
VIA CELIMONTANA 38, presso lo studio dell’avvocato
PAOLO PANARITI, che lo rappresenta e difende
unitamente all’avvocato MASSIMO LUPI, giusta delega in
atti;
– ricorrente –

2017
contro

2598

BANCO DI NAPOLI S.P.A.,

in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata
in ROMA,

VIA LEONE IV 99,

presso lo studio

Data pubblicazione: 12/12/2017

dell’avvocato CARLO FERZI, che la rappresenta e
difende unitamente agli avvocati ANGELO GIUSEPPE
CHIELLO, CESARE POZZOLI, giusta delega in atti;
– controricorrente

avverso la sentenza n. 5761/2013 del TRIBUNALE di

avverso l’ordinanza ex art. 436 bis c.p.c. della CORTE
DI APPELLO di SALERNO, depositata il 05.12.2014 R.G.N.
10088/14;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 13/06/2017 dal Consigliere Dott. PAOLO
NEGRI DELLA TORRE;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. MARCELLO MATERA che ha concluso per il
rigetto del ricorso;
udito l’Avvocato PAOLO PANARITI;
udito l’Avvocato GIANFRANCO LIUZZI per delega verbale
Avvocato CARLO FERZI.

SALERNO, depositata il 14/02/2014 R.G.N. 4881/09;

R.G. 4804/2015

Fatti di causa
Con sentenza n. 5761/2013 il Tribunale di Salerno rigettava il ricorso con il quale Donato
Villecco aveva impugnato il licenziamento intimatogli con lettera in data 18/9/2008 dal
Banco di Napoli S.p.A. all’esito di procedura di riduzione del personale ai sensi della I. n.

Il Tribunale, per quanto di interesse, osservava a sostegno della propria decisione che la
disciplina, di cui alla I. n. 223, trovava applicazione anche nei confronti dei dipendenti
degli istituti di credito già di diritto pubblico, come il Banco di Napoli; che l’adozione del
criterio di scelta dei lavoratori in esubero costituito dal possesso del requisito di accesso
alla pensione non configurava alcun trattamento discriminatorio; che nel caso di specie la
comunicazione ex art. 4, comma 9, I. n. 223 risultava effettuata agli organi pubblici
competenti, compresa la Commissione regionale permanente tripartita.
L’appello proposto dal lavoratore avverso tale sentenza veniva dichiarato inammissibile

ex art. 436 bis c.p.c. dalla Corte di appello di Salerno con ordinanza del 5 dicembre 2014.
Per la cassazione della sentenza e dell’ordinanza ha proposto ricorso il lavoratore con
cinque motivi; la società ha resistito con controricorso, assistito da memoria.

Ragioni della decisione

Con il primo motivo, deducendo nullità della sentenza ex art. 360 n. 4 in riferimento
all’art. 132, co. 1°, n. 4 c.p.c. nonché violazione di legge ex art. 360 n. 4 in riferimento
agli artt. 2697 c.c. e 5 I. n. 604/1966, il ricorrente censura la sentenza di primo grado
per avere il Tribunale, con una motivazione illogica e contraddittoria ed altresì emessa in
violazione delle regole di riparto dell’onere probatorio, erroneamente ritenuto dimostrato
l’invio della comunicazione finale della procedura alla Commissione regionale tripartita
della Campania.
Con il secondo motivo, deducendo vizio di motivazione e nullità del procedimento ex art.
360 n. 4 in relazione all’art. 112 c.p.c., il ricorrente si duole che il giudice di primo grado
nulla avesse statuito in merito al mancato invio della comunicazione di fine procedura agli
enti indicati nell’art. 4, comma 9, I. n. 223/1991 contestualmente all’invio della lettera di
recesso ai lavoratori.
Con il terzo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 4, comma 9, I. n.
223/1991, il ricorrente impugna l’ordinanza della Corte di appello di Salerno dichiarativa
della mancanza di una ragionevole probabilità di accoglimento del gravame, nella parte in
1

223/1991.

cui la Corte ha ritenuto, diversamente dal primo giudice e con statuizione avente natura
sostanziale di sentenza, che vi fosse stata, da parte del Banco di Napoli, “sostanziale
osservanza” dell’adempimento concernente l’invio della comunicazione finale, con ciò
intendendo che tale invio non fosse necessario nei confronti della Commissione regionale
permanente tripartita, posto che la società aveva riconosciuto, in sede di costituzione in
grado di appello, di non avervi provveduto.
Con il quarto motivo, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 4 d.lgs. n.
216/2003 e 15, co. 2, I. n. 300/1970, nonché degli artt. 3 e 6 della Direttiva 2000/78/CE,

criterio di scelta dei lavoratori in esubero fondato sul possesso dei requisiti pensionistici,
nonostante che tale criterio si ponesse in violazione della normativa nazionale ed europea
contro le discriminazioni.
Con il quinto motivo, infine, deducendo violazione e falsa applicazione della procedura ex
I. n. 223/1991, nonché violazione di legge con riferimento all’art. 3 I. n. 218/1990, il
ricorrente censura la sentenza di primo grado per avere il Tribunale di Salerno ritenuto
applicabile la disciplina, di cui alla I. n. 223/1991, anche ai dipendenti degli istituti di
credito di diritto pubblico, quale il Banco di Napoli all’epoca in cui il ricorrente era stato
assunto.
Il primo e il terzo motivo possono essere trattati congiuntamente in quanto connessi dalla
questione, comune ad entrambi, della necessità o meno dell’invio della comunicazione ex
art. 4, comma 9, I. n. 223/1991 alla Commissione regionale tripartita.
Gli stessi risultano infondati, in applicazione del principio della ragione più liquida.

E’, infatti, ormai consolidato il principio di diritto, per il quale “in materia di licenziamento
collettivo, in applicazione del generale principio della ‘strumentalità delle forme’, valido
anche per il procedimento amministrativo, non può essere dichiarata l’inefficacia del
licenziamento laddove, nell’ambito di una procedura svoltasi in modo corretto e adeguato
alle finalità cui è preordinata per legge, risulti omessa esclusivamente la comunicazione
alla Commissione regionale indicata dall’art. 4, comma 9, della legge 23 luglio 1991, n.
223 – che, in base all’art. 6 della stessa legge, svolge il compito di approvare le liste di
mobilità – ed il licenziamento collettivo sia stato disposto, per riduzione del personale, da
parte di una impresa non rientrante nel campo di applicazione della disciplina
dell’intervento straordinario di integrazione salariale, i cui dipendenti, quindi, non
possono beneficiare dell’indennità di mobilità” (cfr., fra le molte conformi, Cass. n.
12122/2015).
Il secondo motivo risulta inammissibile, dovendosi, in proposito, richiamare il principio,
per il quale “in caso di ricorso per cassazione avverso la sentenza di primo grado ai sensi
dell’art. 348 ter, terzo comma, c.p.c., si applicano le disposizioni di cui agli artt. 329 e
346 del medesimo codice, sicché la parte deve fornire l’indicazione che la questione
sollevata in sede di legittimità era stata devoluta, sia pure nella forma propria dei motivi
2

il ricorrente censura la sentenza di primo grado per avere escluso la illegittimità del

di appello, al giudice del gravame, dichiarato inammissibile ex art. 348 bis c.p.c.”: Cass.
n. 2784/2015 (ord.).
Nella specie, il ricorrente si è limitato all’estrapolazione di alcuni passi del proprio atto
introduttivo, di per sé inidonei a delineare con certezza e precisione – così come
necessario, secondo consolidato orientamento di legittimità (Cass. n. 8423/2001) l’avvenuta allegazione della questione della contestualità (dell’invio della lettera di
recesso e della comunicazione di fine procedura agli enti

ex lege destinatari della

stata prospettata al giudice di appello, non essendo sufficiente a tale fine il generico
richiamo ad una denuncia rinnovata “in tutti i gradi” del giudizio (cfr. ricorso, p. 23) o la
sintetica elencazione dei temi di indagine che sarebbero stati devoluti alla cognizione del
giudice di secondo grado (cfr. ricorso, p. 5).
Il quarto motivo è infondato.
L’art. 6 della Direttiva 2000/78/CE, così come interpretato dalla Corte di giustizia
(Sezione III, 5 marzo 2009, causa C-388/07), offre agli Stati membri la possibilità di
prevedere, nell’ambito del diritto nazionale, forme di disparità di trattamento fondate
sull’età quando siano “oggettivamente e ragionevolmente” giustificate da una finalità
legittima, quale la politica del lavoro e del relativo mercato o della formazione
professionale, purché i mezzi per il raggiungimento di tale scopo siano necessari e
appropriati.
A tali finalità e alla previsione di mezzi necessari e appropriati al raggiungimento dello
scopo risponde il D.M. 28 aprile 2000, n. 158, con il quale è stato istituito un apposito
Fondo di solidarietà per la riconversione e riqualificazione professionale, per il sostegno
dell’occupazione e del reddito del personale del settore del credito (art. 1), avente lo
scopo di attuare interventi diretti a favorire il mutamento e il rinnovamento delle
professionalità e la realizzazione di politiche attive di sostegno del reddito e
dell’occupazione, nell’ambito e in connessione con processi di ristrutturazione o di
situazioni di crisi, di riorganizzazione aziendale o di riduzione o trasformazione di attività
o di lavoro (art. 2).
In particolare, tale decreto prevede che l’individuazione dei lavoratori in esubero debba
riguardare anzitutto il personale che, alla data stabilita per la risoluzione del rapporto di
lavoro, sia in possesso dei requisiti di legge previsti per avere diritto alla pensione
anticipata o di vecchiaia, anche se abbia diritto al mantenimento in servizio (art. 8).
Ne consegue che il criterio del possesso dei requisiti per l’accesso alla pensione di
anzianità o di vecchiaia, ben diversamente dall’essere mezzo indiretto di discriminazione
basato sull’età, deve ritenersi del tutto giustificato ai sensi delle previsioni della
Direttiva 2000/78/CE e delle disposizioni (artt. 3 e 4) del d.lgs. n. 216/2003, con cui la
stessa è stata recepita nell’ordinamento nazionale, comportando nel caso di specie che
3

stessa), e comunque non ha specificato se, dove e in quali termini tale questione fosse

l’obiettivo della riduzione del personale e del contenimento del costo del lavoro fosse
perseguito mediante il ricorso a forme concrete e adeguate di sostegno del reddito.
Nel senso dell’assenza di violazione del principio di non discriminazione si è, d’altra
parte, e da lungo tempo, consolidata la giurisprudenza di legittimità.
Al riguardo si rileva che già Cass. n. 20455/2006 aveva sottolineato come il criterio del
prepensionamento, applicato – congiuntamente con il criterio produttivo – in osservanza
degli accordi sindacali, rispondesse “a indubbi criteri di razionalità tenuto conto delle

223 del 1991. Né per andare in contrario avviso e sostenerne la illegittimità vale il
riferimento a possibili effetti di discriminazione tra i lavoratori, essendo ogni forma di
riserva sul punto destinata a venir meno in considerazione sia del fatto che non si
riscontra nel caso di specie alcun elemento suscettibile di far paventare l’esistenza di un
intento discriminatorio da parte della società, sia in considerazione dell’innegabile equità
di un sistema di riduzione del personale incentrato sull’esigenza di una più efficiente
riorganizzazione della impresa (che sta alla base del criterio tecnico-produttivo) non
disgiunta da quella di addossare la ricaduta degli effetti negativi di detta riduzione sui
soggetti che, per essere prossimi a pensione, hanno la capacità economica di meglio
ammortizzare detti effetti”.
Tale orientamento è stato più volte confermato e ribadito, in fattispecie analoghe o del
tutto sovrapponibili alla presente, da Cass. n. 9866/2007 nonché, fra le molte pronunce
conformi, da Cass. n. 1236/2011, n. 1949/2011, n. 11661/2012, n. 5965/2013.
Non ricorrono, pertanto, nella specie, i presupposti per il rinvio pregiudiziale alla Corte
di Giustizia, il quale “presuppone il dubbio interpretativo su una norma comunitaria, che
non ricorre allorché l’interpretazione sia autoevidente oppure il senso della norma sia
già stato chiarito da precedenti pronunce della Corte, non rilevando, peraltro, il profilo
applicativo di fatto, che é rimesso al giudice nazionale a meno che non involga
un’interpretazione generale ed astratta”: Cass. n. 15041/2017 (ord.).
Risulta altresì infondato il quinto motivo.
E’, infatti, consolidato il principio di diritto, per il quale “nel caso di trasformazione di
enti creditizi pubblici (nella specie, Banco di Napoli) in società per azioni, non può
essere esclusa, ex art. 3, comma 2, della I. n. 218 del 1990, l’applicabilità della
disciplina sui licenziamenti di cui alla I. n. 223 del 1991, non sopravvivendo alla
privatizzazione il regime di stabilità del rapporto di lavoro con un ente pubblico
economico, posto che la salvezza dei diritti quesiti riguarda solo le posizioni soggettive
già acquisite al patrimonio del prestatore sotto il profilo economico, e non riducibili a
mere aspettative sotto il profilo giuridico” (Cass. n. 24109/2016 e successive numerose
conformi).
Il ricorso deve conclusivamente essere respinto.
4

finalità perseguite mediante l’iter procedurale regolato dagli artt. 4 e 5 della legge n.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

p.q.m.

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente
giudizio di legittimità, liquidate in euro 200,00 per esborsi e in euro 4.000,00 per

Ai sensi dell’art. 13, comma 1

quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della

sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore
importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del
comma 1 bis dello stesso articolo 13.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 13 giugno 2017.

Il Presidente

Il Consigliere estensore

(dott. Giuseppe Napoletano)

(dott. Paolo Negri della Torre)

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