Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29747 del 12/12/2017


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Cassazione civile, sez. II, 12/12/2017, (ud. 25/10/2017, dep.12/12/2017),  n. 29747

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il ricorrente C.C.B. impugna – articolando cinque paragrafi di ricorso, che si precisa valgano come motivi di censura, a sua volta suddivisi in sottoparagrafi distintamente numerati – la sentenza n. 970/2015 del 21 maggio 2015 resa dalla Corte d’Appello di Bologna, che aveva rigettato l’appello proposto dallo stesso C.C.B. avverso la sentenza 8 giugno 2006, con la quale era stata respinta l’impugnativa, avanzata dal ricorrente, delle deliberazioni assunte in data 10 settembre 1999 dai partecipanti alla comunione ereditaria di C.C.C..

Si difendono con controricoricorso C.C.E. e C.C.S., mentre rimangono intimati, senza svolgere difese, gli eredi di C.C.T., deceduto il (OMISSIS), C.C.M.T., C.C.E. e C.C.G.P..

Il giudizio aveva avuto inizio con ricorso ex art. 1109 c.c. di C.C.B. davanti al Tribunale di Ravenna e le deliberazioni impugnate concernevano il godimento turnario di una casa di proprietà comune in località (OMISSIS), la delega che si assumeva conferita a C.C.T. per concedere in locazione immobili siti in (OMISSIS), e l’approvazione dei rendiconti 1997 e 1998. Il Tribunale, con sentenza dell’8 giugno 2006, rigettò le domande di C.C.B.. Sull’appello di quest’ultimo, la Corte di Bologna confermò la pronuncia di primo grado. La Corte d’Appello ritenne inammissibile il rinvio per relationem alle deduzioni istruttorie formulate in primo grado; escluse ogni profilo di illegittimità della convocazione e della costituzione dell’assemblea, riscontrando la completezza del relativo ordine del giorno, ed invece considerando generica la doglianza sulla invalidità delle deleghe; dichiarò legittima la decisione assembleare di godimento turnario della villa di (OMISSIS), per l’impossibilità di uso paritario e simultaneo tra tutti i coeredi, che avrebbe imposto una convivenza comune estesa a tutti i diversi piani e vani dell’immobile; considerò lecita, ex artt. 1102 e 1103 c.c., la cessione del godimento di questo stesso immobile da Silvia ed C.C.E. al padre, pur estraneo alla comunione; negò il profilo dell’illegittimità della delibera di incarico all’amministratore C.C.T. di concedere in locazione immobili comuni, riscontrando come l’assemblea del 10 settembre 1999 avesse, piuttosto, deliberato essa stessa di concedere in locazione a terzi i beni siti in (OMISSIS); escluse, infine, del pari l’illegittimità dell’approvazione dei rendiconti 1997 e 1998, essendo allegati all’avviso di convocazione i relativi bilanci corredati da un elenco delle voci contabilizzate, con conseguente sufficiente informazione dei comproprietari, non ravvisando il “grave pregiudizio” di cui all’art. 1109 c.c. nelle considerazioni dell’appellante e sottolineando come l’approvazione del rendiconto valesse quale ratifica di tutta la gestione ordinaria dell’amministratore. Circa le spese processuali di primo grado, la Corte d’Appello del pari rigettò il gravame, osservando come fossero state respinte tutte le domande di C.C.B. e come l’appellante volgesse le sue critiche contro gli importi indicati dalle controparti nelle rispettive note spese, e non contro quelli liquidati dal Tribunale.

Su proposta del relatore, che aveva ritenuto il giudizio definibile nelle forme di cui all’art. 380 bis c.p.c., in riferimento all’art. 375 c.p.c., comma 1, n. 1), era stata dapprima fissata l’adunanza della camera di consiglio. Con ordinanza del 14 marzo 2017, tuttavia, il Collegio, ritenuto che non ricorresse l’ipotesi prevista dall’art. 375 c.p.c., comma 1, n. 1, ha rimesso la causa alla pubblica udienza.

Le parti hanno presentato memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

In via pregiudiziale, le controricorrenti hanno eccepito l’improcedibilità del ricorso ex art. 369 c.p.c., comma 1, avendo il ricorrente depositato il proprio ricorso in cancelleria il 21 novembre 2015, dopo aver richiesto la notifica il 26 ottobre 2015. L’eccezione è infondata. Ai fini della verifica del tempestivo deposito del ricorso per cassazione, ex art. 369 c.p.c., comma 1, (termine di venti giorni dall’ultima notifica effettuata nei confronti di una delle più controparti cui il ricorso debba essere notificato), nel caso, quale quello in esame, in cui la parte si sia avvalsa del servizio postale, assume rilievo, per il ricorrente, la data di consegna del plico all’ufficio postale, mentre il termine di venti giorni dall’ultima notificazione si calcola dalla data di ricezione dell’atto notificato alla parte contro cui il ricorso è proposto (Cass. Sez. 3, 07/05/2014, n. 9861; Cass. Sez. 3, 18/01/2016 n. 684). Ora, risulta che la data di ricezione dell’ultima notifica del ricorso a mezzo servizio postale è quella del 28 ottobre 2015, mentre la data di consegna all’ufficio postale del plico da recapitare alla cancelleria della Corte di cassazione, e quindi quella dell’iscrizione a ruolo, è il 16 novembre 2015, quando il termine di venti giorni scadeva il 17 novembre 2015.

1. Il primo motivo (definito paragrafo) di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 111 Cost., arttt. 112, 342, 356 e 359 c.p.c., quanto al mancato esame delle deduzioni istruttorie avanzate in primo grado e richiamate in appello in appositi “fogli” di udienza.

Vi si aggiunge un “PAR 1, pag. 7” (a pagina 61 di ricorso), che deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 111 Cost., artt. 112,277,342,346 e 359 c.p.c. per le “altre domande non esaminate”, come la contumacia di T. quale amministratore della comunione e l’incompatibilità del suo difensore. Si prosegue quindi con un “PAR 1, pag. 7” (a pagina 63 di ricorso), ancora per “altre domande non esaminate” e sempre per violazione e falsa applicazione del’art. 111 Cost., artt. 88,89,96,112,221,277,342,346 e 359 c.p.c., nonchè si censura l’omesso esame di fatto decisivo (“frasi offensive nei due gradi, e quelle indicatevi”). Un successivo “PAR 1, pag. 7” (pagina 64 di ricorso) denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 89 e 112 c.p.c. e l’omesso esame di fatto decisivo per la cancellazione di frasi sconvenienti o offensive con risarcimento.

I.1. Il primo motivo di ricorso, coi suoi tre “paragrafi”, rivela molteplici profili di inammissibilità. Il vizio di violazione di legge, senza osservare l’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, è allegato indicando nelle rubriche dei diversi “paragrafi” svariate norme, senza però farvi seguire specifiche argomentazioni intellegibili ed esaurienti, intese a dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata debbano ritenersi in contrasto con ciascuna delle medesime norme individuate come regolatrici della fattispecie. Quando, peraltro, col ricorso per cassazione venga denunciato un error in procedendo, ovvero un vizio che comporti la nullità del procedimento o della sentenza impugnata, sostanziandosi nel compimento di un’attività deviante rispetto ad un modello legale rigorosamente prescritto dal legislatore (nella specie, vizi di omessa pronuncia su domande, motivi di appello, deduzioni istruttorie), seppur il giudice di legittimità non debba limitare la propria cognizione all’esame della sufficienza e logicità della motivazione con cui il giudice di merito ha vagliato le questioni censurate, ma è investito del potere di esaminare direttamente gli atti ed i documenti sui quali il ricorso si fonda, occorre comunque che il motivo sia proposto dal ricorrente in conformità alle regole fissate dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, (cfr. Cass. Sez. U, 22 maggio 2012, n. 8077). In particolare, quanto poi alle “domande istruttorie non accolte”, è improprio il riferimento che il ricorrente fa all’art. 112 c.p.c., in quanto il vizio di omessa pronuncia, rilevante ai fini di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, si configura esclusivamente con riferimento a domande, eccezioni o assunti che richiedano una statuizione di accoglimento o di rigetto, e non anche in relazione ad istanze di prova, la cui pretermissione è denunciabile in sede di legittimità soltanto se la mancata ammissione delle medesime prove abbia cagionato l’omesso esame di un fatto decisivo, rilevante in causa, e non preso in considerazione dal giudice del merito, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Inoltre, nel primo motivo di ricorso non viene neppure per sintesi indicato quale fosse il contenuto dei capitoli delle prove costituende non assunte, e ciò preclude a questa Corte di verificare la decisività dei fatti da provare, e, quindi, delle prove stesse. Le doglianze sulla mancata dichiarazione di contumacia di C.C.T. “come amministratore” e sulla “incompatibilità” del difensore di questo lamentano, ancora, astratti vizi di regolarità del processo, ma non prospettano anche le ragioni per le quali l’erronea applicazione delle disposizioni procedurali indicate abbia comportato, per il ricorrente, una lesione del suo diritto di difesa o altro pregiudizio per la decisione di merito. D’altro canto, la prospettazione di una “contumacia” dell’amministratore di comunione trascura il consolidato orientamento interpretativo che nega all’amministratore della comunione una sua autonoma legittimazione processuale in rappresentanza dei comunisti, se tale potere non gli sia stato attribuito nella delega di cui all’art. 1106 c.c., comma 2 non essendo applicabile analogicamente – per la presenza della disposizione citata, che prevede la determinazione dei poteri delegati – la regola contenuta nell’art. 1131 c.c. per l’amministratore del condominio (Cass. Sez. 2, 21/02/2014, n. 4209; Cass. Sez. 2, 11/07/2006, n. 15684; Cass. Sez. 2, 25/02/1995, n. 2170). Così pure la denuncia di incompatibilità dell’avvocato di C.C.T., per aver lo stesso svolto in altri processi difese nell’interesse della comunione, non considera come sulla validità dell’atto posto in essere da un difensore, iscritto all’albo e munito di procura, non incidono eventuali sue situazioni di incompatibilità con l’esercizio della professione, che, ove pur risultassero sanzionabili sul piano disciplinare, non privano il legale dello ius postulandi. Da ultimo, poichè la cancellazione di frasi o parole ingiuriose contenute negli scritti difensivi è rimessa al potere discrezionale del giudice di merito, che può disporla anche d’ufficio a norma dell’art. 89 c.p.c., l’istanza di cancellazione costituisce una mera sollecitazione per l’esercizio dell’anzidetto potere discrezionale, di guisa che non può formare oggetto di impugnazione per cassazione l’omesso esame di essa nè l’omesso esercizio del suddetto potere (Cass. Sez. 3, 20/10/2009, n. 22186).

2. Il secondo motivo di ricorso (Par. 2) lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1105,1108,1109,1116 c.c., e art. 112 c.p.c. circa l’illegittimità della convocazione, contrapponendo l’incompletezza dei punti indicati all’ordine del giorno ed insistendo per l’inammissibilità delle deleghe conferite.

2.1. Anche il secondo motivo si connota per un difetto di specifica indicazione del contenuto degli atti su cui si fonda, in contrasto con quanto disposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6. Secondo l’orientamento di questa Corte, la verifica dell’osservanza dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 deve, infatti, compiersi con riguardo ad ogni singolo motivo di impugnazione e la mancata specifica indicazione (ed allegazione) dei documenti sui quali ciascuno di essi, eventualmente, si fondi può comportarne la declaratoria di inammissibilità quando si tratti di censure rispetto alle quali uno o più specifici atti o documenti fungano da fondamento, e cioè quando, senza l’esame di quell’atto o di quel documento, risultano impossibili la comprensione del motivo di doglianza e degli indispensabili presupposti fattuali sui quali esso si basa, nonchè la valutazione della sua decisività (Cass. Sez. U, 05/07/2013, n. 16887).

In ogni caso, l’indicazione, nell’avviso di convocazione dell’assemblea dei partecipanti ad una comunione, dell’elenco delle materie da trattare, allo scopo di rendere edotti i comunisti degli argomenti sui quali essi dovranno deliberare (art. 1105 c.c., comma 3, c.c.), può esser anche sintetica, purchè chiara e non ambigua, specifica e non generica, in maniera da consentire la discussione e l’adozione da parte dell’assemblea delle eventuali deliberazioni conseguenziali ed accessorie. L’assemblea dei partecipanti alla comunione ordinaria, diversamente da quanto stabilito per il condominio degli edifici, è, invero, validamente costituita mediante qualsiasi forma di convocazione, purchè idonea allo scopo, in quanto gli artt. 1105 e 1108 c.c. non prevedono per la comunione semplice l’assolvimento di particolari formalità, menzionando semplicemente la preventiva conoscenza dell’ordine del giorno. Gli artt. 1105 e 1108 c.c. non suppongono, anzi, nemmeno la costituzione formale dell’assemblea, ma semplicemente la decisione a maggioranza dei partecipanti. Pertanto deve ritenersi regolarmente costituita e capace di deliberare la riunione dei partecipanti alla comunione con la presenza dell’amministratore per decidere su oggetti di comune interesse. In ogni caso, la verifica di sufficienza della preventiva informazione dei partecipanti sull’oggetto della deliberazione, implicando inevitabilmente una valutazione da compiere caso per caso e da rapportare alla specificità di ogni situazione, e quindi un apprezzamento di fatto, spetta al giudice del merito: pertanto, salvo che questi non abbia applicato il disposto dell’art. 1105 c.c., comma 3, discostandosi da tale corrente interpretazione giurisprudenziale, o che non abbia preso in esame un fatto storico decisivo e controverso, la valutazione del giudice di merito sulla completezza dell’avviso di convocazione (quale quella espletata dalla Corte d’Appello di Bologna sul secondo motivo di impugnazione) sfugge al sindacato di legittimità (Cass. Sez. 2, 03/11/2008, n. 26408; Cass. Sez. 2, 27/10/2000, n. 14162).

Nè vi è ragione, circa l’assunta inammissibilità delle deleghe in una riunione di membri della comunione ordinaria, ipotizzata dal ricorrente, per ritenere che i partecipanti non possano validamente farsi rappresentare nelle deliberazioni ex artt. 1105 e 1108 c.c., secondo le regole del mandato, da un altro comunista, come da un terzo.

3.Il terzo motivo di ricorso (Par. 3) denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1100,1105 e 1116 c.c., art. 713 c.c. e ss. art. 757 c.c. e ss., art. 1350 c.c., nn. 3, 4 e 5, per l’illegittimità della delibera di uso turnario della villa in (OMISSIS). Vi si espone quale sia la consistenza immobiliare di tale villa e quali utilizzi essa abbia avuto nelle vicende della famiglia C.C., a far tempo dal 1950.

3.1. Il terzo motivo è infondato in quanto, in materia di comunione ordinaria, l’annullabilità in sede giudiziale di una deliberazione della maggioranza dei partecipanti per ragioni di merito, attinenti all’opportunità ed alla convenienza della scelta gestoria della cosa comune, è configurabile solo nel caso di decisione viziata che arrechi un grave pregiudizio per la cosa comune (art. 1109 c.c., comma 1), non potendo di regola l’autorità giudiziaria sindacare l’esercizio dei poteri discrezionali della maggioranza. Se, allora, la natura del bene di proprietà comune non ne permette un simultaneo godimento da parte di tutti i comproprietari (come accertato in fatto per la villa di (OMISSIS) dalla Corte di Bologna, ed illustrato in sentenza con argomentazioni logiche ed esaurienti), l’uso comune può realizzarsi o in maniera indiretta oppure, appunto, mediante avvicendamento con un uso turnario da parte dei comproprietari, utilizzo che costituisce corretto esercizio del potere di regolamentazione dell’uso della cosa comune da parte della maggioranza, in quanto non ne impedisce il godimento individuale, ed evita, piuttosto, che, attraverso un uso più intenso da parte di singoli comunisti, venga meno, per i restanti, la possibilità di godere pienamente e liberamente della cosa durante i rispettivi turni, senza subire alcuna interferenza esterna (Cass. Sez. 2, 03/12/2010, n. 24647). E’ quindi estranea al sindacato proprio della Corte di cassazione ogni rivalutazione dell’opportunità della deliberazione dell’uso turnario della cosa comune, risultando essa fondata su dati ed apprezzamenti di fatto obiettivamente rivolti alla realizzazione degli interessi comuni ed alla buona gestione dell’amministrazione.

4. Il quarto motivo di ricorso (Par. 4) deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 1100,1105 e 1106 c.c., quanto all’illegittimità della delibera di locazione dei “locali sfitti”.

Il prosieguo di questo quarto motivo (pagina 83 di ricorso) estende la censura di violazione e falsa applicazione degli artt. 1100,1105,1106,1108 e 1109 c.c. e art. 111 Cost. all’approvazione del rendiconto, circa le doglianze su singole poste contabili non considerate.

4.1. Il quarto motivo è infondato per ragioni analoghe a quelle esposte a proposito del terzo motivo. L’uso indiretto della cosa comune (nella specie, mediante locazione) ben può essere disposto con deliberazione a maggioranza dei partecipanti alla comunione (o, in mancanza, dal giudice, cui ciascuno di questi può ricorrere), quando non sia possibile l’uso diretto dello stesso bene per tutti i partecipanti alla comunione, proporzionalmente alla loro quota, promiscuamente ovvero con sistema di turni temporali o frazionamento degli spazi (Cass. Sez. 2, 19/10/1994, n. 8528). Parimenti, la deliberazione della maggioranza dei partecipanti alla comunione ordinaria che approvi il rendiconto annuale dell’amministratore può essere impugnata dai componenti la minoranza dissenziente nei limiti dell’art. 1109 c.c., e quindi non per ragioni legate al merito delle singole scelte gestorie. Per la validità della delibera di approvazione del rendiconto è poi sufficiente che essa sia idonea a rendere intellegibili ai condomini le voci di entrata e di spesa, nè si richiede che queste voci siano trascritte nel verbale, ovvero siano oggetto di analitico dibattito ed esame alla stregua della documentazione giustificativa, in quanto rientra nei poteri della maggioranza la facoltà di procedere sinteticamente all’approvazione stessa, prestando fede ai dati forniti dall’amministratore alla stregua della documentazione giustificativa.

5. Il quinto motivo di ricorso (Par. 5) (pagina 93 di ricorso) deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 24 Cost., art. 10 c.p.c. e ss. artt. 91 e 92 c.p.c.D.M. n. 127 del 2004, artt. 6 e 14 circa la mancata indicazione delle ragioni di censura della condanna alle spese di primo grado, lamentando che il Tribunale, piuttosto, doveva indicare le ragioni della riduzione degli importi richiesti dalle parti vincitrici nelle loro note spese andate disattese. Il quinto motivo prosegue a pagina 96 di ricorso invocando la violazione delle stesse norme, ma stavolta per le spese liquidate in appello a carico del ricorrente, avendo la Corte di Bologna fatto riferimento ad una fascia di valore superiore al valore di causa dichiarato dall’attore ed appellante. Si conclude il ricorso informando dell’esistenza di una proposta di transazione non accettata dalle controparti.

5.1. Il quinto motivo di ricorso è inammissibile per evidente carenza di interesse, nel punto in cui C.C.B. si duole che il Tribunale, in presenza di una nota spese specifica prodotta dalle controparti vittoriose, rideterminò i compensi degli avvocati in misura inferiore a quelli esposti, senza motivare adeguatamente l’eliminazione o la riduzione delle singole voci. Su tale profilo la soccombenza, e l’interesse perciò ad impugnare, spettava piuttosto alle parti vittoriose nel merito, che avrebbero potuto lamentare lo scostamento dagli importi richiesti con le loro note spese, e contestare le singole voci ridotte.

Circa la condanna alle spese del grado di appello, la censura è priva di fondamento perchè critica la liquidazione operata dalla Corte di Bologna soltanto assumendo che il valore della controversia, rilevante ai fini dello scaglione applicabile (elemento decisivo per consentire l’apprezzamento della decisività della censura), dovesse trarsi dal valore dichiarato ai fini del contributo unificato, dato, però, che ha rilevanza esclusivamente fiscale e non spiega, quindi, alcun effetto vincolante ai fini dell’individuazione dello scaglione di riferimento per liquidazione dei compensi del difensore (arg. da Cass. Sez. 2, 10/04/2017, n. 9195; Cass. Sez. 6 – 3, 22/09/2015, n. 18732).

6. Il ricorso va perciò rigettato e le spese del giudizio di cassazione, liquidate in dispositivo, vengono regolate secondo soccombenza in favore dei controricorrenti C.C.E. e C.C.S., mentre non occorre provvedere al riguardo degli altri intimati, i quali non hanno svolto attività difensive.

Sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che ha aggiunto il comma 1-quater al testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 – dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione integralmente rigettata.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a rimborsare ai controricorrenti C.C.E. e C.C.S. le spese sostenute nel giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 5.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre a spese generali e ad accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione seconda civile della Corte Suprema di Cassazione, il 25 ottobre 2017.

Depositato in Cancelleria il 12 dicembre 2017

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