Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29746 del 29/12/2020

Cassazione civile sez. II, 29/12/2020, (ud. 02/10/2020, dep. 29/12/2020), n.29746

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – rel. Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 2349/2016 R.G. proposto da:

M.A., c.f. (OMISSIS), V.P., c.f. (OMISSIS),

elettivamente domiciliati in Roma, alla via Sesto Fiorentino, n. 41,

presso lo studio dell’avvocato C. Fabrizio Ferrara, che li

rappresenta e difende in virtù di procura speciale a margine del

ricorso.

– ricorrenti –

contro

F.L., c.f. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in Roma,

alla via Guido Reni, n. 2, presso lo studio dell’avvocato Marina

Saracini, che lo rappresenta e difende in virtù di procura speciale

in calce al controricorso.

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 7735/2014 della Corte d’Appello di Roma;

udita la relazione nella Camera di consiglio del 2 ottobre 2020 del

consigliere Dott. Luigi Abete.

 

Fatto

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO

1. Con atto in data 2.8.2006 F.L., proprietario di una porzione di terreno in (OMISSIS)alla via Vittorio Bersezio, n. 148(OMISSIS) della Muratella, citava a comparire dinanzi al Tribunale di Roma M.A. e V.P., proprietari di una vicina porzione di terreno, su cui da epoca precedente insisteva un manufatto privo di luci e vedute.

Esponeva che le vicine porzioni di terreno erano separate da una piccola striscia di terra (in catasto al fol. (OMISSIS), part. (OMISSIS)), simile ad un corridoio, di proprietà di soggetti terzi.

Esponeva che i convenuti avevano da circa un anno dato inizio a lavori per la realizzazione, in luogo del preesistente manufatto, di una costruzione munita di luci, vedute e balconi ed avevano così violato le prescritte distanze.

Chiedeva – tra l’altro – che si accertasse e dichiarasse che la costruzione intrapresa dai convenuti violava le distanze legali e conseguentemente che si facesse ordine ai convenuti di demolire o di arretrare la costruzione sino al rispetto delle distanze prescritte.

2. Si costituivano M.A. e V.P..

Deducevano – tra l’altro – di aver sempre posseduto, animo domini, sin dal 1965 la striscia di terreno in catasto al foglio (OMISSIS), particella (OMISSIS).

Instavano per il rigetto delle avverse domande.

3. All’esito dell’istruzione probatoria, con sentenza n. 1049/2010 l’adito tribunale – tra l’altro – condannava i convenuti ad arretrare a loro spese la costruzione di loro proprietà sino al rispetto della distanza legale.

4. M.A. e V.P. proponevano appello.

5. Resisteva F.L..

6. Con sentenza n. 7735 del 16.12.2014 la Corte d’Appello di Roma rigettava il gravame e condannava in solido gli appellanti alle spese del grado.

7. Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso M.A. e V.P.; ne hanno chiesto sulla scorta di sette motivi la cassazione con ogni conseguente statuizione.

F.L. ha depositato controricorso; ha chiesto dichiararsi inammissibile o rigettarsi l’avverso ricorso con il favore delle spese e con condanna dei ricorrenti al risarcimento dei danni ex art. 96 c.p.c..

8. I ricorrenti hanno depositato memoria.

9. Con il primo motivo i ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c..

Deducono che con il primo motivo d’appello avevano censurato il primo dictum nella parte in cui il tribunale aveva fatto applicazione della disciplina in tema di distanze di cui al regolamento del Comune di Roma, benchè non vi fosse stata nè allegazione nè acquisizione del medesimo regolamento.

Deducono che al riguardo la corte d’appello ha omesso ogni pronuncia e non ha assunto alcuna statuizione.

10. Il primo motivo di ricorso è privo di fondamento.

11. L’omessa pronuncia è stata formulata in modo irrituale.

Tanto specificamente alla luce dell’insegnamento delle sezioni unite di questa Corte n. 17931 del 24.7.2013 (nel caso in cui il ricorrente lamenti l’omessa pronuncia, da parte dell’impugnata sentenza, in ordine ad una delle domande o eccezioni proposte, non è indispensabile che faccia esplicita menzione della ravvisabilità della fattispecie di cui dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, con riguardo all’art. 112 c.p.c., purchè il motivo rechi univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione, dovendosi, invece, dichiarare inammissibile il gravame allorchè sostenga che la motivazione sia mancante o insufficiente o si limiti ad argomentare sulla violazione di legge; cfr. altresì Cass. 29.11.2016, n. 24247).

Invero è innegabile che il mezzo di impugnazione in disamina non contiene alcun riferimento alla nullità della decisione.

12. In ogni caso l’omissione di pronuncia non sussiste.

La Corte d’Appello di Roma ha ritenuto che la controversia fosse da definire in applicazione delle n. t.a. del p.r.g. – vigente ratione temporis – del Comune di Roma, applicazione costituente riflesso e proiezione di “un preciso obbligo del giudice di definire la controversia secondo la legge che regola la materia devoluta alla sua cognizione” (così sentenza d’appello, pagg. 2 – 3).

In questi termini la Corte di Roma non solo ha disconosciuto qualsivoglia violazione del principio dell’onere probatorio, ma ha implicitamente disatteso la censura concernente il difetto di allegazione e di acquisizione del regolamento locale (cfr. Cass. (ord.) 13.8.2018, n. 20718, secondo cui non ricorre il vizio di omessa pronuncia quando la decisione adottata comporti una statuizione implicita di rigetto della domanda o eccezione formulata dalla parte; Cass. (ord.) 6.12.2017, n. 29191).

13. Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano – subordinatamente al mancato accoglimento del primo motivo – la violazione e falsa applicazione degli artt. 113 e 115 c.p.c..

Deducono, qualora si reputi che il primo motivo d’appello sia stato implicitamente rigettato, che la corte di merito ha comunque errato.

Deducono segnatamente che, allorquando la norma regolamentare applicabile ratione temporis è contenuta in un atto amministrativo, perchè il giudice possa farne applicazione, è necessario che il documento che la contiene, sia formalmente prodotto in giudizio o formalmente acquisito ex officio al giudizio.

14. Il secondo motivo di ricorso del pari è privo di fondamento.

15. E’ sufficiente reiterare ai sensi dell’art. 118 disp. att. c.p.c., l’insegnamento di questa Corte.

Ovvero l’insegnamento secondo cui le norme dei regolamenti comunali edilizi e i piani regolatori sono, per effetto del richiamo contenuto negli artt. 872 ed 873 c.c., integrative delle norme del codice civile in materia di distanze tra costruzioni, sicchè il giudice deve applicare le richiamate norme locali indipendentemente da ogni attività assertiva o probatoria delle parti, acquisendone conoscenza attraverso la sua scienza personale, la collaborazione delle parti o la richiesta di informazioni ai comuni (cfr. Cass. 29.7.2009, n. 17692; Cass. 18.2.1987, n. 1755, secondo cui le norme dei regolamenti edilizi locali sono, per effetto del richiamo degli artt. 871,872,873 c.c., integrative delle norme contenute nello stesso codice in materia di costruzioni, sicchè, ponendosi il problema della scienza ufficiale del giudice negli stessi termini di quello concernente le norme del codice civile, il giudice, cui sia ritualmente resa nota l’esistenza di normativa locale in materia, deve acquisirne conoscenza o attraverso la sua scienza personale, o attraverso la collaborazione delle parti (non soggetta alle norme sull’attività probatoria documentale), ovvero attraverso la richiesta di informazioni ai comuni, che tengono la raccolta dei regolamenti comunali ai sensi del T.U. 3 marzo 1934, n. 383, art. 62).

La legittima possibilità che il giudice acquisisca conoscenza delle norme del regolamento locale attraverso la sua scienza personale, qualifica come del tutto ingiustificato l’assunto dei ricorrenti secondo cui la corte distrettuale “avrebbe dovuto, quantomeno, acquisire ex officio il documento amministrativo contenente le disposizioni normative integrative del precetto codicistico” (così ricorso, pag. 12).

16. Con il terzo motivo i ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c..

Deducono che il loro manufatto esiste sin dal 1965 ed è stato oggetto di diversi successivi interventi edilizi, sicchè, ai fini della individuazione della disciplina in tema di distanze applicabile ratione temporis, sarebbe stato decisivo accertare in quale esatto momento temporale ha assunto la collocazione riscontrata dal c.t.u..

Deducono quindi che la corte territoriale non ha esaminato il motivo di gravame in tal senso formulato.

17. Il terzo motivo di ricorso parimenti è privo di fondamento.

18. La corte romana ha reputato applicabili le n. t.a. del p.r.g. del Comune di Roma approvato con D.P.R. 16 dicembre 1965 (cfr. sentenza d’appello, pag. 3), debitamente specificando che trattavasi di disciplina, per gli appellanti, più favorevole rispetto a quella sopravvenuta (ovvero all’art. 18 del regolamento edilizio e delle n. t.a. del p.r.g. del Comune di Roma pubblicato il 14.3.2008).

Più esattamente la corte di seconde cure ha ritenuto che il primo giudice correttamente avesse fatto applicazione dell’art. 10 delle anzidette n. t.a., in quanto “vigente al momento della realizzazione dei manufatti oggetto di causa” (così sentenza d’appello, pag. 3).

Evidentemente, in tal guisa, la corte capitolina ha, indirettamente nondimeno esplicitamente, assunto che il manufatto di spettanza di M.A. e V.P. avesse acquisito la conformazione – collocazione denunciata da F.L., siccome in violazione delle prescritte distanze, in epoca successiva al 16.12.1965.

Per nulla si giustificano dunque, pur al riguardo, la denunciata omissione di pronuncia, la denunciata violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

19. Con il quarto motivo i ricorrenti denunciano l’omesso esame circa fatto decisivo.

Deducono che la corte d’appello non ha correttamente esaminato la documentazione prodotta.

Deducono difatti che il corretto esame della documentazione allegata, se del caso corroborato da un supplemento di consulenza tecnica, avrebbe dimostrato che la collocazione del loro manufatto rispetto al confine con la proprietà dell’originario attore risaliva al 1965.

Deducono quindi che, su tale scorta, la corte di merito, viepiù ai fini dell’applicazione del meccanismo della “prevenzione”, avrebbe dovuto far applicazione non già delle n. t.a. del p.r.g. del Comune di Roma del 16.12.1965 bensì della disciplina in tema di distanze di cui al codice civile.

20. Il quarto motivo di ricorso va respinto.

21. Il motivo non è specifico.

La corte distrettuale – lo si è anticipato – ha opinato per l’applicabilità delle n.t.a. del p.r.g. del Comune di Roma approvato con D.P.R. 16 dicembre 1965.

Sicchè, a rigore, i ricorrenti avrebbero dovuto in maniera puntuale indicare l’esatto momento dell’anno 1965, evidentemente antecedente al 16.12.1965, in cui il loro manufatto ha assunto la conformazione – collocazione denunciata dall’iniziale attore.

22. In ogni caso i ricorrenti si dolgono per l’omesso esame – tra l’altro -di una scrittura privata datata 21.11.1985 e di una non meglio specificata consulenza tecnica a firma di tal architetto G..

E tuttavia il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nè in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4 – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante (cfr. Cass. 10.6.2016, n. 11892; Cass. (ord.) 26.9.2018, n. 23153).

Al contempo, pur gli stralci della scrittura privata in data 21.11.1985 e della consulenza tecnica a firma dell’architetto G. riprodotti nel corpo del quarto motivo di ricorso fanno generico riferimento all’anno 1965 senza nessuna ulteriore specificazione.

23. Con il quinto motivo i ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione degli artt. 872, 873, 875 ed 877 c.c. e delle n.t.a. del p.r.g. del Comune di Roma del 16.12.1965.

Deducono che in sede di rigetto del secondo motivo di appello la corte territoriale ha ritenuto inapplicabile il criterio della “prevenzione”, in quanto la disciplina di cui al p.r.g. del 16.12.1965 preclude la possibilità di costruire “in aderenza” o “in appoggio”.

Deducono che viceversa l’art. 12 delle n.t.a. del p.r.g. del Comune di Roma del 16.12.1965 consente le costruzioni “in aderenza” o “in appoggio”.

Deducono dunque che la possibilità di costruire “in aderenza”, sul confine, denota che il divieto di costruire in deroga alle distanze prescritte dalle n.t.a. del p.r.g. del Comune di Roma non è assoluto e quindi che opera il principio della “prevenzione”.

24. Con il sesto motivo i ricorrenti denunciano l’omesso esame circa fatto decisivo; istanza di sospensione del giudizio ex art. 295 c.p.c..

Deducono che ha errato la corte romana a reputare inapplicabile il principio della “prevenzione” in dipendenza della presenza tra il proprio fondo ed il fondo del F. di una striscia di terra di presunta proprietà di terzi.

Deducono che la corte capitolina non ha tenuto conto che tale striscia di terreno è di loro spettanza, siccome ne hanno usucapito la proprietà, tant’è che hanno promosso dinanzi al Tribunale di Roma giudizio civile iscritto al n. 21254/2009 r.g. ai fini del riconoscimento dell’intervenuto acquisto a titolo originario.

Deducono che in ogni caso la Corte di Roma avrebbe dovuto far luogo alla sospensione del giudizio in attesa della definizione del giudizio promosso ai fini dell’accertamento dell’intervenuta usucapione.

25. Il quinto motivo ed il sesto motivo di ricorso sono strettamente connessi, siccome le argomentazioni che la loro delibazione postula e sollecita, senza dubbio si correlano e si intersecano.

Ambedue i motivi comunque vanno respinti.

26. Si rappresenta che il dictum di seconde cure è ancorato, in punto di non operatività del principio della “prevenzione”, ad una duplice “ratio decidendi”.

La prima “ratio decidendi” è espressa dal passaggio motivazionale a tenor del quale le n.t.a. del p.r.g. del Comune di Roma approvato con D.P.R. 16 dicembre 1965, non contemplano la possibilità di costruire “in aderenza” o “in appoggio” con susseguente non operatività del principio della “prevenzione” (cfr. sentenza d’appello, pag. 3).

La seconda “ratio decidendi” è espressa dal passaggio motivazionale a tenor del quale “i fondi delle parti risultano separati dalla particella (OMISSIS) che, ancorchè catastalmente intestata a M.A., il c.t.u. ha accertato (…) non essere di proprietà dello stesso con conseguente ulteriore inapplicabilità del principio della prevenzione” (così sentenza d’appello, pagg. 3 – 4).

Sulla scorta del menzionato rilievo la seconda “ratio decidendi” si completa mercè il riferimento all’insegnamento di questa Corte a tenor del quale, in tema di distanza nelle costruzioni, quando due fondi siano separati da un terreno intermedio di proprietà aliena, non può operare il principio della “prevenzione”, in quanto trattasi di principio applicabile per le costruzioni sul confine, ma non per quelle arretrate rispetto alla stessa linea di confine di meno di un metro e mezzo, non potendo essere imposto al secondo costruttore l’obbligo di un distacco dal confine superiore a quello pari alla metà della distanza minima di tre metri di cui all’art. 873 c.c., siccome allo stesso è preclusa la possibilità di edificare in appoggio o in aderenza, o di avanzare sul fondo altrui, e, quindi, di esercitare i diritti di cui all’art. 875 c.c. (cfr. Cass. 30.3.2012, n. 5153).

27. Su tale scorta è innegabile che il quinto motivo attinge e reca censura della prima “ratio decidendi” e che il sesto motivo attinge e reca censura della seconda “ratio decidendi”.

Ebbene il rigetto – così come di seguito si espliciterà – del sesto mezzo di impugnazione, rende ex se immeritevole di seguito il quinto mezzo.

Tanto propriamente alla luce dell’insegnamento di questa Corte alla cui stregua, qualora la decisione di merito si fondi su di una pluralità di ragioni, tra loro distinte e autonome, singolarmente idonee a sorreggerla sul piano logico e giuridico, la ritenuta infondatezza delle censure mosse ad una delle “rationes decidendi” rende inammissibili, per sopravvenuto difetto di interesse, le censure relative alle altre ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, in quanto queste ultime non potrebbero comunque condurre, stante l’intervenuta definitività delle altre, alla cassazione della decisione stessa (cfr. Cass. 14.2.2012, n. 2108; Cass. (ord.) 11.5.2018, n. 11493).

28. Or dunque, con specifico riferimento al sesto motivo di ricorso, si osserva quanto segue.

Da un canto, non si ha riscontro di sentenza passata in giudicato recante accertamento dell’intervenuto acquisto per usucapione da parte dei ricorrenti della striscia di terreno in catasto al foglio (OMISSIS), particella (OMISSIS).

Anzi allo stato risulta che la domanda ex art. 1158 c.c., di M.A. e di V.P. è stata dal Tribunale di Roma respinta con sentenza n. 20691/2009 (cfr. controricorso, pag. 9) e che pende appello dinanzi alla Corte di Roma su istanza degli stessi ricorrenti (cfr. memoria dei ricorrenti, pag. 3). D’altro canto, ineccepibilmente non si è fatto luogo alla sospensione nei gradi di merito.

E’ sufficiente ribadire l’insegnamento di questa Corte secondo cui, ai fini della sospensione necessaria del processo, non è configurabile un rapporto di pregiudizialità necessaria tra cause pendenti fra soggetti diversi – è il caso di specie – seppur legate fra loro da pregiudizialità logica, in quanto la parte rimasta estranea ad uno di essi può sempre eccepire l’inopponibilità, nei propri confronti, della relativa decisione (cfr. Cass. (ord.) 11.8.2017, n. 20072).

Nel quadro così descritto questa Corte non può che ribadire il postulato – sostanziante la seconda “ratio” – cui, sulla scorta dell’insegnamento di questa Corte n. 5153 del 30.3.2012, in questa sede appieno da reiterare, è pervenuta la Corte d’Appello di Roma.

29. Con il settimo motivo i ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c..

Deducono che il buon esito dell’appello, quale si sarebbe imposto alla luce degli addotti rilievi, avrebbe al contempo giustificato la differente regolamentazione delle spese del doppio grado di giudizio.

30. Il settimo motivo di ricorso analogamente va respinto.

31. Le argomentazioni tutte premesse valgono inesorabilmente a dar conto dell’ineccepibilità della pronuncia di rigetto dell’appello esperito da M.A. e da V.P..

Si è dunque fatta inappuntabile applicazione del principio di causalità (cfr. Cass. 30.3.2010, n. 7625).

32. In dipendenza del rigetto del ricorso i ricorrenti vanno in solido condannati a rimborsare al controricorrente le spese del giudizio di legittimità.

La liquidazione segue come da dispositivo.

33. Non sussistono i presupposti della mala fede ovvero della colpa grave perchè si possa far luogo – come da richiesta del controricorrente – a pronunce di condanna ex art. 96 c.p.c. (cfr. Cass. sez. un. 20.4.2018, n. 9912, secondo cui la responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., comma 3, a differenza di quella di cui ai primi due commi della stessa norma, non richiede la domanda di parte nè la prova del danno, ma esige pur sempre, sul piano soggettivo, la mala fede o la colpa grave del soccombente, sussistente nell’ipotesi di violazione del grado minimo di diligenza che consente di avvertire facilmente l’infondatezza o l’inammissibilità della propria domanda, non essendo sufficiente la mera infondatezza, pur manifesta, delle tesi prospettate).

34. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, con vincolo solidale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso ai sensi dell”art. 13, comma 1 bis, D.P.R. cit., se dovuto (cfr. Cass. sez. un. 20.2.2020, n. 4315).

PQM

La Corte rigetta il ricorso; rigetta l’istanza ex art. 96 c.p.c., formulata dal controricorrente; condanna in solido i ricorrenti, M.A. e V.P., a rimborsare al controricorrente, F.L., le spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi Euro 4.300,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfetario delle spese generali nella misura del 15%, i.v.a. e cassa come per legge; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, M.A. e V.P., con vincolo solidale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso ai sensi dell’art. 13, comma 1 bis, D.P.R. cit., se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 2 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 29 dicembre 2020

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