Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29735 del 15/11/2019

Cassazione civile sez. VI, 15/11/2019, (ud. 14/03/2019, dep. 15/11/2019), n.29735

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. CIGNA Mario – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – rel. Consigliere –

Dott. D’ARRIGO Cosimo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 23125-2017 proposto da:

A.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE DELLE

MILIZIE 9, presso lo studio dell’avvocato ENRICO LUBERTO,

rappresentato e difeso dall’avvocato ALESSIO ARIOTTO;

– ricorrente –

contro

MAG 4 PIEMONTE SOC. COOP A RL;

– intimata –

avverso la sentenza n. 345/2017 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 15/02/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 14/03/2019 dal Consigliere Relatore Dott. POSITANO

GABRIELE.

Fatto

RILEVATO

che:

in data 16 marzo 2001, in sede di conciliazione giudiziale, la società cooperativa Co.A.P. si obbligava nei confronti di Mag. 4 Piemonte al pagamento della somma di lire 175 milioni, oltre interessi corrispettivi nella misura dell’8% annuo. Con scrittura privata del 15 marzo 2001, A.G. si costituiva fideiussore della società cooperativa Co.A.P. fino alla concorrenza della somma di lire 30 milioni, oltre interessi al tasso annuo dell’8%. In tale scrittura, al punto 1), era previsto che “la fideiussione si intende vincolata al contratto di finanziamento sopra citato, con effetto, in caso di mancato adempimento da parte del debitore principale per ulteriori cinque anni successivi alla scadenza di detto contratto, trascorsi i quali il fideiussore sarà liberato”. In data 22 luglio 2007 il creditore notificava alla cooperativa Co.A.P. atto di precetto fondato sul verbale di conciliazione del 16 marzo 2001 per l’importo complessivo di Euro 93.341,65;

con domanda presentata il 13 dicembre 2005, Mag 4 Piemonte chiedeva l’ammissione al passivo quale creditore chirografario del fallimento di Co.A.P.;

con decreto del 17 giugno 2011, su richiesta di Mag. 4 Piemonte, il Tribunale di Torino ingiungeva a A.G., quale fideiussore, il pagamento della somma di Euro 15.493,71, oltre interessi al tasso convenzionale annuo dell’8%;

avverso tale decreto proponeva opposizione l’ingiunto, con atto di citazione notificato il 23 agosto 2011, eccependo l’estinzione della fideiussione per decorso del termine quinquennale di scadenza dell’obbligazione assunta, ai sensi dell’art. 1) della fideiussione, da intendere quale termine di decadenza;

si costituiva il creditore rilevando di avere inviato lettera di messa in mora ai fini della prescrizione nel mese di giugno 2003;

il Tribunale di Torino, con sentenza del 9 luglio 2013, accoglieva l’opposizione e revocava il decreto ingiuntivo;

avverso tale decisione proponeva appello Mag. 4 Piemonte deducendo l’errata qualificazione del termine previsto dal citato art. 1), quale termine di decadenza e non di prescrizione. Si costituiva l’appellato chiedendo il rigetto dell’impugnazione;

la Corte d’Appello di Torino, con sentenza del 15 febbraio 2017, in accoglimento dell’appello e in riforma della sentenza impugnata, respingeva l’opposizione proposta da A.G., condannandolo al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio;

avverso tale decisione propone ricorso per cassazione A.G. affidandosi a un unico motivo, illustrato da memorie ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c.. La parte intimata non svolge attività processuale in questa fase.

Diritto

CONSIDERATO

che:

secondo il Tribunale, l’art. 1 della scrittura privata del 15 marzo 2011, oltre a prevedere la liberazione del fideiussore decorsi cinque anni dalla scadenza dell’accordo, stabiliva che, per quanto non previsto, operava la disciplina di cui all’art. 1957 c.c. con la chiara finalità convenzionale di limitare il disposto codicistico, che prevede che il fideiussore rimane obbligato anche dopo la scadenza dell’obbligazione principale. Pertanto, anche qualificando il termine come prescrizionale la volontà delle parti era nel senso della deroga al termine di prescrizione decennale previsto per l’obbligazione principale. Da ciò discenderebbe la tardività degli atti interruttivi;

al contrario, secondo la Corte territoriale, il termine previsto all’art. 1957 c.c. va qualificato come di decadenza, non soggetto a interruzione e, in virtù del richiamo all’art. 1310 c.c., in tema di solidarietà passiva, la istanza proposta contro uno dei debitori solidali interrompe il corso della prescrizione anche nei confronti degli altri. Pertanto, la maggiore utilità convenzionalmente fissata nel limitare a cinque anni la responsabilità del fideiussore, modifica in ciò il regime decennale dell’art. 1957 c.c., ma non anche la previsione dell’ultimo comma di tale norma e più in generale, dell’art. 1310 c.c. che estende l’interruzione della prescrizione operata nei confronti del debitore principale, anche verso il fideiussore. Nei confronti del primo il termine era stato interrotto con precetto notificato il 22 luglio 2003, con riferimento al termine ordinario di prescrizione decennale;

con l’unico motivo di ricorso si lamenta la violazione dell’art. 1957 c.c., u.c. e la contraddittorietà della motivazione, censurando la parte della decisione con la quale la Corte territoriale avrebbe escluso che le parti avessero limitato il periodo di prescrizione ordinario al minor termine di cinque anni, limitatamente alla posizione del garante e ciò sulla base di una argomentazione sostanzialmente inconsistente;

il motivo è inammissibile perchè, nell’esposizione delle doglianze, parte ricorrente omette di considerare la motivazione della sentenza impugnata, che riporta nell’esposizione del fatto, limitandosi ad invocare come giusta la soluzione interpretativa data dal primo giudice, alla cui motivazione fa riferimento. Va richiamato a riguardo il consolidato principio di diritto affermato da Cass. n. 359 del 2005 e ribadito da Cass., Sez. Un., nn. 16598 e 22226 del 2016, e n. 7074 del 2017 secondo cui “il motivo d’impugnazione è rappresentato dall’enunciazione, secondo lo schema normativo con cui il mezzo è regolato dal legislatore, della o delle ragioni per le quali, secondo chi esercita il diritto d’impugnazione, la decisione è erronea, con la conseguenza che, in quanto, per denunciare un errore bisogna identificarlo e, quindi, fornirne la rappresentazione, l’esercizio del diritto d’impugnazione di una decisione giudiziale può considerarsi avvenuto in modo idoneo soltanto qualora i motivi con i quali è esplicato si concretino in una critica della decisione impugnata e, quindi, nell’esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa è errata, le quali, per essere enunciate come tali, debbono concretamente considerare le ragioni che la sorreggono e da esse non possono prescindere, dovendosi, dunque, il motivo che non rispetti tale requisito considerarsi nullo per inidoneità al raggiungimento dello scopo. In riferimento al ricorso per Cassazione tale nullità, risolvendosi nella proposizione di un “non motivo”, è espressamente sanzionata con l’inammissibilità ai sensi dell’art. 366 n. 4 c.p.c.”;

sotto altro profilo il motivo è inammissibile poichè non è dedotta la violazione delle norme di cui agli artt. 1362 c.c. e seguenti (Cass. 8 settembre 2017 n. 20964). In particolare, l’articolazione del motivo pone un problema di esegesi della scrittura privata senza illustrarlo con argomenti che evochino le norme sui canoni interpretativi;

in particolare, in tema di interpretazione del contratto, il procedimento di qualificazione giuridica consta di due fasi, delle quali la prima – consistente nella ricerca e nella individuazione della comune volontà dei contraenti – è un tipico accertamento di fatto riservato al giudice di merito, sindacabile in sede di legittimità solo per vizi di motivazione in relazione ai canoni di ermeneutica contrattuale di cui agli artt. 1362 c.c. e s.s., mentre la seconda – concernente l’inquadramento della comune volontà nello schema legale corrispondente risolvendosi nell’applicazione di norme giuridiche – può formare oggetto di verifica e riscontro in sede di legittimità sia per quanto attiene alla descrizione del modello tipico della fattispecie legale, sia per quanto riguarda la rilevanza qualificante degli elementi di fatto così come accertati, sia infine con riferimento alla individuazione delle implicazioni effettuali conseguenti alla sussistenza della fattispecie concreta nel paradigma normativo (Sez. 1 -, Ordinanza n. 29111 del 05/12/2017, Rv. 646340 – 01). Pertanto, onde far valere una violazione sotto il primo profilo, occorre non solo fare puntuale riferimento alle regole legali d’interpretazione, mediante specifica indicazione dei canoni asseritamente violati ed ai principi in esse contenuti, ma occorre, altresì, precisare in qual modo e con quali considerazioni il giudice del merito se ne sia discostato, con l’ulteriore conseguenza dell’inammissibilità del motivo di ricorso che si fondi sull’asserita violazione delle norme ermeneutiche o del vizio di motivazione e si risolva, in realtà, nella proposta di una interpretazione diversa;

le considerazioni oggetto della memoria nulla aggiungono a quanto sopra evidenziato,

ne consegue che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile; nulla per le spese del presente giudizio di cassazione poichè la parte intimata non ha svolto attività processuale. Infine, va dato atto – mancando ogni discrezionalità al riguardo (tra le prime: Cass. 14/03/2014, n. 5955; tra molte altre: Cass. Sez. U. 27/11/2015, n. 24245) – della sussistenza dei presupposti per l’applicazione del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, in tema di contributo unificato per i gradi o i giudizi di impugnazione e per il caso di reiezione integrale, in rito o nel merito.

PQM

dichiara inammissibile il ricorso. Nulla per le spese.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, da atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sesta Sezione Civile-3, il 14 marzo 2019.

Depositato in cancelleria il 15 novembre 2019

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