Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29727 del 15/11/2019

Cassazione civile sez. III, 15/11/2019, (ud. 30/09/2019, dep. 15/11/2019), n.29727

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SESTINI Danilo – Presidente –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al numero 7100 del ruolo generale dell’anno

2018, proposto da:

D.C., (C.F.: (OMISSIS));

M.M., (C.F.: (OMISSIS)) rappresentate e difese, giusta

procura in calce al ricorso, dall’avvocato Marco Zuffada (C.F.: ZFF

MRC 72H06 G535T);

– ricorrenti –

nei confronti di:

BANCA DI PIACENZA S.C.p.A., (C.F.: (OMISSIS)), in persona del

Presidente del Consiglio di amministrazione, legale rappresentante

pro tempore, N.G. rappresentato e difeso, giusta procura

in calce al controricorso, dagli avvocati Franco Spezia (C.F.: SPZ

FNC 57A01 G535D) e Paolo Panariti (C.F.: PNR PLA 60L14 H5010);

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Corte di Appello di Bologna n.

1845/2017, pubblicata in data 10 agosto 2017;

udita la relazione sulla causa svolta alla pubblica udienza in data

30 settembre 2019 dal consigliere Dott. Augusto Tatangelo;

uditi:

il pubblico ministero, in persona del sostituto procuratore generale

Dott. Cardino Alberto, che ha concluso per l’accoglimento del primo

motivo del ricorso; la dichiarazione di inammissibilità o, in

subordine, per il rigetto del ricorso;

l’avvocato Marco Zuffada, per le ricorrenti;

l’avvocato Mario Pierino Patella, per delega dell’avvocato Paolo

Panariti, per la banca controricorrente.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Banca di Piacenza S.C.p.A. ha agito in giudizio per ottenere la dichiarazione di inefficacia, ai sensi dell’art. 2901 c.c., dell’atto con il quale la sua debitrice D.C. aveva costituito su due immobili di sua proprietà siti in Piacenza un vincolo di destinazione in favore della figlia M.M. e del nipote C.G., con lo scopo di rimborsare ai predetti familiari quanto da loro anticipato per spese inerenti l’istruzione professionale e scolastica.

La domanda è stata accolta dal Tribunale di Piacenza.

La Corte di Appello di Bologna ha confermato la decisione di primo grado.

Ricorrono la D. e la M., sulla base di quattro motivi. Resiste con controricorso la Banca di Piacenza S.C.p.A..

Le ricorrenti hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo del ricorso si denunzia “violazione o falsa applicazione dell’art. 102 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Carenza di legittimazione passiva in capo alla beneficiaria M.M.”.

Il motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato.

Viene dedotta la violazione dell’art. 102 c.p.c., sostenendosi che la convenuta M.M., beneficiaria del vincolo di destinazione costituito sui propri immobili dalla madre D.C., non potrebbe considerarsi litisconsorte necessaria nell’azione revocatoria promossa per la dichiarazione di inefficacia dell’atto costitutivo del vincolo stesso.

La censura non coglie adeguatamente la effettiva ratio decidendi della sentenza impugnata sul punto.

La corte di appello non ha infatti affermato che nell’azione revocatoria di un atto unilaterale di costituzione di un vincolo di destinazione su beni immobili che restano nella proprietà del disponente sussiste litisconsorzio necessario con il beneficiario del vincolo, ai sensi dell’art. 102 c.p.c., ma solo che quest’ultimo, avendo un evidente interesse al mantenimento del suddetto vincolo, potrebbe eventualmente partecipare al giudizio quale interventore, ciò che, di per sè, legittima la sua evocazione in giudizio anche quale convenuto. Ha poi aggiunto che, nella specie, poichè la M. in primo grado aveva formulato le proprie difese anche con riguardo al merito dell’azione revocatoria (chiedendone il rigetto), ella aveva comunque di fatto assunto la posizione di una interventrice adesiva dipendente, il che giustificava (anche quindi a prescindere dalla sussistenza dell’originaria legittimazione passiva della stessa) la sua partecipazione al giudizio.

Orbene, in base ai principi di diritto affermati da questa Corte, in caso di azione revocatoria avente ad oggetto atti costitutivi di vincoli di destinazione su beni che restano nella esclusiva proprietà del disponente, di regola, i meri beneficiari degli effetti del vincolo, che non acquistano diritti in relazione ai beni vincolati, non assumono la posizione di litisconsorti necessari (cfr., ad es., con riguardo alla posizione del mero beneficiario, in caso di azione revocatoria di atto di dotazione di beni in “trust”: Cass., Sez. 3, Sentenza n. 19376 del 03/08/2017, Rv. 645384-02; Sez. 3, Sentenza n. 13388 del 29/05/2018, Rv. 649036 – 01; cfr., altresì, con riguardo alla posizione dei figli, in caso di azione revocatoria di atto costitutivo di un fondo patrimoniale: Cass., Sez. 3, Sentenza n. 19376 del 03/08/2017, Rv. 645384 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 19330 del 03/08/2017, Rv. 645489 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 10641 del 15/05/2014, Rv. 630893 – 01; Sez. 1, Sentenza n. 18065 del 08/09/2004, Rv. 576857 – 01; Sez. 1, Sentenza n. 5402 del 17/03/2004, Rv. 571254 – 01).

Deve però affermarsi che, laddove dall’eventuale dichiarazione di inefficacia, ai sensi dell’art. 2901 c.c., dell’atto costitutivo di un vincolo di destinazione in relazione a beni che restano nella esclusiva proprietà del disponente, possano derivare in concreto effetti pregiudizievoli per i beneficiari del vincolo, questi hanno certamente un interesse che giustifica la loro eventuale partecipazione al giudizio, quanto meno ai sensi dell’art. 105 c.p.c. e, correlativamente, l’attore in revocatoria ha interesse a convenirli eventualmente in giudizio, unitamente al disponente, onde rendere agli stessi direttamente opponibili gli effetti della sentenza.

Nella specie, l’accoglimento dell’azione revocatoria proposta dalla banca in relazione all’atto costitutivo del vincolo posto in essere dalla D. ai sensi dell’art. 2645 ter c.c. determina la possibilità per la banca di procedere all’espropriazione forzata dei beni vincolati, per la soddisfazione dei suoi crediti, come se fossero liberi dal vincolo stesso; all’esito di tale espropriazione i beni vincolati non potrebbero più essere destinati allo scopo per cui è stato impresso il vincolo (scopo per la realizzazione del quale il quale il beneficiario ha addirittura diritto di agire in giudizio, ai sensi dell’art. 2645 ter c.c.); quindi, certamente il beneficiario di quel vincolo risentirà un pregiudizio. In siffatta situazione va certamente riconosciuto il suo diritto di intervenire nel giudizio avente ad oggetto la revoca dell’atto costitutivo e, al tempo stesso, la facoltà dell’attore in revocatoria di convenirlo in giudizio, unitamente al disponente, per rendergli opponibili in via diretta gli effetti della sentenza.

La decisione impugnata, nel ritenere la M. (se non litisconsorte necessaria, quanto meno) legittimata ad intervenire nel presente giudizio e, comunque, legittimata passiva in relazione all’azione revocatoria proposta dalla banca, è conforme ai principi di diritto sopra enunciati, onde essa va confermata.

E’ appena il caso di osservare che, in base a quanto sin qui osservato, non hanno concreto rilievo le contestazioni relative alla effettiva proposizione, da parte della M., di difese relative al merito dell’azione revocatoria, in primo grado (dovendo affermarsi comunque la sua legittimazione passiva, come appena chiarito).

In ogni caso, anche sotto questo aspetto le censure sono inammissibili, in quanto non viene richiamato lo specifico contenuto delle difese svolte dalla M. in primo grado, in violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, il che impedisce alla Corte di verificare la fondatezza del suo assunto.

2. Con il secondo motivo si denunzia “violazione e falsa applicazione dell’art. 2645 ter c.c. in riferimento all’art. 2901 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3). Atto dispositivo del patrimonio: insussistenza. Carenza dell’eventus damni”.

Il motivo è infondato.

Si sostiene che la costituzione del vincolo ai sensi dell’art. 2645 ter c.c. sui propri beni, da parte della D., non rappresenterebbe un atto dispositivo del suo patrimonio, in quanto i beni vincolati sono rimasti di sua proprietà e i beneficiari non hanno acquistato alcun diritto reale in relazione agli stessi. Inoltre, l’interesse da lei perseguito sarebbe meritevole di tutela ai sensi dell’art. 1322 c.c. e limitato ad un lasso di tempo ragionevole (fino alla sua morte) specie tenuto conto della sua età (63 anni) al momento della stipula.

Contrariamente a quanto sostenuto da parte ricorrente, la corte di appello ha in realtà correttamente ritenuto revocabile l’atto di costituzione del vincolo, in quanto, benchè con tale atto non sia trasferita la proprietà dei beni oggetto dello stesso e non siano costituiti su di essi diritti reali in senso proprio, detto vincolo è comunque idoneo a sottrarre i beni vincolati all’azione esecutiva dei creditori, ha quindi effetti connotati dal carattere della “realità” in senso ampio (tanto che è oggetto di trascrizione) e, di conseguenza, è idoneo a pregiudicare le loro ragioni, come del resto si ritiene in situazioni analoghe (anche se non identiche), quali la costituzione del fondo patrimoniale ai sensi dell’art. 167 c.c. e la costituzione e dotazione di beni in “trust”.

Le questioni relative alla meritevolezza di tutela della finalità perseguita con la costituzione del vincolo ed alla ragionevole durata dello stesso sono poi del tutto irrilevanti ai fini della revocabilità dell’atto di destinazione: si tratta di infatti di considerazioni relative alla validità (della causa) di quest’ultimo, laddove l’azione revocatoria non ha affatto riguardo alla validità dell’atto da revocare, anzi, presuppone un atto valido, e richiede esclusivamente l’accertamento della sua idoneità a determinare un pregiudizio per i diritti dei creditori, pregiudizio che nella specie è innegabile.

3. Con il terzo motivo si denunzia “violazione o falsa applicazione dell’art. 2645ter c.c. in riferimento all’art. 2901 c.c., comma 3 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) Costituzione di vincolo di destinazione quale atto a titolo gratuito: insussistenza. Finalità solutionis causa”.

Il motivo è inammissibile, prima ancora che manifestamente infondato.

Si sostiene che l’atto di costituzione del vincolo di destinazione non potrebbe ritenersi atto a titolo gratuito, avendo esso una finalità “solutoria”.

Si tratta, in primo luogo, di una questione che non è affrontata nella sentenza impugnata, che richiede accertamenti di fatto e che parte ricorrente non indica se ed eventualmente in quale fase, in quali atti ed in quali termini aveva già sollevato nel corso del giudizio di merito.

Essa deve pertanto ritenersi proposta per la prima volta nella presente sede, il che non è ammissibile.

D’altra parte, dagli atti emerge chiaramente che il vincolo posto sui beni della D. aveva lo scopo di consentire il pagamento delle spese mediche e di istruzione di alcuni suoi familiari (la figlia e il nipote), anche in parte, sembrerebbe, quelle dagli stessi già sostenute. Nell’atto di costituzione del vincolo sono utilizzati i termini “rimborso” e “anticipazioni”, ma – come è evidente – non certo nello specifico significato giuridico sostenuto nel ricorso, cioè in riferimento ad una finalità “solutionis causa”.

Onde poter affermare l’effettiva natura “solutoria” dell’atto di costituzione del vincolo sarebbe stato necessario il riferimento ad una specifica obbligazione della disponente che a mezzo del suddetto atto si intendesse adempiere.

In realtà non è neanche allegato che la D. avesse una qualche obbligazione nei confronti dei beneficiari del vincolo (nè si può supporre che si trattasse di adempimento di obbligazioni alimentari o di mantenimento, in mancanza di qualsiasi allegazione in ordine alla sussistenza dei relativi presupposti).

Di conseguenza, nella specie, il beneficio che la disponente ha inteso garantire ai suoi familiari non può che ritenersi espressione di un suo spirito di liberalità e non certo l’adempimento di un obbligo (inesistente e comunque del tutto imprecisato) nei loro confronti; quindi, nell’atto costitutivo del vincolo non può ravvisarsi alcuna finalità solutoria.

La censura è, di conseguenza, anche manifestamente infondata.

4. Con il quarto motivo si denunzia “violazione o falsa applicazione dell’art. 356 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) omessa ammissione di CTU per determinare il valore del patrimonio residuo della disponente D.C.: motivazione contraddittoria e illogica”.

Le censure sono inammissibili.

Si tratta di contestazioni attinenti ad accertamenti di merito svolti dalla corte di appello, in relazione alla consistenza del patrimonio residuo della D., sulla base della valutazione dei fatti storici rilevanti emergenti degli elementi istruttori acquisiti e sostenuti da adeguata motivazione (non apparente nè insanabilmente contraddittoria sul piano logico, come tale non censurabile nella presente sede).

Le predette contestazioni sono comunque formulate senza uno specifico e puntuale richiamo al contenuto degli atti su cui sono fondate (in particolare, le relazioni di stima sul valore dei singoli beni e sui debiti facenti capo alla stessa D. ed al R., indicato come suo coniuge e coobbligato), in evidente violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6.

D’altra parte, la stessa ammissione di una consulenza tecnica di ufficio è un potere discrezionale del giudice del merito non sindacabile in sede di legittimità, salvo che il mancato espletamento della stessa si risolva in un difetto di motivazione o di omesso esame di fatti decisivi, che nella specie va certamente escluso.

Le censure di cui al motivo di ricorso in esame si risolvono in definitiva nella contestazione di accertamenti di fatto e nella richiesta di nuova e diversa valutazione delle prove, il che non è consentito in sede di legittimità.

5. Il ricorso è rigettato.

Per le spese del giudizio di cassazione nei rapporti tra la ricorrente D. e la società controricorrente si provvede, sulla base del principio della soccombenza, come in dispositivo. Nei rapporti tra la ricorrente M. e la società controricorrente le spese del giudizio di legittimità possono essere integralmente compensate, sussistendo motivi sufficienti a tal fine, anche in considerazione della sostanziale novità delle questioni giuridiche affrontate.

Deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali (rigetto, ovvero dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

PQM

La Corte:

– rigetta il ricorso;

– condanna la ricorrente D. a pagare le spese del giudizio di legittimità in favore della società controricorrente, liquidandole in complessivi Euro 7.000,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, spese generali ed accessori di legge. dichiara integralmente compensate tra la ricorrente M. e la società controricorrente le spese del giudizio di legittimità.

Si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali (rigetto, ovvero dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso (se dovuto e nei limiti in cui lo stesso sia dovuto), a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 30 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 15 novembre 2019

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