Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29727 del 12/12/2017


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Civile Ord. Sez. 2 Num. 29727 Anno 2017
Presidente: BIANCHINI BRUNO
Relatore: SCARPA ANTONIO

ORDINANZA
sul ricorso 24777-2013 proposto da:
CAFFE’ CAGLIARI SPA 01344940364, elettivamente domiciliata
in ROMA, VIA FEDERICO CESI 72, presso lo studio
dell’avvocato ACHILLE BUONAFEDE, che la rappresenta e
difende unitamente all’avvocato GIUSEPPE PICCHIONI;
– ricorrente contro
ANDREOLI FABIO, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA
COSSERIA 5, presso lo studio dell’avvocato GUIDO
FRANCESCO ROMANELLI, che lo rappresenta e difende
unitamente all’avvocato PIERPAOLO CIPRESSI;
– controricorrente avverso la sentenza n. 202/2013 della CORTE D’APPELLO di
BOLOGNA, depositata il 03/04/2013;

Data pubblicazione: 12/12/2017

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio
del 04/10/2017 dal Consigliere Dott. ANTONIO SCARPA.
FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE
I.La Caffè Cagliari s.p.a. ha proposto ricorso per cassazione,
articolato in due motivi, avverso la sentenza della Corte

respinto l’appello formulato dalla stessa società contro la
sentenza n. 525/2009 resa in primo grado dal Tribunale di
Reggio Emilia.
Fabio Andreoli si difende con controricorso.
La ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis 1
c.p.c.
II.La Caffè Cagliari s.p.a. aveva domandato al Tribunale di
Reggio Emilia di accertare che Fabio Andreoli, agente incaricato
della vendita dei prodotti della preponente in forza di contratto
del 1 marzo 1997, avesse violato il patto di non concorrenza ex
art. 1751 bis c.c. contenuto nella clausola n. 14 di tale
contratto, e perciò andasse condannato a risarcire all’attrice i
danni subiti per lo sviamento di clientela ed a restituire le
somme versategli a titolo di compenso per tale patto.
Confermando la decisione di primo grado, la Corte d’Appello di
Bologna ha affermato che la clausola n. 14, richiamando la
clausola n. 2, individuava così i comuni della zona assegnata
all’Andreoli, ma non specificava i clienti già serviti dagli altri
colleghi, e perciò non consentiva chiaramente di identificare
l’ambito territoriale di efficacia del patto. Aggiungeva la Corte
d’Appello che la stessa clausola doveva ritenersi caducata a
seguito degli accordi integrativi del 28 novembre 2003 e 2
gennaio 2007, i quali non facevano più alcun cenno al
compenso per l’obbligo di non concorrenza e variavano il
sistema di pagamento delle provvigioni, determinandole sul
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d’Appello di Bologna n. 202/2013 del 3 aprile 2013, che aveva

fatturato anche degli altri agenti. La sopravvenuta entrata in
vigore dell’art. 23, legge n. 422/2000, per la Corte di Bologna,
avrebbe dovuto vieppiù indurre le parti a rivedere
esplicitamente l’originario patto di non concorrenza. Ancora, la
sentenza impugnata dava rilevanza al mancato pagamento del

documenti fiscali esibiti, che smentivano l’assunto della società
appellante di aver continuato a versare all’Andreoli il compenso
per il patto di non concorrenza in forza di acconti sul
trattamento di fine rapporto. La sentenza impugnata
concludeva negando che la prova dei pagamenti del compenso
per il patto di non concorrenza potesse essere fornita mediante
CTU, in quanto la stessa avrebbe avuto carattere esplorativo.
111.11 primo motivo di ricorso della Caffè Cagliari s.p.a.
denuncia la nullità della sentenza per violazione degli artt. 112
e 161 c.p.c., in quanto la Corte d’Appello di Bologna non
avrebbe disposto sulle proprie domande subordinate di
ripetizione di indebito e di risarcimento del danno. Caducato il
patto di non concorrenza, assume la ricorrente, essa avrebbe
allora pagato somme non dovute e dovrebbe vedersi
riconosciuto un credito per indebito. Inoltre, l’Andreoli doveva
essere dichiarato inadempiente per aver sottratto clienti alla
Caffé Cagliari.
111.1. Il primo motivo di ricorso è infondato. E’ configurabile
un’omessa pronuncia, intesa come difetto di attività del giudice
di secondo grado, da denunciare come violazione dell’art. 112
c.p.c., quando appaia che la decisione di appello non abbia
proprio esaminato né deciso un motivo di censura della
sentenza di primo grado, e perciò manchi completamente il
provvedimento indispensabile per la soluzione del caso
concreto, e non quando il ricorrente lamenti che il giudice del
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corrispettivo pattuito a tale titolo, come dimostrato dai

merito abbia risolto in modo giuridicamente non corretto la
questione oggetto di doglianza, ovvero senza giustificare la
decisione al riguardo resa. Il vizio d’omessa pronuncia deve
essere escluso poi certamente escluso, pur in assenza di una
specifica argomentazione, in relazione ad una questione

della sentenza (Cass. Sez. L, 26/01/2016, n. 1360; Cass. Sez.
3, 25/02/2005, n. 4079). Non ricorre dunque nel caso di specie
alcuna omessa pronuncia sulle domande di ripetizione di
indebito e di risarcimento del danno, in quanto la Corte
d’Appello di Bologna, avendo accertato che l’originario patto di
non concorrenza del 1997 fosse invalido, o comunque caducato
per volontà delle parti sin dal 2003, e che non vi fosse prova di
pagamenti erogati a tale titolo dalla Caffè Cagliari s.p.a., ha
fondato la decisione su una costruzione logico-giuridica
incompatibile con quelle pretese, aventi carattere accessorio e
consequenziale rispetto al profilo principale di causa
espressamente disatteso.
IV. Il secondo motivo di ricorso censura l’omesso esame di
fatto decisivo per la mancata valutazione dell’importanza di
disporre una CTU allo scopo di accertare le maggiori somme
versate dalla preponente all’agente e da questo trattenute
senza causa.
IV.1. Anche il secondo motivo è infondato. E’ noto come l’art.
360, comma 1, n. 5, c.p.c., come riformulato dall’art. 54 del
d.l. n. 83 del 2012, convertito in legge n. 134 del 2012,
contempla soltanto il vizio di omesso esame di un fatto storico,
principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della
sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto
di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo. Ne
consegue che tale vizio va denunciato nel rispetto delle
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implicitamente o esplicitamente assorbita in altre statuizioni

previsioni degli artt. 366, comma 1, n. 6, e 369, comma 2, n.
4, c.p.c., dovendo il ricorrente indicare il “fatto storico”, il cui
esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da
cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia
stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua

istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un
fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia
stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché
la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze
probatorie (Cass. Sez. U, 07/04/2014, n. 8053).
Incombeva certamente sulla Caffé Cagliari S.p.A. la prova
dell’avvenuto pagamento di somme a titolo di corrispettivo
dovuto per il patto di non concorrenza, delle quali chiedeva la
restituzione. La prova dell’indebito può essere fornita anche
per testimoni, non operando al riguardo neppure i limiti di cui
all’art. 2721 c.c. (Cass. Sez. 2, 09/08/2010, n. 18483).

E’

agevole considerare come non è censurabile in sede di
legittimità, tanto meno sulla base dell’art. 360, comma 1, n. 5,
c.p.c., riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, la
mancata ammissione di una consulenza tecnica per
accertamenti contabili, anche perché l’esperimento di una
consulenza tecnica d’ufficio è rimesso alla discrezionalità del
giudice del merito e non può essere inteso come un mezzo che
esoneri la parte dall’onere della prova dei fatti posti a
fondamento della pretesa fatta valere in giudizio.
V. Il ricorso va perciò rigettato e la ricorrente va condannata a
rimborsare al controricorrente le spese del giudizio di
cassazione nell’ammontare liquidato in dispositivo.
Sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art. 1,
comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, che ha
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“decisività”. Rimane fermo che l’omesso esame di elementi

aggiunto il comma 1-quater all’art. 13 del testo unico di cui al
d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – dell’obbligo di versamento,
da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione
integralmente rigettata.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a rimborsare
al controricorrente le spese sostenute nel giudizio di
cassazione, che liquida in complessivi C 7.200,00, di cui C
200,00 per esborsi, oltre a spese generali e ad accessori di
legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del
2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del
2012, dichiara la sussistenza dei presupposti per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a
titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso,
a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda
sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 4 ottobre
2017.

P. Q. M.

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