Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29718 del 15/11/2019

Cassazione civile sez. III, 15/11/2019, (ud. 30/09/2019, dep. 15/11/2019), n.29718

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SESTINI Danilo – Presidente –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al numero 8639 del ruolo generale dell’anno

2017, proposto da:

A.L., (C.F.: (OMISSIS)) R.M. (C.F.: (OMISSIS))

R.P. (C.F.: (OMISSIS)) R.R. (C.F.: (OMISSIS))

R.G. (C.F.: (OMISSIS)) RE.Pa. (C.F.: (OMISSIS))

rappresentati e difesi, giusta procura in calce al ricorso,

dall’avvocato Michele Liguori (C.F.: LGR MHL 58P14 F839K);

– ricorrenti –

nei confronti di:

UNIPOLSAI ASSICURAZIONI S.p.A., (C.F.: (OMISSIS)), in persona del

rappresentante per procura C.A.R. rappresentato e

difeso, giusta procura in calce al controricorso, dall’avvocato

Maurizio Romagnoli (C.F.: RMG MRZ 47P23 H501Y);

– controricorrente –

nonchè

LA NAVALE ASSICURAZIONI S.p.A., (C.F.: (OMISSIS)), in persona del

legale rappresentante pro tempore AV.An. (C.F.: (OMISSIS))

INAIL – ISTITUTO NAZIONALE PER L’ASSICURAZIONE CONTRO GLI INFORTUNI

SUL LAVORO (C.F.: (OMISSIS)), in persona del legale rappresentante

pro tempore;

– intimati –

per la cassazione della sentenza della Corte di Appello di Napoli n.

1429/2016, pubblicata in data 11 aprile 2016;

udita la relazione sulla causa svolta alla pubblica udienza in data

30 settembre 2019 dal consigliere Dott. Augusto Tatangelo;

uditi:

il pubblico ministero, in persona del sostituto procuratore generale

Dott. Cardino Alberto, che ha concluso per l’accoglimento del primo,

del secondo, del quinto e dell’undicesimo motivo del ricorso,

rigettati gli altri;

l’avvocato Maurizio Lanigra, per delega dell’avvocato Maurizio

Romagnoli, per la società controricorrente.

Fatto

FATTI DI CAUSA

A.L. ha agito in giudizio nei confronti di Av.An. e della S.p.A. La Fiduciaria per ottenere il risarcimento dei danni subiti (in proprio e quale erede della vittima) in conseguenza di un incidente stradale avvenuto in data (OMISSIS), in cui aveva perso la vita il coniuge Re.Gi.. Sono intervenuti volontariamente nel giudizio i figli della vittima M., P., R. e R.G., nonchè i genitori L.M. e R.G. ed il fratello Re.Pa., chiedendo anch’essi il risarcimento dei danni conseguiti al sinistro.

E’ stato chiamato in giudizio dalla società convenuta l’INAIL che, costituendosi, ha chiesto il rimborso dell’indennizzo corrisposto ai familiari della vittima.

Il Tribunale di Napoli, accertato il concorso di colpa dei due conducenti dei veicoli coinvolti nell’incidente (per il 65% a carico dell’ Av. e per il 35% a carico del Re.), ha condannato l’ Av. a risarcire i danni in favore degli attori (nella misura dei seguenti importi, oltre accessori: Euro 1.167,40, per i danni al veicolo, in favore del coniuge e dei figli della vittima; Euro 71.166.96 in favore del coniuge e di ciascun figlio della vittima; Euro 71.500,00 in favore di ciascun genitore ed Euro 32.500,00 in favore del fratello della vittima). Ha condannato al risarcimento, in solido con l’ Av., anche la S.p.A. La Fiduciaria, quest’ultima per una somma ulteriore di Euro 186.365,08 rispetto al massimale assicurativo, oltre accessori. Ha altresì accolto la domanda di surroga dell’INAIL nei confronti dell’ Av., per l’importo di Euro 96.407,35.

La Corte di Appello di Napoli, in parziale riforma della decisione di primo grado, ha rigettato la domanda di condanna della società assicuratrice oltre il massimale, per mala gestio, confermando la decisione impugnata per ogni altro aspetto.

Ricorrono A.L., M., P., R. e R.G., nonchè Re.Pa. (anche quali eredi di L.M. e R.G., deceduti in corso di causa) sulla base di undici motivi.

Resiste con controricorso UnipolSai Assicurazioni S.p.A. (subentrata alla S.p.A. La Fiduciaria nella titolarità delle situazioni soggettive di cui si controverte a seguito di una serie di vicende di fusione societaria).

Non hanno svolto attività difensiva in questa sede gli altri intimati.

I ricorrenti hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Va preliminarmente dichiarato inammissibile il controricorso della UnipolSai Assicurazioni S.p.A..

In caso di proposizione del ricorso (e/o del controricorso) a mezzo di procuratore speciale, ai sensi dell’art. 77 c.p.c., la produzione del relativo documento che contenga la procura è indispensabile per la verifica del corretto conferimento dei poteri, sostanziali e processuali, al rappresentante, a norma dell’art. 77 c.p.c. e, in mancanza, il ricorso o il controricorso sono inammissibili; il vizio è sempre rilevabile di ufficio (diversamente da quanto avviene in caso di costituzione del legale rappresentante dell’ente o di soggetto al quale il potere di rappresentanza derivi direttamente dall’atto costitutivo o dallo Statuto) e non basta che colui che si qualifica come rappresentante dell’ente in forza di una procura notarile ne indichi gli estremi, in quanto, se l’atto non è stato prodotto, resta ferma l’impossibilità di verificare il potere rappresentativo del soggetto (giurisprudenza costante di questa Corte; cfr. Cass., Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 11898 del 07/05/2019, Rv. 653802 01; Sez. 2, Sentenza n. 4924 del 27/02/2017, Rv. 643163 01; Sez. 3, Sentenza n. 21803 del 28/10/2016, Rv. 642963 01; Sez. 3, Sentenza n. 16274 del 31/07/2015, Rv. 636620 01; Sez. L, Sentenza n. 23786 del 21/10/2013, Rv. 628512 – 01; Sez. 1, Sentenza n. 1345 del 21/01/2013, Rv. 624765 01; Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 9091 del 05/06/2012, Rv. 622651 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 13207 del 26/07/2012, non massimata; Sez. 1, Sentenza n. 22009 del 19/10/2007, Rv. 599237 – 01; Sez. 1, Sentenza n. 10122 del 02/05/2007, Rv. 597012 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 11285 del 27/05/2005, Rv. 582413 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 11188 del 26/05/2005, Rv. 582325 – 01).

Nella specie la Unipolsai Assicurazioni S.p.A. risulta costituita in giudizio in persona di C.A.R., soggetto che ha rilasciato al difensore (avvocato Maurizio Romagnoli) la procura speciale per il giudizio di legittimità, nella quale si dichiara procuratrice speciale (e non legale rappresentante) della compagnia intimata, in base ad un atto per notaio G. di (OMISSIS) del 1 agosto 2014 che non è stato prodotto (e ciò sebbene nell’epigrafe del controricorso si indichi la C. come “procuratore speciale legale rappresentante pro tempore”: la precisazione contenuta nel testo della procura ad litem chiarisce peraltro che si tratta di una rappresentante per procura e non del legale rappresentante della società).

D’altra parte, che la C. sia legale rappresentante della società non è stato in alcun modo documentato (nonostante la specifica eccezione avanzata in proposito dai ricorrenti nella memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c.).

2. Con il primo motivo del ricorso si denunzia “Violazione e/o falsa applicazione delle norme ex artt. 1226,2043,2056,2059 c.c.; divergenza tra effettiva gravità del danno non patrimoniale subito dai superstiti per la perdita definitiva del rapporto parentale e risarcimento del danno; erronea ed incongrua liquidazione del danno non patrimoniale sulla scorta delle vecchie tabelle “paranormative” del Tribunale di Milano del 2008 (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)”.

Con il secondo motivo del ricorso si denunzia “Violazione e/o falsa applicazione delle norme ex art. 112 c.p.c., ex art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, art. 342 c.p.c., art. 118 disp. att. c.p.c. e art. 111 Cost.; mancato esame delle domande e delle conclusioni formulate ed, in particolare, mancato esame della domanda di liquidazione del danno non patrimoniale per la perdita definitiva del rapporto sulla scorta delle vigenti tabelle di liquidazione del Tribunale di Milano; omessa pronuncia; nullità della sentenza o del procedimento (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4)”.

I primi due motivi del ricorso possono essere esaminati congiuntamente in quanto con essi sono poste le medesime questioni.

Le relative censure sono in parte infondate ed in parte inammissibili.

Il danno non patrimoniale in favore dei ricorrenti è stato liquidato dal tribunale in primo grado in via equitativa, ai sensi dell’art. 1226 c.c.. Il criterio di specificazione dell’equità utilizzato è stato tratto dai valori parametrici indicati nelle apposite tabelle elaborate presso il Tribunale di Milano per la liquidazione dei danni non patrimoniali.

I ricorrenti, in sede di gravame, hanno chiesto che la liquidazione fosse rivista in quanto, dopo la pubblicazione della decisione di primo grado, era sopravvenuta una nuova versione delle indicate tabelle, in base alla quale sarebbe loro spettato un importo maggiore, così come sarebbe avvenuto applicando le più recenti tabelle elaborate presso il Tribunale di Roma.

La corte di appello ha disatteso tali pretese, ritenendo conforme agli artt. 1226 e 2056 c.c. l’utilizzazione delle tabelle elaborate presso il Tribunale di Milano, nella versione disponibile al momento della decisione di primo grado, ai fini della liquidazione equitativa del danno non patrimoniale. Ha inoltre affermato espressamente che l’importo liquidato dal tribunale doveva ritenersi comunque equo, tenuto conto del concorso di colpa, nonchè del grado di parentela e dell’età della vittima e dei familiari danneggiati; ha precisato altresì in proposito che non emergevano dagli atti ulteriori dati fattuali che avrebbero potuto indurre a modificare la suddetta liquidazione.

Si pone, in diritto, la questione della possibilità, per il danneggiato, di impugnare la decisione di primo grado che ha (correttamente) applicato, per liquidare il danno non patrimoniale, i parametri desumibili dalle tabelle elaborate presso il Tribunale di Milano disponibili al momento della decisione, sull’assunto che siano, successivamente, sopravvenute nuove tabelle, recanti parametri più favorevoli, con conseguente richiesta al giudice di appello di una nuova liquidazione in base alle nuove tabelle sopravvenute.

In proposito, si può certamente affermare che i nuovi parametri tabellari sopravvenuti alla decisione di primo grado debbano trovare applicazione, nel giudizio di secondo grado, laddove il giudice di appello debba procedere ad una nuova liquidazione del danno non patrimoniale, a seguito della riforma sul punto della decisione di primo grado, in quanto di per sè viziata per altri motivi.

Se, peraltro, la liquidazione del danno non patrimoniale operata dal giudice di primo grado nel rispetto dei parametri tabellari disponibili al momento della decisione, costituisca corretta applicazione della disposizione di cui all’art. 1226 c.c., non se ne può chiedere la riforma semplicemente per il sopravvenire di una nuova versione, più aggiornata, delle medesime tabelle elaborate dalla prassi.

In particolare, nella giurisprudenza di questa Corte è stato in un primo tempo affermato, in proposito, che, in linea generale, laddove venga prospettata dall’appellante l’erroneità della pronuncia di primo grado per l’omessa applicazione di parametri tabellari ad essa sopravvenuti, correttamente il giudice d’appello può limitarsi a rilevare che la decisione impugnata non può affatto ritenersi erronea, avendo essa fatto corretta applicazione dei parametri in quel momento disponibili quando i successivi non lo erano ancora (Cass., Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 1305 del 25/01/2016, non massimata).

Successivamente, si è ritenuto che, nel particolare caso in cui le nuove tabelle abbiano previsto l’applicazione di differenti criteri di liquidazione o una rideterminazione del valore del “punto-base” in conseguenza di una ulteriore rilevazione statistica dei dati sull’ammontare dei risarcimenti liquidati negli uffici giudiziari (e solo in tal caso), la liquidazione effettuata dal giudice di primo grado sulla base di tabelle non più attuali si risolve in una non corretta applicazione del criterio equitativo previsto dall’art. 1226 c.c. e, quindi, giustifica l’impugnazione (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 25485 del 13/12/2016, Rv. 642330 – 01, in una fattispecie in cui, peraltro, la liquidazione era stata effettuata ex novo dal giudice di secondo grado, ma applicando le tabelle esistenti al momento della decisione di primo grado anzichè quelle disponibili al momento della nuova decisione; conf.: Sez. 3, Ordinanza n. 22265 del 13/09/2018, Rv. 650595 – 01).

Ma si è specificato, con riguardo a tale ipotesi, che nell’atto di impugnazione il danneggiato non potrà limitarsi ad allegare che in base alle “nuove” tabelle ha diritto ad un importo maggiore, dovendo ulteriormente specificare – per assolvere al requisito di ammissibilità prescritto dall’art. 345 c.p.c. – il tipo di pregiudizio che non abbia ricevuto tutela nella liquidazione operata dalla sentenza impugnata ovvero la particolare circostanza assunta dalla nuova tabella, quale indice sintomatico della diversa dimensione del pregiudizio non considerato dal giudice di prime cure, o ancora se le “nuove” tabelle abbiano riconsiderato ex novo il campione statistico, con conseguente rideterminazione del valore-punto e non si siano invece limitate ad un mero aggiornamento dei valori precedenti in base all’indice ISTAT del costo della vita.

Orbene, i ricorrenti esattamente fanno presente che le “Nuove Tabelle 2009” elaborate presso il Tribunale di Milano (di cui chiedono l’applicazione) hanno inteso conformare i nuovi criteri di liquidazione del danno non patrimoniale ai principi enunciati dalle SS.UU. di questa Corte con le sentenze 11 novembre 2008 nn. da 26972 a 26975, in tema di carattere unitario di tale danno, con particolare riguardo all’inclusione in esso del danno morale soggettivo, quale sofferenza e turbamento d’animo determinati dalla lesione alla salute; quindi, ad esse va riconosciuto sotto questo aspetto un carattere radicalmente innovativo.

Nella specie, però – tenuto anche conto che non si discute di danno biologico ma di danno da perdita del rapporto parentale, in relazione al quale l’adeguamento delle nuove tabelle al mutato indirizzo di questa Corte in tema di unitarietà del danno non patrimoniale in caso di lesione alla salute, cioè di danno cd. biologico, non può avere diretto e concreto rilievo – deve rilevarsi che i ricorrenti, nell’illustrare il fondamento delle censure poste a base dei motivi di ricorso in esame (cfr. a pag. 20 e ss. del ricorso), hanno semplicemente fatto presente che in base alle nuove tabelle avrebbero potuto ottenere una liquidazione di importo superiore.

Essi hanno in effetti sostenuto, in diritto (in particolare a pag. 22 e 23), che il giudice avrebbe l’obbligo di utilizzare, per la liquidazione del danno non patrimoniale, i parametri “vigenti” al momento della decisione, onde il mutamento dei suddetti parametri dopo la decisione di primo grado legittimerebbe la proposizione dell’appello, in base alla mera circostanza oggettiva che i nuovi parametri comportino un incremento dell’importo del risarcimento.

Non hanno cioè (al di là di quanto affermato in sede di gravame) posto a fondamento delle censure avanzate in sede di legittimità la specifica circostanza che le nuove tabelle di cui hanno chiesto l’applicazione erano fondate su criteri di liquidazione del danno non patrimoniale differenti rispetto a quelle utilizzate dal giudice di primo grado o che esse avessero riconsiderato ex novo il campione statistico preso a base della rilevazione dei dati per la determinazione dei valori risarcitori individuati come parametri di liquidazione, nè – tanto meno hanno evidenziato uno specifico pregiudizio che avevano allegato in primo grado, di cui la liquidazione effettuata dal tribunale, avendo utilizzato le tabelle disponibili al momento della decisione, non avrebbe tenuto conto e che era stato oggetto di specifico motivo di gravame.

L’effettivo fondamento delle censure avanzate dai ricorrenti in sede di legittimità non sta dunque nell’allegazione di un radicale mutamento del criterio stesso utilizzato per l’individuazione dei parametri tabellari, in sostituzione del precedente, da ritenersi inadeguato – il che potrebbe effettivamente integrare una concreta violazione del criterio equitativo di liquidazione di cui all’art. 1226 c.c. da parte del giudice di primo grado – ma, sostanzialmente, nella mera circostanza della sopravvenienza di nuove tabelle la cui applicazione sarebbe per loro più favorevole e, in particolare, nell’invocazione del principio per cui tale sopravvenienza legittimerebbe di per sè, in diritto, l’impugnazione della sentenza di primo grado, in quanto il giudice di secondo grado avrebbe l’obbligo di valutare la congruità della liquidazione del danno sulla base dei “parametri vigenti” al momento della sua decisione (tanto che a pag. 22 del ricorso si fa in effetti riferimento ai parametri di cui alle tabelle del 2014, ulteriormente sopravvenute rispetto al momento della proposizione del gravame).

Formulata in questi termini, però, per quanto in precedenza osservato, la censura non può ritenersi fondata.

Nel ricorso manca del resto un puntuale e specifico richiamo al contenuto completo della motivazione della sentenza di primo grado, nella parte relativa alla concreta liquidazione del danno da perdita del rapporto parentale (di detta sentenza è trascritto il solo dispositivo, che oltre tutto reca condanna per importi non corrispondenti a quelli indicati nel ricorso – a pag. 12 come somme liquidate dal giudice in base ai parametri tabellari contestati). Ciò comporta anche un difetto di specificità delle censure dei ricorrenti, sotto il profilo in esame, che non ne consente una più compiuta valutazione di merito.

Inoltre la corte di appello, come già sottolineato, ha affermato espressamente che l’importo liquidato dal tribunale, oltre a rappresentare corretta applicazione del criterio di liquidazione equitativo di cui all’art. 1226 c.c. per essere state utilizzate le ultime tabelle disponibili elaborate presso il Tribunale di Milano, doveva ritenersi altresì e comunque equo (evidentemente anche a prescindere da quel rilievo), tenuto conto del concorso di colpa, nonchè del grado di parentela e dell’età della vittima e dei familiari danneggiati (e ha precisato che non emergevano dagli atti ulteriori circostanze di fatto valutabili a tal fine).

La corte territoriale ha cioè fornito una ulteriore, distinta, autonoma e specifica giustificazione a sostegno della correttezza della liquidazione dell’importo in questione (benchè inferiore al minimo previsto nella nuova versione delle tabelle “milanesi”), ritenendola conforme al criterio equitativo di cui all’art. 1226 c.c. anche sulla base della considerazione di tutte le circostanze del caso concreto emergenti dagli atti, con una motivazione che, non potendo ritenersi apparente, nè insanabilmente contraddittoria sul piano logico, non è censurabile nella presente sede e, comunque, non è stata in concreto oggetto di una specifica censura (sulla possibilità di una liquidazione del danno che vada al di là dei limiti minimi e massimi previsti dai parametri “tabellari”, purchè sulla base di adeguata motivazione: Cass., Sez. 3, Sentenza n. 3505 del 23/02/2016, Rv. 638919 – 01; Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 14746 del 29/05/2019, Rv. 654307 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 9950 del 20/04/2017, Rv. 643854 – 01).

In base a quanto sin qui osservato, i motivi di ricorso in esame possono dunque essere disattesi, senza necessità di rimettere la decisione del ricorso alle Sezioni Unite di questa Corte, come richiesto dai ricorrenti.

3. Con il terzo motivo del ricorso si denunzia “Violazione e/o falsa applicazione delle norme ex art. 112 c.p.c., art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, artt. 342 e 345 c.p.c., art. 118 disp. att. c.p.c. e art. 111 Cost.; mancato esame delle domande e delle conclusioni formulate ed, in particolare, mancato esame della domanda di liquidazione della rivalutazione delle somme dovute; omessa pronuncia; nullità della sentenza o del procedimento (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4)”.

Con il quarto motivo del ricorso si denunzia “Violazione e/o falsa applicazione delle norme ex artt. 1223,1226,2043,2056,2058,2059 c.c. e 111 Cost.; mancata liquidazione della rivalutazione delle somme dovute (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)”.

Il terzo ed il quarto motivo del ricorso pongono in sostanza la medesima questione di diritto e possono essere quindi esaminati congiuntamente.

Secondo i ricorrenti sarebbe stato omesso l’esame dello specifico motivo di gravame con il quale essi avevano chiesto al giudice di secondo grado di riconoscere la rivalutazione monetaria sulle somme liquidate a titolo di risarcimento dalla data della decisione di primo grado (ovvero dalla data del fatto, per quelle eventualmente liquidate ex novo), e/o comunque tale motivo erroneamente non sarebbe stato accolto.

Il terzo motivo di ricorso, nella parte in cui con esso si denuncia l’omessa pronuncia, è fondato.

I ricorrenti hanno dato conto dell’effettiva proposizione del motivo di gravame sopra sintetizzato (trascrivendone nel ricorso il contenuto) e la sentenza impugnata non contiene alcuna statuizione sul punto, onde essa va cassata.

Non essendo necessari accertamenti di fatto, peraltro, è possibile in proposito decidere nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, (il che comporta altresì l’assorbimento del quarto motivo).

La pretesa dei ricorrenti è infondata in diritto.

Nelle obbligazioni risarcitorie, aventi natura di debito di valore, la somma spettante deve essere annualmente rivalutata dal momento dell’illecito sino al momento della liquidazione giudiziale, salvo che non venga liquidata in moneta attuale; al creditore spetta inoltre il risarcimento del danno derivante dal ritardo nel pagamento della somma predetta, consistente nel mancato godimento delle utilità che da essa avrebbe conseguito, il quale può essere liquidato attraverso la corresponsione degli interessi compensativi ad un saggio equitativamente individuato dal giudice ed eventualmente coincidente con quello legale (cfr. Cass. Sez. U, Sentenza n. 1712 del 17/02/1995, Rv. 490480 – 01; successivamente, tra le moltissime conformi, cfr., in particolare: Sez. 3, Sentenza n. 18490 del 25/08/2006, Rv. 593583 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 4791 del 01/03/2007, Rv. 596659 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 16637 del 19/06/2008, Rv. 603828 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 16894 del 20/07/2010, Rv. 614105 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 15709 del 18/07/2011, Rv. 619503 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 21396 del 10/10/2014, Rv. 632983 – 01; Sez. 1, Sentenza n. 18243 del 17/09/2015, Rv. 636751 – 01). Dal momento della liquidazione giudiziale (momento in cui, con la pubblicazione della sentenza, l’obbligazione si converte in debito di valuta) non è poi più dovuta la rivalutazione monetaria, ma trova applicazione l’art. 1224 c.c., comma 1, sicchè sulla somma ormai definitivamente liquidata, non più soggetta a rivalutazione, spettano esclusivamente gli interessi moratori (di norma al tasso legale) sino al momento dell’effettivo pagamento (così, di recente: Cass., Sez. 3, Sentenza n. 31236 del 04/12/2018, non massimata).

Quanto osservato è sufficiente a dar conto della radicale infondatezza in diritto della pretesa oggetto del motivo di gravame dei danneggiati su cui la corte di appello ha omesso la dovuta pronuncia (cioè la pretesa della ulteriore rivalutazione della somma liquidata a titolo risarcitorio in primo grado, anche per il periodo successivo alla data della pronuncia che ha operato la predetta liquidazione, non ponendosi invece alcuna concreta questione in relazione alle somme eventualmente liquidate ex novo, non essendovi stata alcuna nuova liquidazione in secondo grado).

Il motivo di gravame può, di conseguenza, essere rigettato, pronunciando nel merito ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2.

Anche per completezza espositiva va comunque sottolineato che, sulla base di quanto esposto nel ricorso, non è in realtà possibile evincere esattamente il criterio di liquidazione del complessivo danno utilizzato in concreto dal giudice di primo grado, essendo trascritto il solo dispositivo della relativa decisione, nel quale è prevista la condanna al pagamento degli importi riconosciuti a titolo risarcitorio (che peraltro gli stessi ricorrenti affermano essere stati liquidati “all’attualità”), oltre gli “interessi calcolati come in motivazione”, ma senza ulteriori specificazioni.

4. Con il quinto motivo del ricorso si denunzia “Violazione e/o falsa applicazione delle norme ex artt. 1223 c.c.; mancata liquidazione del danno patrimoniale per la perdita dei contributi erogati dalla vittima primaria ed erronea applicazione del principio compensatio lucri cum damno (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)”.

Il motivo è infondato.

La sentenza impugnata è del tutto conforme ai principi affermati da questa Corte in tema di surrogazione dell’INAIL e, comunque, a quelli di recente ribaditi ed enunciati, anche a Sezioni Unite, in tema di cd. compensatio lucri cum damno.

In base a tali principi, era stato già da tempo affermato che “le somme liquidate dall’INAIL in favore del danneggiato da sinistro stradale a titolo di rendita capitalizzata L. 24 dicembre 1969, n. 990, ex art. 28 vanno detratte, in base al principio indennitario, dall’importo del risarcimento dovuto, allo stesso titolo, al danneggiato da parte del responsabile onde evitare una duplicazione di risarcimento sia in favore del danneggiato, che a carico dell’assicuratore o del responsabile, atteso che, eseguita la prestazione in favore del danneggiato da parte dell’INAIL ed esercitato dall’assicuratore il diritto di surroga con la comunicazione al terzo responsabile della volontà di surrogarsi nei diritti del danneggiato, quest’ultimo perde la titolarità del credito per la quota corrispondente all’indennizzo assicurativo corrispostogli ed in tale credito succede l’ente surrogatosi” (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 25733 del 05/12/2014, Rv. 633738 – 01).

Le Sezioni Unite di questa Corte hanno poi di recente espressamente chiarito, in generale, che “nell’assicurazione contro i danni, il danno da fatto illecito deve essere liquidato sottraendo dall’ammontare del danno risarcibile l’importo dell’indennità che il danneggiato-assicurato abbia riscosso in conseguenza di quel fatto, in quanto detta indennità è erogata in funzione di risarcimento del pregiudizio subito dall’assicurato in conseguenza del verificarsi dell’evento dannoso ed essa soddisfa, neutralizzandola in tutto o in parte, la medesima perdita al cui integrale ristoro mira la disciplina della responsabilità risarcitoria del terzo autore del fatto illecito” (Cass., Sez. U, Sentenza n. 12565 del 22/05/2018, e Rv. 648648 – 01) e, in particolare, hanno ribadito che “l’importo della rendita per l’inabilità permanente, corrisposta dall’INAIL per l’infortunio “in itinere” occorso al lavoratore, va detratto dall’ammontare del risarcimento dovuto, allo stesso titolo, al danneggiato da parte del terzo responsabile del fatto illecito, in quanto essa soddisfa, neutralizzandola in parte, la medesima perdita al cui integrale ristoro mira la disciplina della responsabilità risarcitoria del terzo al quale sia addebitabile l’infortunio, salvo il diritto del lavoratore di agire nei confronti del danneggiante per ottenere l’eventuale differenza tra il danno subito e quello indennizzato” (Cass., Sez. U, Sentenza n. 12566 del 22/05/2018, Rv. 648649 – 01; nel medesimo senso, successivamente, e con riguardo a varie analoghe fattispecie, cfr.: Sez. L, Ordinanza n. 6269 del 04/03/2019, Rv. 653182 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 14362 del 27/05/2019, Rv. 654202 – 01; Sez. 3, Ordinanza n. 16580 del 20/06/2019, Rv. 654558 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 18050 del 05/07/2019, Rv. 654357 – 01).

Nella specie, dunque – contrariamente a quanto sostenuto dai ricorrenti con il motivo di ricorso in esame – l’applicazione, da parte della corte di appello, del principio della cd. compensatio lucri cum damno, e comunque la considerazione della rendita vitalizia erogata dall’INAIL in detrazione rispetto agli importi spettanti ai ricorrenti stessi a titolo di risarcimento del danno patrimoniale da lucro cessante per la perdita dei contributi loro erogati dalla vittima primaria, risulta del tutto conforme ai principi di diritto da applicare.

5. Con il sesto motivo del ricorso si denunzia “Violazione e/o falsa applicazione delle norme ex artt. 112,324 e 329 c.p.c.; violazione del giudicato interno formatosi sul’importo erogato dall’INAIL agli eredi della vittima primaria per prestazioni assistenziali mediante costituzione in loro favore di una rendita vitalizia; violazione del principio di divieto di reformatio in peius; nullità della sentenza o del procedimento (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4)”.

La censura è inammissibile.

Secondo i ricorrenti, nel decidere sul loro quarto motivo di appello, attinente al danno patrimoniale da lucro cessante per la perdita dei contributi che la vittima primaria avrebbe loro erogato in vita, la corte di appello avrebbe violato il giudicato interno sull’importo della rendita vitalizia pagata dall’INAIL.

La censura non è esposta in modo chiaro, specifico e sufficientemente comprensibile.

Dalla sentenza impugnata emerge che la corte di appello ha calcolato l’importo dei redditi futuri che avrebbe percepito la vittima primaria in virtù della sua attività lavorativa e li ha attualizzati; ha altresì attualizzato l’importo della rendita vitalizia erogata ai familiari dall’INAIL; ha verificato che quest’ultima somma era superiore alla prima ed ha ritenuto quindi che nulla spettasse a tale titolo agli attori.

I ricorrenti sostengono, che l’importo esatto della rendita erogata dall’INAIL era stato accertato dal tribunale e, in mancanza di appello sul punto, in relazione a tale importo si era formato il giudicato interno; dunque la corte di appello avrebbe violato tale giudicato interno, prendendo in considerazione un diverso, maggiore, importo.

Non sono però specificamente richiamati, nel ricorso: a) il preciso oggetto della domanda, relativamente al lucro cessante, che era stata proposta in primo grado; b) il complessivo contenuto della decisione di primo grado in ordine a tale domanda di risarcimento del lucro cessante e, in particolare, in relazione all’importo della rendita erogata dall’INAIL; c) il contenuto preciso dell’appello, in relazione alla questione del danno patrimoniale da lucro cessante. I ricorrenti precisano di aver allegato al ricorso la sentenza di primo grado ma non ne richiamano lo specifico contenuto rilevante ai fini della valutazione delle censure di cui al motivo di ricorso in esame; il contenuto dell’atto di appello trascritto nel ricorso, poi, riguarda il criterio di capitalizzazione dei redditi perduti e di detrazione della cd. quota sibi, più che l’importo erogato dall’INAIL.

D’altra parte, sono gli stessi ricorrenti (nell’esposizione relativa al motivo di ricorso precedente) che affermano di avere ricevuto a titolo di rendita dall’INAIL l’importo di Euro 297.399,70 (cioè un importo addirittura maggiore di quello preso in considerazione dalla corte di appello).

In definitiva, le censure avanzate con il motivo di ricorso in esame non sono esposte in modo sufficientemente chiaro e specifico e non sono sostenute dal puntuale richiamo al contenuto di tutti gli atti di causa rilevanti ai fini della loro comprensione e valutazione, in violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, onde la Corte non è posta in grado di verificare, sulla base di quanto indicato nel ricorso, se effettivamente sussista la dedotta violazione del giudicato interno.

6. Con il settimo motivo del ricorso si denunzia “Violazione e/o falsa applicazione delle norme ex artt. 1223,1226,2056 c.c. e dei coefficienti di capitalizzazione di cui al R.D. 9 ottobre 1922, n. 1403; erronea capitalizzazione del reddito perduto mediante i coefficienti di capitalizzazione di cui al R.D. 9 ottobre 1922, n. 1403 (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)”.

La censura è per un verso infondata, per altro verso inammissibile.

I ricorrenti contestano il coefficiente di capitalizzazione utilizzato dalla corte di appello in relazione ai redditi futuri perduti della vittima.

Sostengono che la corte territoriale non avrebbe potuto applicare a tal fine il criterio di cui al R.D. n. 1403 del 1922, neanche operando correzioni in relazione all’età di sopravvivenza media (cd. speranza di vita) e ai tassi di interesse, e che la valutazione avrebbe dovuto essere effettuata in via puramente equitativa.

L’applicazione del criterio di capitalizzazione di cui al R.D. n. 1403 del 1922 è stata operata dai giudici del merito con i correttivi per durata media della vita e per tasso di interesse ritenuti adeguati, come la giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto ben possibile (cfr. Cass., Sez. 3, Sentenza n. 15738 del 02/07/2010, Rv. 614010 – 01: “in tema di liquidazione dei danni patrimoniali da invalidità permanente in favore del soggetto leso o da morte in favore dei superstiti, ove il giudice di merito utilizzi il criterio della capitalizzazione del danno patrimoniale futuro, adottando i coefficienti di capitalizzazione della rendita fissati nelle tabelle di cui al R.D. 9 ottobre 1922, n. 1403, egli deve adeguare detto risultato ai mutati valori reali dei due fattori posti a base delle tabelle adottate, e cioè deve tenere conto dell’aumento della vita media e della diminuzione del tasso di interesse legale e, onde evitare una divergenza tra il risultato del calcolo tabellare ed una corretta e realistica capitalizzazione della rendita, prima ancora di “personalizzare” il criterio adottato al caso concreto, deve “attualizzare” lo stesso, o aggiornando il coefficiente di capitalizzazione tabellare o non riducendo più il coefficiente a causa dello scarto tra vita fisica e vita lavorativa”; conf.: Sez. 3, Sentenza n. 4186 del 02/03/2004, Rv. 570705 – 01; per la necessità di correzione dei coefficienti di capitalizzazione previsti dal R.D. n. 1403 del 1922, cfr. anche: Sez. 3, Sentenza n. 20615 del 14/10/2015, Rv. 637457 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 10499 del 28/04/2017, Rv. 644007 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 16913 del 25/06/2019, Rv. 654432 – 02).

Per quanto poi riguarda l’individuazione dei concreti parametri di adeguamento dell’aspettativa di vita e dei tassi di interesse, a correzione di quelli previsti dal R.D. n. 1403 del 1922, si tratta di una valutazione di fatto, in applicazione di un criterio equitativo, incensurabile nella presente sede, in quanto sostenuta da adeguata motivazione (non apparente nè insanabilmente contraddittoria sul piano logico).

D’altra parte, i ricorrenti non hanno specificamente allegato che l’utilizzazione di criteri da essi ritenuti più adeguati avrebbe determinato in concreto un importo attualizzato certamente superiore a quello della rendita vitalizia INAIL attualizzata, in relazione alla quale è stata ritenuta operante la compensatio lucri cum damno, al fine di connotare l’interesse alla censura la quale, per come risulta articolata, presenta quindi anche un inammissibile carattere esplorativo.

7. Con l’ottavo motivo del ricorso si denunzia “Violazione e/o falsa applicazione delle norme ex art. 112 c.p.c., ex art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, ex art. 342 c.p.c., art. 118 disp. att. c.p.c. e art. 111 Cost.; mancato esame delle domande e delle conclusioni formulate ed, in particolare, mancato esame della domanda di liquidazione del danno patrimoniale da lucro cessante per i futuri risparmi che la vittima primaria avrebbe trattenuto dalla c. detta quota sibi, risparmi che sarebbero certamente entrati a far parte dell’asse ereditario e spettanti agli eredi (moglie e figli); omessa pronuncia; nullità della sentenza o del procedimento (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4)”.

Con il nono motivo del ricorso si denunzia “Violazione e/o falsa applicazione delle norme ex artt. 1223,1226,2056,2727 e 2729 c.c.; mancata liquidazione del danno patrimoniale da lucro cessante per i futuri risparmi che la vittima primaria avrebbe trattenuto dalla c. detta quota sibi, risparmi che sarebbero certamente entrati a far parte dell’asse ereditario e spettanti agli eredi (moglie e figli) (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)”.

L’ottavo e il nono motivo del ricorso hanno il medesimo oggetto e possono quindi essere esaminati congiuntamente.

Essi sono infondati.

I ricorrenti deducono che i giudici di merito non avrebbero tenuto conto, nel liquidare il danno patrimoniale, dei risparmi che la vittima avrebbe effettuato sulla cd. quota sibi dei propri redditi futuri, risparmi che poi sarebbero entrati a far parte dell’asse ereditario: sul punto vi sarebbe omissione di pronuncia e/o comunque l’eventuale decisione negativa della corte di appello in ordine alla loro pretesa sarebbe erronea.

Da un complessivo esame del contenuto della decisione impugnata emerge, in realtà, che la corte di appello ha, quanto meno implicitamente, pronunciato sul motivo di gravame relativo alla questione dei pretesi risparmi che la vittima primaria avrebbe effettuato sulla cd. quota sibi del proprio reddito.

I giudici di merito hanno infatti accertato, in fatto, e chiaramente affermato, che la cd. quota sibi sarebbe stata utilizzata integralmente dal de cuius per soddisfare propri bisogni “egoistici”, in tal modo facendo un implicito ma chiaro riferimento al presumibile diretto impiego, in concreto, di tale somma e pertanto escludendo che una parte di essa sarebbe stata accantonata sotto forma di risparmio da lasciare in eredità ai familiari.

Di conseguenza, va esclusa la dedotta omissione di pronuncia, mentre le ulteriori censure, sebbene articolate in termini di violazione di legge, in realtà si risolvono nella contestazione di un accertamento di fatto sostenuto da adeguata motivazione, non apparente nè insanabilmente contraddittoria sul piano logico, come tale non censurabile nella presente sede.

8. Con il decimo motivo del ricorso si denunzia “Violazione e/o falsa applicazione delle norme ex artt. 1174,1175,1176,1218,1375 c.c., art. 1460 c.c., u.c., artt. 1917 e 2900 c.c., artt. 2,24 e 111 Cost., L. n. 990 del 1969, art. 18 e succ. mod.; erroneo rigetto della domanda di mala gestio in senso stretto o proprio dell’impresa di assicurazione e sua mancata condanna al risarcimento in favore degli attuali ricorrenti dei danni tutti subiti senza alcun limite (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)”.

Con l’undicesimo motivo del ricorso si denunzia “Violazione e/o falsa applicazione delle norme ex artt. 1218,1219,1224,1282 c.c. e L. n. 990 del 1969, art. 22 e succ. mod.; erroneo accoglimento del motivo di appello incidentale, erroneo rigetto della domanda di mala gestio in senso improprio o di ritardo dell’adempimento e sua mancata condanna al risarcimento in favore degli attuali ricorrenti dei danni subiti oltre il limite del massimale per interessi moratori e maggior danno da svalutazione monetaria (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)”.

Gli ultimi due motivi del ricorso – attinenti alla cd. mala gestio della compagnia assicuratrice convenuta, propria ed impropria – sono connessi e possono quindi essere esaminati congiuntamente.

Secondo i ricorrenti, la corte di appello avrebbe erroneamente escluso sia la mala gestio cd. propria che quella cd. impropria della compagnia assicuratrice, così ingiustamente limitando la sua condanna al massimale di polizza.

I motivi in esame sono infondati.

Secondo quanto emerge dalla sentenza impugnata, il tribunale aveva accolto la domanda di cd. mala gestio impropria, condannando la compagnia al pagamento di interessi e rivalutazione eccedenti il massimale.

La corte di appello ha invece affermato che il ritardo nel pagamento da parte della compagnia non poteva ritenersi colposo.

Ha ritenuto infatti che le vicende del processo penale (definito solo nel novembre 1998), l’incertezza sulla effettiva responsabilità dell’assicurato Av. e sull’entità del concorso di colpa della vittima Re., nonchè il numero dei danneggiati (molti dei quali tra l’altro costituitisi nel giudizio civile solo nel maggio 1999) e la tardiva corresponsione agli stessi della rendita INAIL (avvenuta nel febbraio 1999), avevano determinato una oggettiva incertezza sugli importi da corrispondere a questi ultimi. La stessa proposta transattiva da essi formulata nel settembre del 1990 non avrebbe potuto essere positivamente valutata dalla compagnia, a quella data (nè essa avrebbe potuto essere accolta successivamente, dato che i proponenti ne avevano espressamente limitato la validità a 60 giorni).

Di conseguenza, non potendo dirsi colposamente tardiva l’offerta del residuo massimale agli aventi diritto, avvenuta nel maggio 1999, ha escluso la sussistenza di entrambe le ipotesi di cd. mala gestio, sia propria che impropria (sulla distinzione tra le due forme di responsabilità, cfr.: Cass., Sez. 3, Sentenza n. 15397 del 28/06/2010, Rv. 613930 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 3014 del 17/02/2016, Rv. 639076 – 01: “l’inadempimento dell’assicuratore della r.c.a. alle proprie obbligazioni si riconduce a due differenti forme di responsabilità: la prima è quella da colpevole ritardo nei confronti del danneggiato, o c.d. “mala gestio” impropria, fondata sulla sua costituzione in mora L. n. 990 del 1969, ex art. 22 – ora ai sensi del D.Lgs. n. 209 del 2005, art. 145 – non seguita dal dovuto pagamento, per la quale risponde a titolo di rivalutazione ed interessi anche oltre il limite del massimale, senza necessità che il danneggiato formuli specifica domanda, essendo sufficiente la richiesta di integrale risarcimento dei danni; la seconda è quella per c. d. “mala gestio” propria, nei confronti dell’assicurato, per condotte contrarie agli obblighi di buona fede e correttezza nell’esecuzione del contratto, che espone l’assicurazione anche oltre il massimale, purchè l’assicurato-danneggiante proponga specifica domanda”).

Orbene, si osserva in primo luogo che entrambi i motivi di ricorso in esame sembrano fondati su un presupposto di fatto che non trova riscontro negli atti.

I ricorrenti affermano di avere proposto alla compagnia, nel settembre 1990, la transazione della controversia per un importo complessivo di Lire 200.000.000, importo che deducono essere nettamente inferiore al massimale di polizza (pari a Lire 200.000.000 per danneggiato, con un massimo di Lire 500.000.000 per sinistro, secondo quanto accertato dai giudici di merito) e sostengono che sarebbe evidente la condotta colposa della compagnia, per non avere accettato una proposta palesemente favorevole.

In realtà la corte di appello ha accertato che la proposta transattiva formulata dai ricorrenti prevedeva il pagamento dell’importo di Lire 200.000.000 per ciascun danneggiato, come conferma del resto il diretto esame del testo della stessa (riprodotto integralmente nel ricorso). L’interpretazione data dai giudici di merito a tale proposta, trattandosi di un accertamento di fatto relativo alla volontà negoziale, non è in ogni caso censurabile nella presente sede e non risulta in verità neanche oggetto di una specifica e motivata censura.

Nei termini indicati, peraltro, la proposta transattiva in questione risulta di importo notevolmente superiore al massimale di polizza (considerando il numero dei danneggiati, sarebbe quasi pari al triplo di esso). Anzi, essa sembrerebbe addirittura di importo superiore a quello cui avevano effettivamente diritto i familiari della vittima, secondo quanto accertato all’esito del giudizio.

Dunque, non ha pregio l’argomento dei ricorrenti fondato sull’affermazione della sussistenza di un colposo inadempimento della compagnia ai propri obblighi, per avere rifiutato una conveniente proposta transattiva.

Con riguardo agli ulteriori argomenti addotti a sostegno della medesima tesi, è sufficiente rilevare che la corte territoriale (come già precisato) ha accertato che la tardiva offerta di pagamento del residuo massimale, intervenuta solo nel maggio 1999, era giustificata dalla particolare situazione di fatto che si era verificata, indicando specificamente tutte le ragioni per cui non sarebbe stata ragionevolmente esigibile una offerta anteriore a tale data ed escludendo pertanto un colposo inadempimento della compagnia.

Si tratta di un accertamento di fatto sostenuto da adeguata motivazione, non apparente nè insanabilmente contraddittoria sul piano logico, come tale non censurabile nella presente sede.

A tale accertamento di fatto, sul piano del diritto consegue poi l’esclusione non solo dei presupposti della cd. mala gestio propria della compagnia (oggetto di azione spettante all’assicurato e nella specie esercitata in via surrogatoria dai danneggiati, e ciò anche a prescindere, quindi, dalle eccezioni sollevate dalla compagnia stessa in ordine all’ammissibilità di detta azione surrogatoria), ma anche della sua cd. mala gestio impropria.

Anche quest’ultima forma di responsabilità richiede, infatti, secondo i principi di recente ribaditi da questa Corte, “un omesso pagamento nonostante la responsabilità dell’assicurato e l’ammontare del danno fossero determinabili dall’assicuratore alla stregua dell’ordinaria diligenza e del principio di buona fede” (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 25091 del 24/10/2017, Rv. 646023 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 11908 del 13/05/2008, Rv. 603245 – 01).

Non può del resto dubitarsi che la individuazione del momento in cui è possibile per la compagnia assicuratrice avere ragionevole contezza della responsabilità dell’assicurato e valutare in concreto l’ammontare del danno, secondo l’ordinaria diligenza e buona fede, in relazione alle circostanze del caso concreto, costituisca un accertamento di fatto riservato al giudice del merito.

9. E’ accolto il terzo motivo del ricorso, che è per il resto rigettato. La sentenza impugnata è cassata in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, è rigettato il relativo motivo di gravame avanzato dagli attori.

Le spese del giudizio di secondo grado e del giudizio di legittimità possono essere integralmente compensate tra tutte le parti (ferme quelle liquidate per il giudizio di primo grado), sussistendo motivi sufficienti a tal fine, oltre che in ragione del parziale accoglimento del ricorso, per l’oggettiva incertezza sussistente in ordine ad alcune delle questioni giuridiche affrontate (in particolare, con riguardo ai primi due e al quinto motivo del ricorso).

P.Q.M.

La Corte:

accoglie il terzo motivo del ricorso, rigettati tutti gli altri e, decidendo nel merito con riguardo al motivo accolto, rigetta il relativo motivo di gravame degli attori;

dichiara integralmente compensate le spese del giudizio di appello e di legittimità fra le parti.

Così deciso in Roma, il 30 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 15 novembre 2019

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