Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29716 del 15/11/2019

Cassazione civile sez. III, 15/11/2019, (ud. 27/09/2019, dep. 15/11/2019), n.29716

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – rel. Consigliere –

Dott. CIGNA Mario – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 18568-2018 proposto da:

B.P.L., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DURAZZO 9,

presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE SCAPATO, che lo rappresenta

e difende unitamente all’avvocato CRISTIANO PALUMBO;

– ricorrente –

contro

BE.ID., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ANTONIO GRAMSCI

22, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO PICONE, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato VITTORIO FERRERI;

– controricorrente-

e contro

COLOHO LIMITED;

– intimata –

avverso la sentenza n. 2665/2017 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 14/12/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

27/09/2019 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVIERI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte d’appello di Torino, con sentenza 14.12.2017 n. 2665, ha rigettato l’appello proposto da B.P. ed ha confermato la decisione di prime cure che aveva dichiarato inefficace nei confronti di Be.Id. il “contratto di emissione di azioni e conferimento di proprietà – stipulato, in data 31.8.2006, dal primo con la società britannica Coloho Limited, e con il quale era stato trasferito alla società l’intero patrimonio del socio, in pregiudizio dei crediti vantati verso quest’ultimo dalla sorella Be.Id. in virtù di successione ereditaria.

La Corte territoriale, ritenuto ritualmente perfezionata la notifica dell’atto di citazione in primo grado nei confronti della società britannica e correttamente dichiarata la contumacia di quest’ultima dal Tribunale, ha escluso il litisconsorzio necessario con Z.M. – coniuge del B. – che aveva partecipato al contratto plurilaterale in qualità di autonoma conferente di propri beni, stante il regime di separazione legale dei beni tra coniugi, ed ha, quindi, ravvisato il presupposto oggettivo dell'”eventus damni” nel conferimento in società dell’intero patrimonio del B. e nella insussistenza di prove circa la residua garanzia generica ex art. 2740 c.c. del debitore atta ad assicurare la soddisfazione del notevole credito vantato da Be.Id. per l’importo di 379.604,71.

Il Giudice di merito ha inoltre ravvisato il presupposto soggettivo dell’intento frodatorio del debitore e della scientia damni della società di diritto inglese, nella coincidenza del domicilio fiscale della società con la residenza dei coniugi e nella qualità di amministratore della società britannica rivestita dal coniuge del B., ritenendo non necessario l’esperimento delle prove richieste dal debitore e non ammesse in primo grado.

La sentenza di appello, non notificata, è stata impugnata da B.P.L. con ricorso per cassazione affidato a sei motivi.

Resiste con controricorso Be.Id..

Le parti hanno depositato memorie illustrative ex art. 380 bis.1 c.p.c.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Primo motivo: violazione e falsa applicazione dell’art. 2 ss. del reg. CE 1393/2007 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4 – nullità della notificazione della citazione in primo grado.

Sostiene il ricorrente che la società britannica ha sede legale in (OMISSIS) e che la notifica dell’atto di citazione in primo grado, eseguita dalla attrice, non consentiva di accertare il perfezionamento della notifica, in quanto il modulo standard previsto dall’art. 10 del regolamento comunitario era privo di sottoscrizione e non permetteva di individuare l’Ufficio e la persona fisica che avevano eseguito la notifica. La invalidità della notifica dell’atto introduttivo determinava, pertanto, la nullità dell’intero giudizio per violazione del contraddittorio nei confronti di un litisconsorte necessario.

Il motivo è infondato.

La Corte territoriale ha effettuato la verifica del perfezionamento della notifica alla stregua delle risultanze del “modulo” di cui all’Allegato I del regolamento comunitario n. 1393/2007: l’art. 10 del regolamento, prescrive -infatti- che, espletate le formalità della notifica, “l’organo ricevente” inoltra all’organo mittente “un certificato del loro espletamento, redatto utilizzando il modulo standard di cui all’allegato 1” (paragrafo 1).

Correttamente il Giudice di appello ha, dunque, attribuito valore normativo agli elementi informativi riportati nel predetto “modulo standard”, ai fini della verifica della conformità della “ricevuta di notificazione” – trasmessa dall’autorità competente britannica – al paradigma della norma Eurounitaria, individuando in tali elementi i requisiti formali necessari idonei ad attribuire al documento efficacia probatoria accertativa di quanto in esso attestato.

Orbene il modulo standard relativo al “certificato di avvenuta o mancata notificazione / comunicazione” prevede la compilazione del quadro relativo ai dati concernenti “espletamento della notificazione o comunicazione” (se eseguita con risultato positivo), ovvero dei quadri “informazione a norma dell’art. 7, par. 2 del reg. CE n. 1393/2007” (se non è stato possibile eseguire la notifica) o ancora del quadro “rifiuto dell’atto” (ipotesi disciplinata dall’art. 8 del regolamento, nel caso in cui l’atto giudiziario allegato alla notifica non sia stato redatto in una lingua comprensibile al destinatario o nella lingua dello Stato membro richiesto), o “motivo della mancata notificazione o comunicazione dell’atto”. La provenienza del modulo standard dall'”organo ricevente” è attestata dalle indicazioni in calce, relative al luogo, alla data di compilazione del modulo ed alla “Firma e/o timbro” (Signature and/or stamp), rispettivamente, del funzionario “e/o” dell’Ufficio dell’organo ricevente che ha proceduto alla notifica/comunicazione.

La Corte d’appello ha, pertanto, ritenuto idonea e sufficiente, ad attestare la effettiva provenienza dell’atto di notificazione, l’apposizione del “timbro” dell’Ufficio dell’organo ricevente (Senior Court of England of Wales), in quanto prevista in “alternativa” alla sottoscrizione autografa per esteso, rilevando ad abundantiam che accanto al timbro risultava apposta anche una “sigla” illeggibile (vale osservare, al riguardo, che anche il modulo standard relativo all’atto di appello notificato alla società dall’attuale ricorrente – riprodotto a pag. 12 ricorso – e da questi addotto ad esempio di regolare notifica, reca, oltre al “timbro” dell’Ufficio, una mera “sigla” illeggibile).

La verifica di corrispondenza del modulo standard al paradigma prescrittivo dei requisiti formali di validità e completezza dell’atto notificatorio consente di ritenere assolto il compito demandato al Giudice di merito di accertare la regolarità formale e la validità del procedimento notificatorio: ogni altra contestazione, relativa a tale atto, in ordine alla mancata corrispondenza tra i fatti realmente accaduti e le attività effettivamente svolte, da un lato, ed i fatti e le attività dichiarati nel documento, dall’altro, od in ordine alla effettiva provenienza dell’atto dall’autorità in esso indicata, onera della relativa allegazione e prova la parte che intende impugnare l’atto notificatorio.

Nella specie il “modulo standard” di cui all’Allegato I del regolamento CEE n. 1393/2007 è stato compilato dall’organo ricevente, individuato dal timbro dell’Ufficio apposto in calce, attestando che l’atto giudiziario era stato notificato alla società in data 25.1.2011, e dunque non ricorrendo, nella specie, nè l’ipotesi di “rifiuto”, nè quella di “impossibile o mancata consegna”. Tanto è sufficiente a ritenere perfezionata la notifica dell’atto di citazione alla società convenuta – non comparsa in giudizio – ai sensi dell’art. 19, par. 1, del regolamento CE n. 1393/2007, dovendo ritenersi priva di effetti invalidanti la mancanza di sottoscrizione autografa per esteso del modulo standard da parte del funzionario compilatore.

Secondo motivo: violazione e falsa applicazione degli artt. 101 e 102 c.p.c. – nullità della sentenza e del procedimento per difetto del contraddittorio necessario – art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4.

Il ricorrente riproduce lo stesso motivo formulato con l’atto di appello sostenendo che il contratto la cui efficacia era stata revocata doveva ritenersi negozio plurilaterale inscindibile, e quindi l’azione ex art. 2901 c.c. avrebbe dovuto essere proposta anche nei confronti di Z.M. che aveva partecipato all’atto.

Il ricorrente desume la inscindibilità del negozio stipulato con la società britannica dalla natura immobiliare dei beni conferiti in comproprietà indivisa tra i coniugi e dalla corrispondenza del valore complessivo delle azioni emesse (avuto riguardo al valore unitario della singola azione) con il valore dell’intero complesso immobiliare trasferito: secondo il ricorrente poichè la dichiarazione di inefficacia del contratto di conferimento degli immobili verrebbe a riflettersi anche sul valore delle azioni attribuite alla Z., quest’ultima doveva ritenersi litisconsorte necessaria.

Premesso che la questione del litisconsorzio necessario deve essere esaminata con riferimento alla sola azione revocatoria ordinaria (essendo passata in giudicato, in difetto di impugnazione incidentale la statuizione di rigetto dell’azione di simulazione assoluta), ed incontestato il regime di separazione legale dei beni vigente tra coniugi all’atto della stipula del contratto, il motivo è privo di fondamento.

La dichiarazione di inefficacia ex art. 2901 c.c. (pro quota) della cessione di un bene immobile in comproprietà indivisa (comunione ordinaria) conferito nel capitale sociale, non determina alcuna incidenza sul controvalore di tutte le nuove azioni emesse dalla società in seguito all’aumento di capitale sociale, in quanto:

a) il conferimento, avendo ad oggetto un bene in natura, si attua attraverso il trasferimento della proprietà (art. 2254 c.c., comma 1 e art. 2342 c.c., comma 3) che nella specie vede i comproprietari quali parti alienanti, della proprietà indivisa, ciascuno per la rispettiva quota ed entrambi per l’intero;

b) ciascuna parte alienante riceverà in cambio un numero di azioni rappresentative di una frazione di partecipazione al capitale sociale corrispondente al valore del bene conferito: le azioni che spettano, quindi, a ciascun singolo conferente corrispondono alla rispettiva quota di proprietà trasferita alla società;

c) il vittorioso esperimento di un’azione revocatoria ordinaria non è idoneo a determinare alcun effetto restitutorio nel patrimonio del disponente (i coniugi), nè, tantomeno, alcun effetto direttamente traslativo in favore del creditore, comportando soltanto la declaratoria di inefficacia (relativa) dell’atto rispetto al creditore che agisce in giudizio, e rendendo, conseguentemente, il bene trasferito al terzo (società) assoggettabile ad azioni esecutive, senza in alcun modo caducare, ad ogni altro effetto, l’avvenuta alienazione in capo all’acquirente (società britannica Coloho Ltd)

d) eventuali operazioni societarie che si dovessero rendere opportune o necessarie successivamente alla espropriazione forzata del bene (modifiche inerenti al capitale sociale), afferiscono a scelte di natura economica ed imprenditoriale della società, indirettamente incidenti sul patrimonio dei singoli soci che, pertanto, in quanto tali, non costituiscono parti necessarie del giudizio concernente il distinto ed autonomo rapporto obbligatorio tra uno dei soci ed il suo creditore in funzione del ripristino della garanzia patrimoniale generica dovuta dal primo per assicurare la soddisfazione del credito. Ed infatti i conferintenti di beni in natura dei soci fondatori integrano negozi traslativi diretti in favore della società, sia essa personale o di capitali, la quale, pertanto, nella veste di parte acquirente, è l’unico necessario e legittimo contraddittore della domanda volta a renderli inopponibili, salvo l’interesse dei primi all’intervento adesivo in ragione dell’affidamento riposto nel confcrintento in natura, soprattutto se riguardi un bene essenziale all’attività sociale la cui eventuale perdita, per effetto dell’azione esecutiva del creditore particolare, ponga a rischio la stessa esistenza della società (cfr. Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 23891 del 22/10/2013; id. Sez. 2, Sentenza n. 23685 del 06/11/2014; id. Sez. 1, Sentenza n. 2536 del 09/02/2016).

La Corte di appello si è attenuta ai principi indicati e dunque la statuizione impugnata, con la quale il Giudice di merito ha ritenuto di non dovere estendere il contraddittorio nei confronti dell’altro socio, estraneo al rapporto credito-debitorio per il quale è stata chiesta la tutela revocatoria, va esente da censura.

Terzo motivo: violazione e falsa applicazione art. 24 Cost, art. 2697 c.c. ed art. 115 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Il ricorrente, impugna la statuizione che ha ritenuto raggiunta la prova della “scientia damni” della società britannica, acquirente del complesso immobiliare, sostenendo che il Tribunale aveva rigettato le istanze istruttorie in prova diretta (per interpello dei legali rappresentati pro tempore della società, nonchè per prove orali sulle analoghe circostanze capitolate nella memoria depositata in primo grado nei termini assegnati ai sensi dell’art. 183 c.p.c.) intesa a dimostrare che Coloho Ltd era del tutto ignara del credito vantato da Be.Id. (il capitolato di prova è riprodotto a pag. 18, nota 1 del ricorso), ed inoltre non aveva ammesso i testi indotti in prova contraria sul capitolato formulato dalla attrice, con conseguente illegittimo pregiudizio del proprio di diritto di difesa, pregiudizio non considerato dal Giudice di appello che aveva ritenuto di fondare la decisione sulle sole risultanze documentali, senza consentire alcuna prova contraria.

Quarto motivo: violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e art. 115 c.p.c. – violazione del principio di disponibilità della prova.

Deduce il ricorrente che la Corte territoriale avrebbe violato il principio di non contestazione, avendo basato la decisione sulle mere allegazioni di Be.Id., asserendo che non erano state idoneamente confutate da B.P.L., mentre tutte le allegazioni in fatto ed i documenti prodotti dalla Be. erano stati contestati.

Sesto motivo: violazione artt. 115 e 116 c.p.c., artt. 2727 e 2729 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Il ricorrente censura l’errata applicazione dello schema normativo della prova presuntiva deducendo che la Corte d’appello era incorsa negli stessi errori di rilevazione delle circostanze di fatto già commessi dal primo Giudice, dando rilievo ad elementi significativi della “scientia damni” basati su affermazioni contrastate dai documenti prodotti in giudizio o su mere illazioni.

I motivi, che possono essere esaminati congiuntamente, sono infondati.

Occorre premettere che la Corte d’appello non ha affatto affidato la propria decisione soltanto ai due elementi significativi indicati in motivazione (coincidenza del domicilio fiscale della società con quello di residenza dei coniugi; svolgimento delle attività di amministratore della società da parte della Z. (cfr. sentenza, in motiv. pag. 11) ma ha, invece, confermato l’intero impianto probatorio accolto dal primo Giudice ritenendo elementi probatori determinanti anche tutti i documenti prodotti in giudizio e le “affermazioni della Be.” (cfr. controricorso, pag. 10-12). In particolare dai documenti prodotti (registro britannico delle persone giuridiche) emerge che la società britannica ha un capitale misto composto da 100 sterline – distribuito in n. 100 azioni al portatore del valore unitario di 1 sterlina – nonchè da Euro 1.195.312,50 suddiviso in n. 50 azioni del valore ciascuna di Euro 23.906,25 intestate al debitore ed al suo coniuge in misura paritaria ed emesse dietro conferimento del complesso immobiliare ceduto alla società: l’irrisorio capitale sociale di cui era dotata Coloho Ltd al tempo della stipula dell’atto dispositivo, nonchè la sostanziale corrispondenza tra i valori patrimoniali del complesso immobiliare conferito ed il capitale sociale di detta società, ed ancora la quota di partecipazione assolutamente dominante attribuita ai conferenti, ha costituito, dunque, l’elemento indiziario catalizzatore che, unitamente anche ad altri convergenti elementi di valutazione, ha formato il convincimento della Corte d’appello in ordine all’accertamento dell’elemento soggettivo della “scientia damni” in capo alla società.

In tale contesto vengono a perdere rilievo le contestazioni mosse con i motivi di ricorso in esame, atteso che:

1- le “affermazioni della Be.”, cui si riferisce il Giudice di appello, non integrano allegazioni di determinati fatti storici -in relazione ai quali soltanto potrebbe predicarsi una violazione del principio di “non contestazione” di cui all’art. 115 c.p.c. – ma altro non sono che le stesse conclusioni logiche (utilizzo della società britannica come “contenitore vuoto” da riempire con il conferimento dell’intero patrimonio immobiliare di Be.Pi.) del procedimento induttivo originato dalla valutazione degli elementi indiziari risultanti dai fatti emersi dalla produzione documentale indicata: è pertanto del tutto inconferente la censura di violazione dell’art. 115 c.p.c., tanto più che il Giudice di merito contrariamente a quanto prospettato dal ricorrente- non ha richiamato il principio di non contestazione, ma ha rilevato piuttosto che le predette conclusioni cui era pervenuto (ritenendo fondata la tesi sostenuta da Be.Id.), non erano state efficacemente contrastate dalle prove offerte dal debitore;

2- in relazione all’indicato fondamento del convincimento tratto dal Giudice di appello, deve anche essere esaminata la censura di illegittimità della valutazione di irrilevanza o superfluità sottesa al rigetto delle istanze istruttorie, sia da parte del Tribunale che del Giudice di appello. Orbene è consolidata nella giurisprudenza di questa Corte l’affermazione per cui l’errata applicazione della norma processuale (nella specie in tema di rilevanza del mezzo di prova richiesto) comporta la cassazione della sentenza solo nel caso in cui l’erronea applicazione della regola processuale abbia comportato, per la parte, una lesione del diritto di difesa che abbia avuto riflessi sulla decisione di merito (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 4340 del 23/02/2010; id. Sez. 2, Sentenza n. 3024 del 07/02/2011; id. Sez. L, Sentenza n. 6330 del 19/03/2014; id. Sez. 5, Sentenza n. 26831 del 18/12/2014; id. Sez. 3, Sentenza n. 26157 del 12/12/2014): ne segue che la deduzione del vizio di legittimità deve essere veicolata dalla specificazione della pertinenza dei mezzi di prova richiesti e non ammessi (Corte cass. Sez. 2, Sentenza n. 3390 del 20/12/1962). Tanto premesso, quanto alla prova contraria con dodici testi, il ricorrente ha omesso del tutto di indicare quali fossero i capitoli in prova diretta dedotti dalla attrice, impedendo quindi ogni verifica in ordine alla decisività o meno delle circostanze da provare, considerato inoltre che la ragione fondante della decisione impugnata prescinde del tutto dalle prove orali dirette assunte nei gradi di merito, venendo quindi meno qualsiasi lesione del diritto di difesa per la mancata ammissione della prova contraria. Quanto alla prova per interpello e per testi, il capitolato (riprodotto in ricorso pag. 18 nota 1) difetta di pertinenza perchè i capitoli formulati non smentiscono in alcun modo le circostanze significative ritenute dalla Corte territoriale determinanti a ritenere raggiunta la prova della consapevolezza del pregiudizio arrecato alle ragione del creditore, non essendo smentita in alcun modo la circostanza dell’irrisorio capitale sociale di cui era dotata la società britannica prima del conferimento, della assenza di qualsiasi attività commerciale precedentemente compiuta dalla società, dell’impiego di detta società “quiescente” per operare il trasferimento dell’intero patrimonio immobiliare del debitore, venendo a ridursi l’alterità soggettiva in un mero simulacro coincidendo le determinazioni della società con le scelte dei due soci detentori dell’assoluta maggioranza delle quote di partecipazione;

3- analogamente non determinanti appaiono i rilievi svolti con il sesto motivo, in quanto, da un lato, relativi a circostanze (la Z. non era legale rappresentante di Coloho Ltd; solo successivamente alla stipula del contratto il domicilio fiscale della società era stato trasferito presso la residenza dei conferenti) inidonee a destituire la efficacia probatoria del procedimento presuntivo posto a fondamento della decisione, e, dall’altro, comunque non assistiti dal requisito di ammissibilità del motivo prescritto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 che, oltre a richiedere la “specifica” indicazione degli atti e documenti posti a fondamento del ricorso, esige che sia specificato in quale sede processuale il documento, pur individuato in ricorso, risulti prodotto (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 28547 del 02/12/2008; id. Sez. 3, Ordinanza n. 20535 del 23/09/2009; id. Sez. U, Ordinanza n. 7161 del 25/03/2010; id. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 124 del 04/01/2013; id. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 27475 del 20/11/2017): tale puntuale indicazione, quando riguardi un documento prodotto in giudizio, postula che si individui dove sia stato prodotto nelle fasi di merito, e, in ragione dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, anche che esso sia prodotto in sede di legittimità, con la conseguenza che, in caso di omissione di tale adempimento, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile (il ricorrente si è limitato ad indicare a pag. 25 del ricorso un “doc 1” senza alcun’altra necessaria specificazione).

Quinto motivo: violazione art. 111 Cost., art. 2901 c.c., art. 132 c.p.c. – omesso esame di fatti decisivi – art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4.

Il motivo di ricorso, per come lessicalmente formulato nella premessa (“si censura la sentenza impugnata sotto il duplice profilo della mancanza di motivazione, quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale, ai sensi dell’art. 132 c.p.c., comma 1, (recte comma 2), n. 4, e dell’omesso esame di un fatto storico….decisivo…”), si palesa intrinsecamente contraddittorio, posto che se la motivazione della sentenza difetta del tutto sotto l’aspetto dello scritto materiale o in relazione al suo – comprensibile – contenuto assertivo, non può evidentemente al tempo stesso risultare anche viziata nel suo risultato ricostruttivo del fatto, presupponendo il vizio di “errore di fatto” la esistenza di una motivazione conforme al requisito minimo richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6.

A quanto pare comprende, dalla esposizione illustrativa, il ricorrente si duole che il Giudice di appello non avrebbe rilevato che il credito successorio, vantato dalla Be., era posteriore alla stipula del contratto di conferimento, essendo deceduta la dante causa nel 2007, sicchè non era sufficiente l’accertamento in capo alla società acquirente della “scientia damni”, occorrendo, invece, la prova della preordinazione dolosa nel compimento dell’atto dispositivo pregiudizievole (questione che era stata dedotta con specifico motivo di gravarne – come indicato a pag. 22 ricorso -), difettando quindi nel caso di specie alcuna prova della collusione fraudolenta tra il debitore e la società acquirente.

Il motivo è inammissibile.

La Corte territoriale ha, infatti, motivato sul punto “per relationem” alla decisione di prime cure che aveva accertato la anteriorità della insorgenza del credito rispetto alla stipula dell’atto revocando, come emerge in modo inequivoco dalla trascrizione letterale (cfr. sentenza di appello, in motiv. pag. 11) del passaggio motivazionale della decisione di prime cure che fa esplicito riferimento all’art. 2901 c.c., comma 1, n. 2), laddove il Tribunale rileva con riferimento alla concreta fattispecie, quanto al presupposto soggettivo dell’azione, che la consapevolezza dell’evento lesivo da parte del terzo viene ad esaurirsi nella conoscenza del potenziale pregiudizio arrecato alle ragioni dei creditori, “non essendo necessaria la collusione tra terzo e debitore”.

Ne segue che, a fronte di un accertamento in fatto, in ordine alla anteriorità della insorgenza del credito, compiuto dal primo Giudice e confermato dal Giudice di appello, il vizio di legittimità deducibile non era quello di carenza assoluta di motivazione, atteso che la questione di fatto rimaneva logicamente esclusa dal “thema probandum” in base alla diversa ricostruzione della fattispecie concreta operata dal primo Giudice ed accolta dal Giudice del gravame (sicchè incorre nella declaratoria di inammissibilità la censura di nullità della sentenza), ma è piuttosto quello – anch’esso prospettato nella rubrica – di omessa considerazione di un fatto decisivo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5: censura quest’ultima che, tuttavia, va incontro egualmente ad inammissibilità ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), non avendo neppure indicato il ricorrente se e quale mezzo di prova sia stato ritualmente acquisito al giudizio a dimostrazione del fatto allegato, e dove la Corte possa rintracciarlo tra gli atti del giudizio di merito (non essendo indicato tale documento neppure tra gli atti depositati in allegato al ricorso, a pena di improcedibilità, ai sensi dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4).

– In conclusione il ricorso deve essere rigettato e la parte soccombente va condannata alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in dispositivo.

PQM

rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.800,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 27 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 15 novembre 2019

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