Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2970 del 07/02/2011

Cassazione civile sez. lav., 07/02/2011, (ud. 09/11/2010, dep. 07/02/2011), n.2970

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIDIRI Guido – Presidente –

Dott. DE RENZIS Alessandro – Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

Dott. FILABOZZI Antonio – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 9365-2007 proposto da:

L.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DELLE TRE

MADONNE 8, presso lo studio dell’avvocato MARAZZA MAURIZIO, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato CARDILLO CARLO, giusta

delega in atti;

– ricorrente –

contro

BANCA POPOLARE DI VERONA E NOVARA S.C.A.R.L., in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

PIERLOIGI DA PALESTRINA 63, presso lo studio dell’avvocato CONTALDI

MARIO, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati

BURRAGATO GUGLIELMO, ICHINO PIETRO, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 813/2006 della CORTE D’APPELLO di GENOVA,

depositata il 10/08/2006 r.g.n. 587/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

09/11/2010 dal Consigliere Dott. ROSA ARIENZO;

udito l’Avvocato CARDILLO CARLO;

udito l’Avvocato CONTALDI GIANLUCA per delega MARIO CONTALDI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 10 agosto 2006, la Corte di appello di Genova rigettava il gravame interposto avverso la sentenza del Tribunale di Sanremo, con la quale era stato respinto il ricorso di impugnativa di licenziamento intimato il 9.7.2001 per giusta causa a L. G. dalla società coop a r.l. Banco Popolare di Verona e Novara.

In sintesi affermava la detta decisione l’esistenza di giudicato in relazione al rilievo afferente la tardività dell’intimato recesso e la dedotta revoca del licenziamento. Disattendeva, poi, le censure formulate con riguardo alla mancata affissione de codice disciplinare e, sulla base della espletata prova testi, riteneva accertati i fatti posti a fondamento della sanzione espulsiva e non attendibili le giustificazioni fornite per negare la sussistenza dalla giusta causa, Questa era stata ravvisata, in conformità a quanto ritenuto dal giudice di prime cure, in un comportamento del dipendente, riferito anche a fatti precedenti che avevano dato luogo ad applicazione di sanzione conservativa, nella consegna a terzi, clienti iscritti a partita sofferenziale, di distinte di versamento sottoscritte dal L. in bianco, utilizzate per eseguire operazioni a nome dello stesso presso la filiale di Brescia, nella negoziazione di assegni bancari fuori piazza emessi da nominativi in evidenza sofferenziale presso la banca, titoli restituiti impagati; nella consegna di fascicoli di assegni in numero rilevante a persone non intestatarie dei relativi rapporti di conto corrente; nella rilevante componente in contante, in accredito ed in addebito, sul suo conto, non riconducile all’attività svolta; nella circostanza che la cliente F.P., pluriprotestata – in favore e nell’interesse della quale erano state già commesse irregolarità contestate disciplinarmente in precedenza – aveva eseguito da (OMISSIS) n. 23 operazioni in contanti per oltre L. 36 milioni in favore di esso L., utilizzando documenti dallo stesso sottoscritti; nel versamento, infine, sul conto corrente del predetto di due assegni bancari da lire sei milioni ciascuno, restituiti impagati. Tratti da V.C., nominativo iscritto alla partita sofferenziale per analogo importo.

Propone ricorso con tre motivi, corredati di relativi quesiti di diritto, il L..

Resiste la Banca con controricorso ritualmente notificato.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Deduce il ricorrente: 1) la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. sulla base dell’orientamento giurisprudenziale al riguardo, nonchè la falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7 sempre sulla base dell’orientamento della S. C; propone, a conclusione delle esposizione del vizio denunciato quesito di diritto sull’ onere della prova in merito ai fatti contestati ed alla illecita provenienza delle somme di cui alle distinte di versamento a suo nome illegittimamente da altri utilizzate sul proprio conto; 2) la omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo prospettato dalle parti o rilevabile d’ufficio, nonchè falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 5 (art. 360 c.p.c., nn. 3 5), ed, infine, 3) violazione dell’art. 2105 c.c. in relazione alla L. n. 300 del 1970, art. 7 e della giurisprudenza al riguardo, nonchè omessa insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo per il giudizio (360, nn. 3 e 5).

Più specificatamente, con il primo motivo, si assume che, con riguardo alla contestazione disciplinare effettuata, non sussisteva alcun divieto di utilizzazione di distinte di versamento in bianco e si rileva che, dall’esame della documentazione in atti (circolare n. 4120 dell’8.8.1988 e circolare n. 20 del 14.2.1990), tale divieto non risultava prescritto dalla normativa interna cosi come dalla prova per testi esperita la circostanza non era affatto emersa. Si assume che il L. non aveva accesso alla banca dati attraverso la quale constatare, mediante la consultazione informatica aziendale di monitoraggio del rischio, lo stato di sofferenza dei clienti. Al riguardo richiama la già indicata circolare n. 4120 del 1988, ove veniva previsto che l’accertamento della solvibilità dei clienti dell’istituto compete alla Direzione o a persona dalla stessa delegata. Peraltro, contesta il L. che la Corte di merito ha, nella motivazione della sentenza, immutato in parte la contestazione originaria ed ha concluso formulando il seguente quesito : “Dica se nella fattispecie sussistono gli estremi della giusta causa secondo l’interpretazione consolidata dell’art. 2119 c.c.”. Pone, poi, ulteriore quesito sulla immutabilità della contestazione riferendosi al nuovo addebito della violazione delle norme antiriciclaggio e ad ulteriore contestazione relativa alla possibilità consentita alla cliente F.P., iscritta in partita sofferenziale, di non estinguere il suo debito verso l’istituto di credito, operando attraverso distinte firmate in bianco dal L., sul conto di quest’ultimo.

Il primo motivo deve ritenersi inammissibile.

La censura si incentra sulla inesistenza, nell’ambito della normativa bancaria, del divieto di utilizzazione di distinte di versamento in bianco, divieto che aveva indotto la società a contestare al L., tra gli altri, l’addebito consistente nella “consegna a terzi – nominativi già clienti ed ora iscritti a partita sofferenziale – di modulistica interna (distinta di versamento) della Banca, da lei sottoscritta in bianco, utilizzata per eseguire operazioni a suo nome e nel suo interesse presso la Filiale di Brescia n. (OMISSIS)”. Orbene, deve rilevarsi che le circolari interne della Banca richiamate, attestanti l’inesistenza dei divieto de quo e gli altri documenti cui si fa riferimento nella censura non sono stati indicati secondo le modalità previste per l’ottemperanza a principio di autosufficienza del ricorso prescritto per l’ammissibilità di quest’ultimo. Ed invero, secondo l’orientamento espresso da questa Corte, in tema di documenti, è stato affermato che non è sufficiente la trascrizione, nel ricorso, del documento cui si riferisce la censura, ma è altresì necessaria, l’indicazione della sede processuale del giudizio di merito in cui la produzione è avvenuta e del luogo in cui nel fascicolo d’ufficio o in quelli di parte, rispettivamente acquisito e prodotti in sede giudizio di legittimità essa è rinvenibile. Questa Corte ha anche poi ribadito che, se applicato al rito del lavoro, il principio richiede come indispensabile la precisazione che il documento sia stato esibito in comunicazione in conformità a quanto statuito dell’art. 414 c.p.c., n. 3 e n 4, “dovendosi escludere la sufficienza dell’indicazione della “mera allegazione” di documenti all’atto iniziale della controversia non accompagnata dalla specificazione del loro recepimento, in tali atto, nelle parti idonee ad attestarne la rilevanza a fini decisori (cfr, ex plurimis, Cass. 1.8.2008 n. 21032).

Ma, anche prescindendo dalle esposte considerazioni, si rileva che le argomentazioni poste a fondamento del motivo di ricorso si incentrano tutte sulla dedotta omessa motivazione da parte della corte territoriale in ordine a circostanze formanti oggetto della contestazione disciplinare e poste a sostegno del licenziamento (addebito mosso relativamente al versamento sul proprio conto corrente di due assegni di L. 6.000.000 ciascuno, a firma di V. C., risultati poi privi di provvista e conseguentemente protestati) e a considerazioni circa la mancata conferma da parte dei testi circa la esistenza di una rilevante componente di contante sul conto del L.. Analogamente si contesta che alcuna prova sia stata fornita da parte di Banca datrice di lavoro sulla ulteriore contestazione relativa alla “rilevante componente di contante, in accredito e in addebito, non riconducibile all’attività da lei svolta” ovvero in ordine alla prova rigorosa che non sarebbe stata fornita dalla Banca circa l’asserita circostanza che il L. sarebbe stato nulla più che un prestanome della signora F. P., intravedendo in tale circostanza ulteriore anche una non consentita modificazione dell’originaria contestazione. Si afferma che la Corte “è quindi incorsa in decisivi errori- mediante, altresì, come meglio verrà specificato in appresso, un percorso argomentativo caratterizzato dalla cennate carenze motivazionali – nella valutazione della gravità delle infrazioni addebitate al lavoratore e della prova delle stesse”.

Da quanto detto emerge che il ricorrente, attraverso i passaggi argomentativi della censura, avanza sostanzialmente una richiesta – inammissibile in questa sede di legittimità – di rivalutazione del materiale probatorio acquisito nel processo.

Questa Corte di cassazione – ribadendo un indirizzo giurisprudenziale costante – proprio in una fattispecie riguardante l’illegittimità di un licenziamento – ha statuito che è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione per vizio di motivazione qualora esso intenda far valere la rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice al diverso convincimento soggettivo della parte e, in particolare, prospetti un preteso migliore e più appagante coordinamento dei dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito di discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice di merito e non ai possibili vizi del percorso formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi del dedotto vizio. In caso contrario, infatti, tale motivo di ricorso si risolverebbe in una inammissibile istanza di deviazione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, e perciò in una richiesta diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione (cfr., da ultimo, ex plurimis, Cass. 26 marzo 1010 n. 7394).

Da ultimo, deve rilevarsi che anche i quesiti diritto per come formulati non rispondono ai canoni di cui all’art. 366 bis c.p.c., risultando esposta solo una richiesta generica di accertamento della violazione della norma di legge, laddove il quesito di diritto di cui all’art. 366 bis cod. proc. civ. deve comprendere l’indicazione sia della “regula iuris” adottata nel provvedimento impugnato, sia del diverso principio che il ricorrente assume corretto e che si sarebbe dovuto applicare in sostituzione del primo, la mancanza anche di una sola delle due suddette indicazioni rendendo il ricorso inammissibile (cfr. Cass. 30.9.2008 n. 24339, cui adde, tra le tante, Cass. 19 febbraio 2009 n. 4044)).

Rileva, poi, la Corte che anche il secondo motivo di impugnazione è inammissibile, atteso che, secondo consolidato orientamento giurisprudenziale, “qualora il ricorrente, in sede di legittimità, denunci l’omessa valutazione di prove testimoniali, ha l’onere non solo di trascriverne il testo integrale nel ricorso per cassazione, al fine di consentire il vaglio di decisività, ma anche .di specificare i punti ritenuti decisivi, risolvendosi, altrimenti, il dedotto vizio di motivazione in una inammissibile richiesta di riesame del contenuto delle deposizioni testimoniali e di verifica dell’esistenza di fatti decisivi sui quali la motivazione è mancata ovvero è stata insufficiente o illogica” ( cfr, tra le altre, Cass 19 marzo 2007 n. 6640; Cass, 7 dicembre 2005 n. 26990). Ed ancora è stato affermato che il vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità ex art. 360 c.p.c., n. 5, sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia e non può invece consistere – come già ricordato – in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, perchè la citata norma non conferisce alla Corte di Cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, e scegliere tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (cfr. in tal senso, tra le altre, Cass. 23.12.2009 n. 27162).

Nella specie, non ravvisandosi nell’iter argomentativo del Giudice d’appello violazioni di legge ed incongruenze o deficienze motivazionali, il motivo deve essere disatteso.

Con il secondo motivo, infatti il ricorrente lamenta sostanzialmente la valutazione delle deposizioni testimoniali rese in corso di istruttoria per ribadire la fondatezza delle sue richieste. Si rileva al riguardo che anche la questione della erroneità della applicazione di sanzione massima laddove il ccnl contemplava per comportamenti corrispondenti a quelli contestati sanzioni minori risulta inammissibile per come prospettata, involgendo valutazioni di merito non consentite ed essendo la motivazione adottata al riguardo dalla corte territoriale ampiamente esaustiva con riguardo alla necessità di ricondurre la pluralità di addebiti, complessivamente considerati, non alle singole fattispecie previste dalla clausole contrattuali, ma all’ipotesi astratta che prevede la massima sanzione, in ragione della connotazione più intensa che assume l’elemento “fiducia” nel rapporto di lavoro bancario.

li terzo motivo – con il quale si addebita alla impugnata sentenza di non avere tenuto conto del disposto dell’art. 7, comma 1, Statuto dei lavoratori, per non essere stata data la prescritta pubblicità al codice disciplinare in un luogo a tutti accessibile – deve ritenersi privo di fondamento. Ed invero – al di là dell’assorbente considerazione dell’adeguatezza del quesito di diritto formulato ex art. 366 bis c.p.c. per concretizzarsi in una proposizione meramente assertiva senza alcun specifico riferimento al caso concreto – va ribadito ancora un volta, nel rispetto della nomofilachia, il principio secondo cui, in tema di sanzioni disciplinari, la garanzia di pubblicità del codice disciplinare mediante affissione in un luogo accessibile a tutti non si applica laddove il licenziamento faccia riferimento a situazioni concretanti violazione dei doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro (tra le altre, Cass. 18 settembre 2009 n. 2070; Cass. 14 settembre 2009 n. 19770).

Per concludere, il ricorso va rigettato e va confermata la sentenza impugnata per essere la stessa supportata da una motivazione che, oltre ad essere congrua e priva di salti logici, ha fatto corretta applicazione della normativa applicabile alla fattispecie in esame.

Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte così provvede:

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite, di cui Euro 41,00 per spese ed Euro 3000,00 per onorario, oltre spese generali, IVA e CPA ai sensi di legge.

Così deciso in Roma, il 9 novembre 2010.

Depositato in Cancelleria il 7 febbraio 2011

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