Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29681 del 12/12/2017


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Cassazione civile, sez. VI, 12/12/2017, (ud. 15/11/2017, dep.12/12/2017),  n. 29681

Fatto

FATTI E RAGIONI DELLA DECISIONE

C.F. e C.S. propongono ricorso per cassazione, affidato a due motivi, impugnando la sentenza resa dalla CTR Lombardia indicata in epigrafe con la quale, in accoglimento del ricorso introduttivo e decidendo in sede di rinvio disposto da questa Corte di cassazione con ordinanza n.22367/2014, sono stati annullati gli avvisi emessi a carico dei contribuenti per la ripresa a tassazione di vari tributi in qualità di soci della S.r.l. Neptim, cancellata dal registro delle imprese il 27.12.2007, con compensazione delle spese dell’intero giudizio e rigetto della richiesta di rimborso del contributo unificato. Secondo il giudice di appello ricorrevano i presupposti per la compensazione delle spese, tenuto conto del comportamento tenuto dai ricorrenti, i quali si erano liberati delle quote sociali solo pochi giorni prima dell’approvazione del piano di riparto relativo al bilancio finale di liquidazione della società e dei peculiari caratteri della vicenda sottostante agli accertamenti.

L’Agenzia delle entrate ha depositato controricorso. I ricorrenti hanno depositato memoria.

Il procedimento può essere definito con motivazione semplificata.

Con il primo motivo si prospetta la violazione dell’art. 92 c.p.c. come modificato da D.L. n. 132 del 2014 e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 15, lamentandosi altresì l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui aveva posto a carico dei ricorrenti vittoriosi i contributi unificati dei gradi di giudizio.

Il motivo è fondato nei limiti di seguito esposti.

Giova premettere che, per effetto del D.L. 12 settembre 2014, n. 132, art. 13, coordinato con la L. di conversione 10 novembre 2014, n. 162, recante: “Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile”, l’art. 92 c.p.c., comma 2 è stato sostituito nel senso che “Se vi è soccombenza reciproca ovvero nel caso di assoluta novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti, il giudice può compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero”. L’art. 13, comma 2 ha poi chiarito che “La disposizione di cui al comma 1 si applica ai procedimenti introdotti a decorrere dal trentesimo giorno successivo all’entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto”, coincidente con il 10.11.2014.

Orbene, la censura che i ricorrenti propongono si fonda, quanto alla prima parte concernente il regime delle spese processuali, sul presupposto che l’art. 92 c.p.c.debba trovare applicazione nel testo come modificato dal ricordato D.L. n. 132 del 2014, art. 13. Si tratta di un presupposto errato, posto che il procedimento per cui è causa era stato iniziato in epoca ben anteriore all’entrata in vigore della legge di conversione del citato d.l., come si evince agevolmente dallo stesso ricorso per cassazione dei contribuenti, ove si dà atto della sentenza resa dalla CTP di Milano in data 25.3.2011.

La prima parte del primo motivo di ricorso, ove si prospetta la violazione dell’art. 92 c.p.c. ascrivibile alla CTR laddove avrebbe compensato le spese dell’intero giudizio fuori dai tassativi casi introdotti dalla anzidetta disposizione nel testo novellato dal D.L. n. 132 del 2014, è dunque infondata.

Risulta per contro fondata la censura, pure contenuta nel primo motivo, con la quale si prospetta l’erroneità della statuizione del giudice di appello che, dopo aver disposto la compensazione delle spese, ha ritenuto dovuti dai ricorrenti i contributi unificati in adempimento di un obbligo di legge.

Ed infatti, la CTR ha omesso di considerare la disposizione di cui all’art. 15, comma 2 ter, introdotta dal D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 156, recante Misure per la revisione della disciplina degli interpelli e del contenzioso tributario, in attuazione della L. 11 marzo 2014, n. 23, art. 6, comma 6, e art. 10, comma 1, lett. a) e b), entrata in vigore l’1.1.2016 e, dunque, in epoca anteriore alla pubblicazione della sentenza impugnata. Alla stregua di suddetta disposizione Le spese di giudizio comprendono, oltre al contributo unificato, gli onorari e i diritti del difensore, le spese generali e gli esborsi sostenuti, oltre il contributo previdenziale e l’imposta sul valore aggiunto, se dovuti.

Sulla base di siffatta previsione il giudice di appello, nel liquidare le spese dell’intero giudizio, avrebbe dovuto considerare che proprio la disposta compensazione impediva che fosse posto integralmente a carico dei ricorrenti il contributo unificato dai medesimi corrisposto, lo stesso dovendo seguire il regime determinato dal giudice per le spese del giudizio, al cui interno si colloca, in forza della disposizione sopra ricordata, il contributo unificato.

Con il secondo motivo si deduce la violazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 6 bis 1 anche in relazione all’art. 24 Cost. e art. 6 CEDU. Secondi i ricorrenti il giudice di appello avrebbe dovuto fare applicazione analogica del ricordato art. 13, nella parte in cui ammette, nell’ambito del procedimento amministrativo, il riconoscimento integrale del contributo anche per le ipotesi di compensazione delle spese giudiziali.

Il motivo è infondato.

Ed invero, questa Corte ha già chiarito che dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, emerge che il contributo unificato atti giudiziari costituisce una obbligazione ex lege sottratta alla potestà del giudice di liquidarne autonomamente l’ammontare, poi aggiungendosi che il contributo unificato atti giudiziali costituisce un’obbligazione ex lege gravante sulla parte soccombente, sicchè, anche in caso di mancata menzione da parte del giudice in sede di quantificazione della condanna alle spese, la relativa statuizione include, implicitamente, l’imposizione della restituzione alla parte vittoriosa di quanto versato, senza che si renda necessaria alcun correzione, per errore materiale, del provvedimento giudiziale e restando il pagamento verificabile, anche in sede esecutiva, con la corrispondente ricevuta – Cass. n. 2691/2016; Cass. n. 23830/2015; Cass. n. 18828/2015-.

In definitiva, questa Corte è ferma nell’agganciare il riconoscimento del contributo unificato alla statuizione di condanna alle spese del soccombente.

In questa direzione, del resto, milita proprio il terzo comma dell’art. 158 t.u. ult. cit., laddove prevede che Le spese prenotate a debito e anticipate dall’erario sono recuperate dall’amministrazione, insieme alle altre spese anticipate, in caso di condanna dell’altra parte alla rifusione delle spese in proprio favore, ancora una volta lasciando intendere che il recupero del contributo unificato da parte dell’erario è comunque agganciato ad una statuizione di condanna del soccombente.

Ora, i ricorrenti prospettano l’applicazione analogica al caso di specie -nel quale non vi è stata condanna al pagamento delle spese da parte del soccombente, ma una semplice compensazione- del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 6 bis 1, introdotto dal D.L. 13 agosto 2011, n. 138, art. 2, comma 35 bis, lett. e), come integrato dalla L. di conversione 14 settembre 2011 n. 148, a cui tenore “L’onere relativo al pagamento dei suddetti è dovuto in ogni caso dalla parte soccombente, anche nel caso di compensazione giudiziale delle spese e anche se essa non si è costituita in giudizio”.

Disposizione, quest’ultima, applicabile al processo amministrativo.

Orbene, come chiarito dal Consiglio di Stato, il contributo nella misura indicata dal citato art. 13 è, nel processo amministrativo, oggetto di una obbligazione ex lege sottratta alla potestà del giudice, sia quanto alla possibilità di disporne la compensazione, sia quanto alla determinazione del suo ammontare, tanto da non richiedere alcuna pronuncia in merito da parte del giudice. In tale prospettiva il legislatore con l’espressione “in ogni caso”, da un lato, si riferisce alla circostanza che l’obbligo del rimborso a carico del soccombente deriva direttamente ed automaticamente dalla legge per cui, sul punto, non è necessario l’inserimento di una specifica statuizione della sentenza, mentre, dall’altro, stabilisce, altresì, che tale obbligo sussiste in capo alla parte soccombente anche quando questa non abbia resistito alla chiamata in giudizio (cioè non si sia costituita) oppure quando sia stata esonerata dal corrispondere le spese di lite alla controparte vittoriosa, avendo il giudice disposto la compensazione delle spese del giudizio tra le parti -cfr. Cons. Stato, sez. 3, n. 1160/2014, Cons. Stato, sez. 3, n. 4167/2016-.

Orbene, la richiesta di applicazione della disposizione anzidetta in via analogica al processo tributario ed al caso qui in esame, nel quale il giudice di appello ha, in sede di rinvio, compensato le spese fra le parti pur accogliendo il ricorso introduttivo dei contribuenti, non può trovare accoglimento.

Ed invero, non è ravvisabile un’eadem ratio tra la disciplina prevista specificamente per i giudizi innanzi al giudice amministrativo, nei quali gli importi del contributo unificato hanno una loro precisa determinazione e risultano specificamente disciplinati dall’art. 13, comma 6 bis 1 cit. -nettamente distinguendo il contributo unificato nel processo civile, come risulta dall’art. 9 T.U. spese giustizia cit.- e quella in tema di compensazione innanzi all’autorità giudiziaria ordinaria -alla quale rinvia la disposizione di ordine generale di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 1, comma 2 – e tributaria.

Giova infatti rammentare che il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1, innovando la disciplina anteriore – D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 642 – fondata sul pagamento della marca da bollo da corrispondere all’atto dell’iscrizione a ruolo, ha previsto un regime di tassazione degli atti giudiziari, costituito da un “contributo unificato”, nel quale sono stati introdotti i criteri, alternativi o concorrenti, della materia e della proporzione al valore della controversia.

Tale disciplina venne estesa al processo tributario dal D.L. 6 luglio 2011, n. 98, art. 37, comma 6, convertito, con modificazioni, dalla L. 15 luglio 2011, n. 111, art. 1,comma 1, che ha modificato il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 9, comma 1 – a tenore del quale il contributo unificato di iscrizione a ruolo è dovuto per ciascun grado di giudizio nel processo civile, compresa la procedura concorsuale e di volontaria giurisdizione, nel processo amministrativo e nel processo tributario-.

Quanto alla determinazione del contributo, il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13 ha previsto criteri diversi per il processo civile, amministrativo e tributario, posto che nel primo per la quantificazione del contributo – come determinato dai primi sei commi del predetto art. 13 – assumono rilievo non solo la materia ma anche il valore della controversia. Quanto al processo amministrativo, -comma 6-bis del medesimo articolo – è stato introdotto il criterio della differenziazione per materia, mentre nel processo tributario il successivo comma 6-quater ha previsto importi per scaglioni di valore delle liti.

Ancora diversa risulta la regolamentazione fra i diversi riti relativa ai criteri per l’individuazione degli obbligati al pagamento e per la determinazione del valore dei processi. Ed infatti, il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 14 ha previsto che nel processo civile il valore, fissato mediante rinvio alle disposizioni del codice di procedura civile, deve risultare da apposita dichiarazione resa dalla parte nelle conclusioni dell’atto introduttivo. Per quanto riguarda il processo amministrativo è prevista una disciplina specifica per i ricorsi in materia di affidamento di lavori pubblici, servizi e forniture e contro i provvedimenti delle autorità amministrative indipendenti. Infine, nel processo tributario il comma 3-bis dell’art. 14, nel testo precedente le modifiche apportate dalla legge n. 147 del 2013, prevedeva che “…il valore della lite, determinato ai sensi del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 12, comma 5, e successive modificazioni, deve risultare da apposita dichiarazione resa dalla parte nelle conclusioni del ricorso, anche nell’ipotesi di prenotazione a debito”.

Giova ancora rammentare che il D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 12, comma 5, – nel testo vigente anteriormente alle modifiche introdotte dal D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 156, stabiliva che “Per valore della lite si intende l’importo del tributo al netto degli interessi e delle eventuali sanzioni irrogate con l’atto impugnato; in caso di controversie relative esclusivamente alle irrogazioni di sanzioni, il valore è costituito dalla somma di queste”.

La L. n. 147 del 2013, art. 1, comma 598, ha modificato il menzionato comma 3-bis dell’art. 14, specificando che il valore della lite è determinato “per ciascun atto impugnato anche in appello”.

Orbene, risulta evidente che rispetto ai ricordati plessi giurisdizionali il legislatore, nell’esercizio delle sue ampie prerogative discrezionali, nel conformare istituti e discipline processuali, nel limite (nella specie non superato) della non arbitrarietà e ragionevolezza (Corte cost. n. 43/2010, Corte cost. n. 237/2007, Corte cost. n. 341/2006; Corte cost. nn. 405 e 376/2007, nonchè n. 101/2006) non ha previsto, quanto al rito ordinario e tributario in ordine al contributo unificato, alcuna disposizione di segno analogo all’ipotesi di compensazione delle spese processuali prevista nel processo amministrativo ed ha specificamente disciplinato, in maniera autonoma rispetto al processo amministrativo, le ipotesi di compensazione delle spese processuali -v., infatti, da ultimo, il già ricordato D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 156, art. 9 che ha modificato il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 15 -.

Non sono dunque ravvisabili omogeneità di materia nè identità di posizioni fra il giudizio innanzi al giudice ordinario e/o tributario e quello amministrativo tali da potere giustificare un vulnus in punto di ragionevolezza o deficit di eguaglianza della disciplina sopra ricordata.

In definitiva, la specificità del rito tributario, unitamente alla previsione di chiusura contemplata dal ricordato D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 1, comma 2, sembrano giustificare una differente regolazione che si manifesta, appunto, nella mancata previsione, frutto essa stessa di una scelta discrezionale del legislatore nazionale, di una disciplina, in punto di contributo unificato, pienamente sovrapponibile a quella prevista nell’ambito del giudizio amministrativo.

In definitiva, dall’esposto esame del quadro normativo di riferimento, risulta evidente la difficoltà ad individuare un principio o una fattispecie suscettibile di analogia, utilizzabile nel presente giudizio quale tertium comparationis (v., Corte cost. n. 78/2016).

D’altra parte, la diversità di regime fra procedimenti giurisdizionali interni non incide nemmeno sul principio di equivalenza di matrice eurounitaria – comunque rilevante in parte qua tenuto conto dell’oggetto della contestazione nella quale era pure compreso un tributo armonizzato-.

Ed infatti, la Corte di Giustizia ha chiarito, proprio riferendosi al principio di equivalenza che lo stesso, implicando un pari trattamento dei ricorsi fondati su una violazione del diritto nazionale e di quelli, simili, fondati su una violazione del diritto dell’Unione, non richiede l’equivalenza delle norme processuali nazionali applicabili a contenziosi di diversa natura, quali il contenzioso civile, da un lato, e quello amministrativo, dall’altro, o a contenziosi che ricadono in due differenti settori del diritto (v. Corte giust., OBB Personenverkehr, C-417/13, EU:C:2015:38, punto 74, Corte giust. 6 ottobre 2015, C-61/14, Orizzonte Salute – Studio Infermieristico Associato, p.67, Conci. dell’Avvocato Generale Niilo Jaaskinen presentate il 7 maggio 2015 nella causa 61/14, p. 31, Conci. Avv. Gen. Niilo Jaaskinen nella causa 69/14, pp.50 e 51).

In conclusione, il diretto riferimento al contenzioso ordinario civile operato dal legislatore nel disciplinare il procedimento innanzi al giudice tributario, rientrando nelle prerogative discrezionali, mette al riparo la regolamentazione in atto in vigore dalle censure prospettate dai ricorrenti.

Vale, infine, la pena di evidenziare che risulta inammissibile la prospettata violazione dell’art. 6 CEDU, oggetto di mera asserzione, priva di alcun riscontro argomentativo in grado di giustificare la pretesa lesione del diritto ad un processo equo e ad una tutela giurisdizionale effettiva. Ed infatti, rispetto a tale generica censura la parte non ha indicato alcuno dei profili sui quali questa Corte dovrebbe indirizzare la sua indagine essendo l’art. 6 CEDU appena indicato disposizione che contempla, al suo interno, vari e diversi profili che ruotano al tema del giusto processo Risulta per l’effetto impossibile (e dunque inammissibile la censura) individuare il contenuto specifico del motivo con riferimento all’invocato parametro normativo, apparendo in ogni caso opportuno precisare che, secondo la giurisprudenza della Corte edu, l’obbligo di pagare tributi in relazione a giudizi civili non può di per sè essere considerato come restrizione al diritto all’accesso alla giustizia incompatibile in quanto tale con l’articolo 6, paragrafo 1, della CEDU -cfr.Corte edu, 12 luglio 2007, Stankov c. Bulgaria, p. 52-.

La censura va quindi rigettata.

In conclusione, in parziale accoglimento del primo motivo, rigettato il secondo, la sentenza impugnata va cassata senza rinvio, non occorrendo ulteriore istruttoria, nella sola parte in cui pone a carico dei ricorrenti l’intero importo del contributo unificato relativo alle varie fasi del giudizio.

Ricorrono giusti motivi, in relazione alla parziale soccombenza reciproca, per compensare tra le parti le spese del giudizio di legittimità, ivi compreso il contributo unificato.

PQM

La Corte, in parziale accoglimento del ricorso, cassa senza rinvio la sentenza impugnata nella sola parte in cui pone a carico dei ricorrenti l’intero importo del contributo unificato e, decidendo nel merito, dichiara compensato tra le parti anche il contributo unificato.

Compensa le spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, il 15 novembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 12 dicembre 2017

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