Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29661 del 16/11/2018

Cassazione civile sez. II, 16/11/2018, (ud. 06/07/2018, dep. 16/11/2018), n.29661

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MATERA Lina – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 24339/2014 proposto da:

T.N., rappresentata e difesa dall’Avvocato LUIGI PARENTI, ed

elettivamente domiciliata presso il suo studio in ROMA, VIALE DELLE

MILIZIE 114;

– ricorrente –

contro

T.G., T.R., T.A. e TU.AN., quali

eredi di Tu.Gu.;

– intimati –

avverso l’ordinanza n. 5791/2014 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,

depositata il 27/06/2014; e la sentenza n. 188/2013 del TRIBUNALE di

LANCIANO, depositata l’8/05/2013;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

6/07/2018 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con atto di citazione del 30.8.2008, T.N. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Lanciano il fratello TU.GU., chiedendo in via principale, su consenso delle parti, di sentire disporre, a cura del Giudice designato, la divisione dei beni immobili indicati in premessa e/o degli ulteriori che dovessero ricadere in comunione, secondo un progetto predisposto da lui o da un notaio incaricato, con eventuale ausilio di un consulente tecnico; in via subordinata, e in caso di contestazione sulla divisibilità dei beni o del progetto predisposto, secondo il disposto degli artt. 788 e 789 c.p.c., statuita la divisibilità dei beni, approvare, con sentenza, il progetto di ripartizione predisposto dal G.I. o da un notaio delegato. L’attrice esponeva che in data 28.6.1984 era deceduta la propria madre, E.D.R. e che unici eredi ab intestato erano lei e il fratello Gu..

Si costituiva in giudizio Tu.Gu., il quale, in via principale, chiedeva, previa declaratoria di accertamento del suo possesso continuato per oltre 20 anni, rigettare le domande spiegate da parte attrice in quanto inammissibili e comunque infondate, anche per maturata usucapione e per l’effetto, in via riconvenzionale, accertare e dichiarare l’intervenuta usucapione dei terreni, per possesso pacifico, indisturbato, nec vi et clam e senza soluzione di continuità per tutto il detto periodo ventennale; in via subordinata, nella denegata ipotesi di rigetto della domanda di usucapione, condannare l’attrice alla refusione delle spese sostenute per le migliorie apportate agli immobili da quantificare in corso di causa.

La causa era istruita mediante l’espletamento di CTU, l’escussione di testi e l’interrogatorio formale dell’attrice.

All’udienza del 27.5.2011, dato atto del decesso di Tu.Gu., si costituivano gli eredi del medesimo, T.G., T.R., T.A. e TU.AN..

All’udienza del 5.10.2012, dato atto della rinuncia all’eredità di TR.CO. e TU.NA. (rispettivamente madre e figlia del de cuius), il Giudice fissava l’udienza di precisazione delle conclusioni.

Con sentenza n. 188/2013, depositata in data 8.5.2013, il Tribunale di Lanciano rigettava la domanda attorea; in accoglimento della domanda riconvenzionale, dichiarava gli immobili siti nel Comune di Gessopalena oggetto del contendere (ad esclusione del terreno censito in NCT, al foglio (OMISSIS), particella (OMISSIS), in quanto donato dalla madre E.D.R. alla Cooperativa Pietrapenta) di esclusiva proprietà di Tu.Gu. per intervenuta usucapione ultraventennale.

Avverso detta sentenza proponeva appello T.N., chiedendo di rigettare le domande di usucapione e disporre la divisione dei beni immobili per cui è causa.

I convenuti non si costituivano in giudizio.

Con ordinanza n. 5791/2014, depositata il 27.6.2014, la Corte d’Appello di L’Aquila dichiarava l’inammissibilità dell’appello ritenendo che, ai sensi dell’art. 348 bis c.p.c., non avesse alcuna ragionevole probabilità di essere accolto.

T.N. impugna l’ordinanza n. 5791/2014 della Corte d’Appello di L’Aquila, nonchè la sentenza n. 188/2013 emessa da Tribunale di Lanciano, sulla base di tre motivi, illustrati da memoria; gli intimati T.G., R., A. e An. non hanno svolto difese.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Preliminarmente, va rilevato che la ricorrente ha impugnato congiuntamente in cassazione sia la declaratoria di inammssibilità dell’appello (in mancanza di una ragionevole probabilità che questo fosse accolto) pronunciata dalla Corte d’appello di L’Aquila con ordinanza ai sensi degli artt. 348 bis e ter c.p.c., sia la sentenza di primo grado del Tribunale di Lanciano, 188/2013, depositata in data 8.5.2013, giusto il disposto del citato art. 348 ter c.p.c., comma 3.

1.1. – Quanto al provvedimento della Corte aquilana, sovviene il principio secondo cui l’ordinanza di inammissibilità dell’appello resa ex art. 348 ter c.p.c., non è ricorribile per cassazione, nemmeno ai sensi dell’art. 111 Cost., comma 7, attesa la natura complessiva del giudizio “prognostico” che la caratterizza, necessariamente esteso a tutte le impugnazioni relative alla medesima sentenza ed a tutti i motivi di ciascuna di queste, ponendosi, eventualmente, in tale ipotesi, solo un problema di motivazione (Cass. sez. un. n. 1914 del 2916). Nella specie, l’ordinanza del giudice d’appello non contiene critiche alla decisione di primo grado, riferite all’eventuale inesattezza della motivazione, ovvero alla sostituzione di diversa argomentazione in punto di fatto o di diritto, o alla formulazione di diverse rationes decidendi; pertanto essa non possiede quel contenuto sostanziale decisorio di sentenza di merito, che ne consentirebbe l’autonoma impugnazione in cassazione nella parte in cui ha aggiunto ed integrato la motivazione del giudice di prime cure (cfr. Cass. n. 5655 del 1918; cfr. Cass. n. 3023 del 2018).

Di conseguenza deve essere dichiarato inammissibile il ricorso in cassazione contro di essa.

1.2. – Quanto al congiunto ricorso contro la sentenza di primo grado, la proponibiità dello stesso è, viceversa, espressamente prevista dell’art. 348 ter c.p.c., comma 3, che prevede che, allorquando sia pronunciata l’inammissibilità dell’appello, contro il provvedimento di primo grado può essere proposto, a norma dell’art. 360, ricorso per cassazione; in tal caso, il termine per il ricorso medesimo decorre dalla comunicazione o notificazione, se anteriore, dell’ordinanza che dichiara l’inammissibilità, applicandosi l’art. 327, in quanto compatibile.

Orbene, nella specie, a fronte della comunicazione alla parte dell’ordinanza della Corte d’appello (che la ricorrente indica avvenuta in data 27/6/2014: v. ricorso pag. 1) risulta tempestiva la notifica del ricorso in cassazione a mezzo posta il (lunedì) 13 ottobre 2014.

2. – Con il primo motivo, la ricorrente deduce la “violazione e falsa applicazione degli artt. 714,1158 e 2730 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, giacchè il Tribunale ha erroneamente ritenuto sussistente in capo al T. l’inequivoca volontà – necessaria ai fini dell’usucapione dei beni ereditari da parte del coerede – di possedere “uti dominus” e non più “uti condominus” la cosa comune.

2.1. – Il motivo è fondato.

2.2. – Chi agisce in giudizio per ottenere di essere dichiarato proprietario di un bene, affermando di averlo usucapito, deve dare la prova di tutti gli elementi costitutivi della dedotta fattispecie acquisitiva e quindi, tra l’altro, non solo del corpus, ma anche dell’animus (Cass. n. 975 del 2000); il secondo, tuttavia, può eventualmente essere desunto in via presuntiva dal primo, se lo svolgimento di attività corrispondente all’esercizio del diritto dominicale sia già di per sè indicativo dell’intento, in colui che la compie, di avere la cosa come propria. Infatti, solo la sussistenza di un corpus, accompagnata dall’animus possidendi, corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà, che si protrae per il tempo previsto per il maturarsi dell’usucapione, raffigura il fatto cui la legge riconduce l’acquisto del diritto di proprietà (Cass. n. 9325 del 2011).

Ciò tanto più, allorquando si tratti della volontà del coerede in comunione di possedere il bene in via esclusiva uti dominus. Infatti, tale volontà deve estrinsecarsi nel godimento del bene in modo inconciliabile con la possibilità di godimento altrui, ossia in un’attività apertamente contrastante con il possesso altrui, gravando l’onere della relativa prova su colui che invoca l’avvenuta usucapione del bene. La giurisprudenza è costante nell’affermare che, con riferimento ai beni in comunione, non sia sufficiente il solo possesso perchè possa maturare l’usucapione, “occorrendo un comportamento materiale che esteriorizzi sin dall’inizio in maniera non equivoca l’intento di possedere il bene in maniera esclusiva” (Cass. n. 17630 del 2013).

In sostanza, deve risultare una inequivoca volontà di possedere uti dominus, non essendo sufficiente che il coerede abbia utilizzato e amministrato il bene ereditario, mediante atti di gestione consentiti al singolo compartecipante o anche atti familiarmente tollerati dagli altri, o ancora atti che, comportando solo il soddisfacimento di obblighi tributari o erogazioni di spese per il miglior godimento della cosa comune, non possono dare luogo ad un estensione del potere di fatto sulla cosa nella sfera di altro compossessore, ricorrendo la presunzione iuris tantum che egli abbia agito nella qualità di erede (Cass. n. 7075 del 1999; Cass. n. 16841 del 2005; Cass. n. 5416 del 2011; Cass. n. 15845 del 2012).

2.3. – Erroneamente, dunque, il Tribunale di Lanciano ha considerato provato il requisito dell’animus possidendi sulla base degli esiti della prova testimoniale, dalla quale è emerso che la coltivazione dei terreni fosse stata lasciata esclusivamente alla cura del T., il quale aveva provveduto alla manutenzione dei beni, ristrutturando anche l’edificio destinato a pagliaio. Siffatte condotte (riconducibili alla normale gestione ed utilizzazione del bene comune), non sono di per se la comprovare che, oltre alla sussistenza del corpus, si sia effettivamente accompagnata anche quella dell’animus possidendi, corrispondente all’esercizio dell’esclusivo diritto di proprietà.

Neppure, poi, può essere dato rilievo confessorio in tal senso, a quanto dichiarato in sede di interrogatorio formale dalla ricorrente, circa il fatto che il fratello, con tutta la famiglia, “vive ed occupa questi immobili da oltre venti anni” avendo occupato anche la parte della ricorrente dopo la morte della madre; laddove anche tale comportamento non appare idoneo a comprovare l’animus, in considerazione del fatto, in sè non certo univoco, che la stessa attrice aveva dichiarato di vivere lontano e di recarsi soltanto due o tre giorni all’anno, disinteressandosi (ma non spogliandosi), pertanto, di tali beni.

3. – Con il secondo motivo, la ricorrente deduce la “Violazione e falsa applicazione dell’art. 1144 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, in quanto il giudicante non ha valutato che, in presenza di rapporti di stretta parentela, si presume, di regola, la sussistenza degli atti di tolleranza ex art. 1144 c.c.: in presenza di tali rapporti è richiesta una prova particolarmente rigorosa dell’animus domini, il cui onere grava sull’usucapiente.

3.1. – Il motivo è fondato.

3.2. – Costituisce, come detto, principio consolidato quello secondo cui, per la sussistenza del possesso utile per usucapire occorre, oltre al riscontro di un comportamento continuo e non interrotto, inteso inequivocabilmente ad esercitare sulla cosa, per tutto il tempo prescritto dalla legge, l’esercizio di un potere corrispondente a quello del proprietario, non riconducibile però alla mera tolleranza del proprietario (v. Cass. n. 15446 del 2007).

Nella fattispecie, l’esistenza di un rapporto di stretta parentela tra le parti fa presumere la tolleranza ex art. 1144 c.c., salvo la prova contraria. Ai fini dell’usucapione è, infatti, necessaria (come già sottolineato) la manifestazione del dominio esclusivo sulla res da parte dell’interessato attraverso una attività apertamente contrastante ed inoppugnabilmente incompatibile con il possesso altrui, gravando l’onere della relativa prova su colui che invochi l’avvenuta usucapione del bene (vedi ex multis Cass. n. 1367 del 1999; Cass. n. 8152 del 2001; Cass. n. 19478 del 2007; Cass. n. 17462 del 2009; Cass. n. 4863 del 2010; Cass. n. 9325 del 2011; Cass. n. 12080 del 2018). E’ stato, quindi, affermato che, in tema di compossesso, il godimento esclusivo della cosa comune (nella specie gestione del fondo agricolo) da parte di uno dei compossessori non è, di per sè, idoneo a far ritenere lo stato di fatto così determinatosi funzionale all’esercizio del possesso ad usucapionem e non anche, invece, conseguenza di un atteggiamento di mera tolleranza da parte dell’altro compossessore, risultando necessario, a fini della usucapione, la manifestazione del dominio esclusivo sulla res communis da parte dell’interessato attraverso un’attività durevole, non frutto di mera tolleranza, apertamente contrastante ed inoppugnabilmente incompatibile con il possesso altrui, gravando l’onere della relativa prova su colui che invochi l’avvenuta usucapione del bene (Cass. n. 19478 del 2017; Cass. n. 17462 del 2009).

Orbene, il giudice di primo grado ha omesso di considerare che le attività di gestione dei beni e la coltivazione dei terreni, poste in essere dal T., avrebbero potuto configurarsi, oltre che normale utilizzazione dei beni, come atti di tolleranza ex art. 1144 c.c., inidonei ai fini dell’acquisto per usucapione, influendo sempre sul requisito dell’animus possidendi.

3.3. – Con il terzo motivo, la ricorrente lamenta la “violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c. e dell’art. 118 disp. att. c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, in quanto la sentenza di primo grado non risulterebbe sostanzialmente motivata.

4. – La censura è assorbita dall’accoglimento dei primi due motivi di ricorso.

5. – Pertanto, va dichiarata l’inammissibilità del ricorso contro l’ordinanza della Corte d’appello di L’Aquila ex art. 348 ter c.p.c.. Vanno accolti i primi due motivi del ricorso proposto avverso la sentenza del Tribunale di Lanciano, con assorbimento del terzo motivo; la sentenza impugnata va cassata, con rinvio in relazione alle censure accolte, alla Corte d’appello di L’Aquila, in diversa composizione, anche in ordine alla liquidazione delle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte dichiarata inammissibile il ricorso contro l’ordinanza della Corte d’appello di L’Aquila. Accoglie i primi due motivi del ricorso proposto avverso la sentenza del Tribunale di Lanciano, con assorbimento del terzo motivo; cassa la sentenza impugnata e rinvia, in relazione alle censure accolte, alla Corte d’appello di L’Aquila, diversa composizione, anche in ordine alla liquidazione delle spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 6 luglio 2018.

Depositato in Cancelleria il 16 novembre 2018

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